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E' finito il tempo dei tranquillanti tipo «tutto va bene nell'economia globale».
Ora suonano tutti insieme una miriade di campanelli d'allarme.
Wagner consiglia: non spendete più a credito, non gettate denaro preso in prestito in azioni «iper-inflazionate».
Il consiglio contrario a quello che veniva dato solo due settimane prima.
Il credito mondiale «si sta prosciugando», come dice il Telegraph (2).
E' bastato che la Banca Centrale Europea e il Giappone aumentassero lievissimamente il tasso d'interesse primario: e il sistema è così fragile da non sopportare un rincaro del denaro dello 0,25%.
L'allarme suona per il «carry trade», la più stupida (ma fino a ieri lucrosa) speculazione finanziaria pensabile.
Di che si tratta?
Gli speculatori prendono in prestito denaro dal Giappone, allo 0 %, o dalla Svizzera all'1%, e lo «investono» in USA (tasso primario 4,5%) o in bond argentini, o in ogni altro mercato che paghi frutti maggiori.

Profitti facili e ragguardevoli, anche perché i volumi del «carry trade» sono enormi.
Ma ora il Giappone, che sta uscendo dalla sua crisi deflattiva ultradecennale, ha cominciato a far pagare qualcosa di più il denaro che presta.
E qui è il dramma.
Perché lo spostamento di fiumi di denaro dal Giappone a tasso zero verso i tassi alti è «la macchina che ha fornito liquidità senza limiti alle banche e ai fondi speculativi sui derivati (hedge funds)», spiega il Telegraph.
E' questa liquidità a basso costo (il costo dei bassi tassi è stato accollato ai risparmiatori) ad aver alimentato tutte le bolle speculative – dagli immobili, ai consumi ai titoli – che fino a ieri ci venivano gabellate come «la trionfale ripresa» globale.
E' il denaro facile ad aver alimentato la febbre di «fusioni» e di «scalate» che abbiamo visto in questi anni.
Secondo la Banca del regolamenti internazionali, le scalate hanno mosso 3 mila miliardi di dollari nell'ultimo anno, con un aumento del 30% nel 2004.
Queste fusioni sono state fatte per lo più a credito.
Le grandi imprese scalatrici, ora, stanno pagando gli interessi.
Un rialzo dei tassi anche lieve, e vanno sotto quelle mega-aziende che la Borsa (e i giornali servi del potere) hanno salutato, ad ogni fusione e acquisizione, come «vincenti» e «trionfatori».
Fallimenti, bancarotte, recessione, perdita di posti.

Il «carry trade» ha alimentato soprattutto la giostra folle del derivati.
La Banca dei regolamenti internazionali valuta il giro dei derivati sui titoli e i tassi d'interesse a 2,4 trilioni di dollari «al giorno».
Al giorno, non all'anno.
Poi, a sorpresa, un granello di sabbia è entrato in questo enorme vortice di pseudo-capitale.
La crisi del '29 fu innescata dal fallimento di una piccola banca austriaca.
Stavolta, è toccato all'Islanda.
L'Islanda!
Conta poco nell'economia globale.
Così, il 21 febbraio scorso, una discutibile agenzia di rating (la Fitch, mai sentita nominare) ha ritenuto senza rischi di declassare il debito «sovrano» islandese, ossia i BOT dell'isola ghiacciata.
In poche ore la moneta locale (krone) è caduta del 9,2% sul dollaro, la Borsa islandese ha incassato perdite del 5,2 %.
E soprattutto, i BOT islandesi hanno dovuto pagare un tasso del 10,75%, perché qualcuno li comprasse.
E nonostante questo, il mercato della liquidità si è bloccato.
E non solo in Islanda.
Questo fatto, in tempi normali, non avrebbe avuto conseguenze.

