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Falsi governativi

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Falsificare i fatti per tornaconto politico è una pratica che vanta una lunga tradizione presso i governanti di ogni epoca.


Quando suo figlio partì per un lungo viaggio di studio in Europa, il cancelliere svedese Axel Oxenstierna  (1583-1654) gli dette questo saluto: 

“Parti, figlio mio, vai a vedere quali imbecilli governano il mondo!”.

Oxenstierna fu un protagonista della storia europea (fu lui, più di ogni generale, l’attore principale della Guerra dei Trent’Anni), e dunque la sua opinione di addetto ai lavori deve essere tenuta nel massimo conto.
Ma anche senza appoggiarci a tale autorità, possiamo empiricamente dedurre che, in effetti, molti imbecilli abbiano governato in modo davvero stupido. Le dimostrazioni potrebbero essere centinaia. Ora ci occuperemo di una “imbecillità governativa” molto diffusa, in ogni epoca: la falsificazione dei fatti a proprio favore. Ciò che per un privato cittadino sarebbe un reato penale ed un’onta morale (la bugia, lo spergiuro, la falsificazione) per i governanti (per gli imbecilli, secondo il buon vecchio Oxenstierna) è invece – o vorrebbe essere – una raffinata strategia diplomatica, una acuta azione politica.

Lasciamo i tanti casi recenti o recentissimi, volgiamoci ad un vicino passato che ci consente, in quanto passato, una prospettiva più sicura.
La Prima Guerra Mondiale fu una tale gigantesca carneficina di cui ogni governo cercò di addossare ad altri la sua origine. Come tra bambini, il grido che echeggiava fra le nazioni europee nei primi decenni del secolo scorso era: “Ha cominciato lui!”.
In verità, avevano cominciato tutti, in una sorta di delirio che coinvolse le cancellerie europee con una leggerezza ed un’incoscienza che ancora oggi, cent'anni dopo, atterriscono. Dato che la guerra perse ben presto la doratura epica, per mostrare la sua vera natura di mattatoio universale (da cui, ovviamente, erano esclusi politici e stati maggiori), le teste pensanti della diplomazia cercarono di provare la loro innocenza, davanti alle folle mandate a morire e davanti al giudizio dei posteri.
E per dimostrare l'indimostrabile non vi era che un mezzo: affermare il falso, falsificare la realtà.
Il 31 luglio, alle ore 10,43 del mattino, l'ambasciatore francese a San Pietroburgo, Paleologue, telegrafava a Parigi: 

“È stata ordinata la mobilitazione generale dell'esercito russo.” 

Nove parole.
La mobilitazione russa, in effetti, era iniziata la sera precedente e all'alba del 31 erano già stati affissi i manifesti per la mobilitazione. L'Austria Ungheria mobilitò al pomeriggio di quello stesso 31 luglio. L'ambasciatore francese a Vienna, Dumaine, lo telegrafò con poche essenziali parole alle ore 17: 

“L'ordine di mobilitazione generale viene dato agli eserciti austro-ungarici.” 

Tutto qui.
Sentite come venne trasformato questo dispaccio brevissimo, nella forma comunicata ai giornali perché fosse diffusa e resa ufficiale: 

“La mobilitazione generale riguardante tutti gli uomini dai diciannove ai quarantadue anni è stata decretata dal governo austro-ungarico stamane di prima ora.”

Notate che vi si vuole dare un'impressione quasi visiva della massa di soldati che si preparava a riversarsi sull'Europa; notate anche che è stato cambiato l'autentico orario della mobilitazione, che è stato anticipato. Un comunicato essenziale è diventato una scena in cui incombono orde di soldati, dai ragazzi agli uomini fatti, pronti a invadere l'Europa.
Ma dove i propagandisti del ministero hanno dato il meglio di sé è stato nella manipolazione del telegramma del Paleologue, che venne così trasformato per la stampa: 

“In seguito alla mobilitazione generale dell'Austria ed alle misure di mobilitazione prese segretamente, ma in maniera continua da sei giorni dalla Germania, è stato dato l'ordine di mobilitazione generale dell'esercito russo, non potendo la Russia, senza incorrere nel più grave pericolo, lasciarsi maggiormente precedere; in realtà essa non fa che prendere delle misure militari corrispondenti a quelle prese dalla Germania, Per imperiose necessità strategiche il governo russo, sapendo che la Germania si armava, non poteva più ritardare la conversione della sua mobilitazione parziale in mobilitazione generale.”