Invece stavolta ha provocato effetti a cascata a distanze immense: Australia e Nuova Zelanda, Sud Africa e Brasile e Ungheria.
Tutti Paesi i cui BOT danno alti tassi, si sono visti a corto di liquidità.
Perché la globalizzazione, abolendo gli ostacoli alla fuga di capitali, ha abolito le dighe di contenimento dei disastri.
Ora il mondo è piatto, e l'ondata arriva dappertutto.
Panico.
Il mercato del «carry trade» si prosciuga.
I grandi «investitori» (speculatori), esposti con debiti immensi su cui pagano poco, da leoni sono diventati conigli.
Tanto più che la Banca Centrale di Tokio, visto che l'economia giapponese tira (grazie ai traffici con la Cina) al ritmo del 5,5% annuo, ha dichiarato di non aver più bisogno di prestare il suo denaro a costo zero, come faceva prima per «innescare» la ripresa.
I «grandi» operatori sui derivati movimentano, come si è detto, 2,4 trilioni di dollari al giorno.
Denaro che non hanno.
L'ha spiegato Timothy Geithner, presidente della Federal Reserve, i derivati sono «basati su una base di debito sottostante molto più piccola. Cioè, per ogni dollaro di debito di un'azienda, le banche possono emettere 10 dollari in derivati sul credito… nel caso di un fallimento (dall'azienda debitrice), i derivati perciò diventano moltiplicatori del rischio in dinamiche di mercato avverse» (3).

E pensare che la speculazione sui derivati era giustificata dall'ideologia corrente come «una forma di assicurazione» dei rischi finanziari.
Questa era la bugia.
Ora è il momento della verità.
Come ha detto Geithner «i derivati non hanno eliminato il rischio. Non hanno posto fine alla tendenza dei mercati a crisi di follia e di panico. Non hanno eliminato la possibilità di fallimento di un qualunque grosso intermediario finanziario. E non hanno isolato il sistema finanziario dagli effetti di tale fallimento».
Insomma, i derivati non servivano a niente, se non ad accrescere l'instabilità inerente.
E a guadagnare saccheggiando l'economia reale.
L'accenno al fallimento di qualche grosso «intermediario» è facile da tradurre: sono in pericolo le grandi banche.
Era il «carry trade» a tenerle con la testa fuori dall'acqua.
Ora, se il «carry trade» si blocca o anche rallenta, grandi banche americane ed europee finiscono a fondo.
Infatti, il Tesoro USA e la Federal Reserve hanno fatto una mossa strana: creato una «banca d'emergenza» destinata a tappare le falle nel caso che una delle due banche usate dal Tesoro per vendere i BOT americani – la Bank of New York e la Morgan Chase – dovessero trovarsi «incapaci di operare».

Tranquilli, ci dicono i bugiardi: è solo una precauzione in caso di «attacco terroristico» (la scusa sempre pronta: gli arabi).
Allora la nuova banca creata in fretta – si chiama proprio così, New Bank – subentrerà alle banche «incapacitate a regolare le loro posizioni a breve», operando al loro posto, dalle loro sedi fisiche, e con i loro dipendenti.
La New Bank è infatti «virtuale», esiste solo sulla carta – come l'intera economia finanziaria globale.
A Wall Street già sussurrano i nomi della banca vicina al crollo: la Morgan Chase, o la Goldman Sachs, entrambe enormemente esposte nel mercato della liquidità che si è congelato.
A questa mossa del potere americano (mossa disperata) se ne deve aggiungere un'altra: la Federal reserve ha annunciato che dal 23 marzo, smetterà di pubblicare le cifre della M3, la più vasta definizione di «moneta» pensabile.
Gli Stati Uniti, il Paese più indebitato nel mondo, non ci dirà più quanti dollari circolano nel pianeta.
E quanti ne stanno stampando per far fronte agli impegni.
Nascondono ai loro creditori la loro vera situazione.

I creditori degli USA sono, come si sa, Cina e le economie asiatiche esportatrici, che parcheggiano i loro dollari in bond americani del Tesoro; e i Paesi petroliferi che, volenti o nolenti, vendono il greggio per dollari.
Ma i creditori stanno già, silenziosamente, liberandosi dei dollari.
Basti qualche cifra.
Nel 2000, le riserve e attivi finanziari nel mondo erano tenuti nella seguente proporzione: il 49,6% in dollari, il 30,1% in euro.
Ma a fine 2004, la proporzione si era invertita: il 37% in dollari, e il 46,8 % in euro.
In questa situazione, il tracollo può essere provocato dall'Iran.
Teheran ha annunciato che dal 20 marzo aprirà la sua Borsa petrolifera, che venderà greggio in euro.
In situazioni normali questo sarebbe un fatterello, come la crisi dell'Islanda.
Ma non sono tempi normali.
Dal 20 marzo, l'Europa può comprare greggio iraniano in euro; non avrà più bisogno dei dollari.
E il bisogno di dollari calerà – più o meno drammaticamente – in tutto il mondo.
Il Paese più indebitato del pianeta non vedrà più richiedere la sua moneta (dissestata) come prima.

Conclusione?
Un centro di analisi francese, il Laboratoire européen d'Anticipation Politique sostiene che, «tra il 20-26 marzo si apre all'80 % il rischio di una crisi sistemica globale», con «l'innesco della crisi politica mondiale più significativa dalla caduta del Muro».
E se l'America e Israele pensano di risolvere il problema bombardando l'Iran, «la probabilità della crisi sale al 100 %» (5).
Ciò perché, ragiona l'istituto francese, l'intervento in Iran, provocando insieme un rincaro del greggio e (quasi certamente) la revulsione delle opinioni pubbliche europee, diverrebbe il «fattore aggravante» delle ben sette «crisi convergenti» che sono in corso in questi mesi.
Eccole:
1) crisi del dollaro;
2) crisi degli sbilanci finanziari USA;
3) crisi del greggio;
4) crisi della leadership americana;
5) crisi del mondo islamico;
6) crisi della «governance» mondiale;
7) crisi della «governance» europea.
E' il caso di richiamare l'attenzione sui numeri 4, 6, 7.

Perché il collasso finanziario globale che si profila richiederebbe, per porvi rimedio, un livello di «governance» eccezionale.
Pari a quello per cui l'America impose, nel dopoguerra, il cosiddetto «ordine di Bretton Wood», che ha regolato a lungo e beneficamente gli scambi mondiali.
Ma allora gli USA erano il creditore mondiale, oggi sono il debitore.
Allora, erano i vincitori, e nessun Paese poteva opporsi ad esso; oggi il mondo è multipolare. Soprattutto, non erano governati da fanatici likudnik, messianici apocalittici e delinquenti comuni come oggi; ma da statisti che gestirono la situazione con una dose generosa di consensualità e di pensiero economico non avvelenata dalla sete di profitti a breve.
L'America di oggi non suscita alcuna fiducia spontanea.
Quella che occorrerebbe, perché la «governance» non è il «governo mondiale» come istituzione, ma una egemonia dell'intelligenza e anche della moralità, che induce gli altri Paesi a convenire che ciò che è meglio per l'«egemone», è buono anche per loro.
L'oscuramento dell'europeismo burocratico si è parimenti visto negare la fiducia dai popoli europei (che hanno votato no alla Costituzione).
Questo aggrava la situazione.
Non c'è nessuno al comando del mondo.
E nessuno è in grado di prendere il timone nella tempesta imminente.

Stando così le cose, ecco lo scenario delineato dall'istituto francese.
Avremo un calo del dollaro fra marzo e la fine del 2006; calo che può giungere a 1,7 dollari per 1 euro nel 2007: un'enorme pressione sull'euro e le economie ad esso legate.
Un rialzo significativo del greggio, sui 100 dollari a barile.
Un sostanziale default degli USA sul loro debito.
Ciò colpirà anzitutto la Cina, grande detentrice di dollari e grande esportatrice in USA: dal «boom», potrà entrare nella recessione di colpo.
Una recessione che Pechino ha ampiamente meritato, con il mancato aumento dei salari cinesi: così non ha creato quel mercato interno che poteva ripararla dalla perdita dei mercati d'esportazione.
Ma tutti i Paesi ne saranno colpiti in misura variabile, in proporzione alla fiducia che hanno dato agli USA.
Per esempio la Gran Bretagna, che ha 3 mila miliardi di dollari di crediti verso l'America, assai più che Francia e Giappone, che verso gli USA hanno crediti tre volte inferiori.
La recessione mondiale appare dunque inevitabile, e di lunga durata: come il grande gelo che seguì alla crisi del '29, e durò fino al 1939 (la guerra innescò la «ripresa»).

E che dobbiamo fare noi, i pesci piccoli, i salariati e pensionati, i piccoli risparmiatori?
Mi limito a riportare (senza assumerne la responsabilità) i suggerimenti di Martin Weiss, un analista, che paiono ragionevoli.

– Uscire dal dollaro.
– Uscire subito dal mercato azionario, fondi d'investimento e simili.
– Chiudere debiti e mutui, se – in ragione del proprio reddito – non si possono sopportare aumenti dei ratei a tasso variabile abbastanza rilevanti.
– Mettere il 60% del proprio capitale in BOT e altri titoli del Tesoro a breve (3-6 mesi).
– Mettere il 20% in titoli del Tesoro a 2-3 anni, se proprio si vuole.
– E il 10-20% in oro o azioni di miniere d'oro.
Nell'insieme, dunque, il consiglio è di tenere tutto liquido e a portata di mano: lo scopo, in un quadro di crisi, non è il profitto ma la salvezza.
Quando arriva la deflazione, ogni «investimento» (basato sul debito) comporta enormi rischi.
Aspettare con pazienza, perché poi chi avrà liquidi potrà – a tempesta finita – comprare azioni, mobili e immobili a prezzi stracciati.

Almeno così dice Wiess che, ricordiamolo, è americano, con mentalità speculativa.
Noi italiani saremo già fortunati se la nostra banca ci consegnerà i soldi che abbiamo sul conto corrente.
Prima, salverà l'amato Tronchetti Provera e gli altri indebitati di riguardo.
Sono consigli da prendere con le molle.
Ma l'incertezza è inevitabile: ogni mossa per giocare d'anticipo su una crisi è una scommessa al buio.
L'importante è agire «ora», prima che la crisi arrivi: «perché quando si scatena il panico, chi ha aspettato troppo perde», dice l'istituto francese.
Alla fine, ci saremo meritato tutto.
Questo sistema – la globalizzazione a tasso zero – ha alimentato corruzione, soperchierie, consumi indecenti a livello planetario; e sparso guerre e rovine sociali.
Per qualche anno, la gioventù smetterà di arraffare gli ultimi telefonini e sbavare per le felpe cinesi e le scarpe Nike; tutti dovremo tirare la cinghia.
L'augurio è che la necessità di diventare più austeri ci renda anche più seri.

Note
1) Daniel Wagner, «Investor: beware», International Herald Tribune, 8 marzo 2006.
2) Ambrose Evans-Pritchard, «Global credit ocean dries up», Telegraph, 24 febbraio 2006.
3) L. Wolfe, «Collapse of carry trade would blow out financial system», Executive Intelligence Review, 10 marzo 2006.
4) Dudley Baker e Lorimer Wilson, «Warning! Fiscal hurricane approaching!», Precious Metal Warrants, 8 marzo 2006.
5) «Europe 2020 Alarm: global systemic rupture, march 20-26», LEAP, 15 febbraio 2006.

(Tratto da www.effedieffe.com)

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