Il telegramma originale è diventato un'arringa in difesa della Russia che si è vista costretta a difendersi in seguito alle minacciose manovre della Germania. Per conoscere l'autentico testo del dispaccio diplomatico, i francesi dovettero aspettare il 1936.
Prima, però, un uomo politico non corrotto, Georges Demartial, ebbe il coraggio di scrivere: 

“Il telegramma di Paleologue è indubbiamente falsificato; lo dimostra la sua contorta lunghezza fatta per il pubblico e non per il ministero degli esteri. Una notizia di questa importanza viene comunicata con un telegramma di poche parole. Tutto il telegramma di Paleologue, in cui manca l'ora della mobilitazione, è pieno di non richieste giustificazioni della decisione russa. Queste giustificazioni sono state arzigogolate a Parigi.”

Come accade sempre in questi casi, il governo si difese con il metodo che proibirebbe a chiunque altro: il silenzio, l'indifferenza, l'ostinazione nel difendere e diffondere versioni palesemente artefatte.

I falsari governativi italiani, di solito, non sono particolarmente attenti alle loro produzioni, così che talvolta queste presentano grossolani errori ed  inverosimiglianze.
Per accusare il nemico di malafede e di perfidia, si attribuì al primo ministero ungherese Istvàn Tisza (1861-1918) questa lettera, che sarebbe stata scritta, il 7 maggio 1915, al primo ministro austro-ungarico degli esteri Burian:

“Si potrebbe lusingare l'Italia, entrando a discutere sul terreno delle concessioni da farsi nell'Adriatico orientale e adescare la Romania con offerte territoriali in Transilvania e in Bucovina. Tanto il valore di queste promesse, estorte con minacce, è giuridicamente nullo, mentre pone questi due Stati in cattiva luce presso l'Intesa. L'esito della guerra deciderà anche del valore di queste concessioni che siamo obbligati a promettere col coltello alla gola”.

In questa lettera, Tisza praticamente pianificava un inganno, promettendo un beneficio all'Italia – se si fosse schierata con gli Imperi Centrali – che sapeva fin dall'inizio non avrebbe concesso.
Ma l'onestà di Tisza, la sua lealtà anche verso gli avversari gli era riconosciuta da tutti: strano dunque che un tale uomo ideasse e mettesse nero su bianco uno squallido raggiro.
Per rendere la pretesa rivelazione documentaria più convincente, i falsari del governo italiano specificarono che la lettera in questione era stata pubblicata, nel febbraio 1929, sul periodico di Budapest Az-Est. Una semplice scorsa della raccolta di quel giornale dimostrò che la lettera non appariva in alcun fascicolo. Semplicemente, non esisteva.

Il regime fascista aveva interesse, per la sua politica nazionalista e militarista, ad ingigantire il merito dell'Italia nella vittoria sugli Imperi Centrali. Tanto che, il 21 gennaio 1930, il Giornale d'Italia aveva un titolo in prima pagina: 

“L'Italia ha vinto la guerra europea.”

Ma lo scoop era il frutto di falsificazioni goffe, quasi bambinesche, come questa lettera attribuita al comandante dell'esercito austro-ungarico Von Arz: 

“La vecchia Austria è in fiamme, e non ci sono uomini né pompe né acqua per spegnere l'incendio. L'Italia può vantarsi di aver distrutta l'Austria a  Vittorio Veneto e di aver vinto la guerra europea.”

E Franz Conrad, il generale che sbaragliò gli italiani a Caporetto, avrebbe scritto alla moglie, il 3 gennaio 1918, che la sua armata si sarebbe trovata di fronte “a degli uomini di ferro e ad un capo di ferro”. Frase che elogiava smaccatamente la carne da cannone italiana e gli ufficiali che la mandavano al macello, ma che Conrad non aveva alcun motivo di scrivere alla sua consorte, se non altro per il fatto che ella – in quella data – si trovava con lui ad Innsbruck, e non si capisce perché mai si debbano scrivere lettere alla moglie che vive accanto al marito, nella medesima casa.

Un altro falso grossolano venne confezionato per imporre l'immagine di un'Italia la cui eroica resistenza al nemico aveva salvato l'intero schieramento alleato. Secondo Il Popolo d'Italia (del 19 novembre 1930), il generale Ludendorff aveva confidato, con una lettera datata 7 novembre 1919, d'aver richiesto l'invio di dodici divisioni per sfondare il fronte Italiano nella valle del Po. Una volta schiantata la linea italiana, le divisioni sarebbero state impiegate contro i francesi.

Ma la strenua difesa dei soldati italiani sul Piave aveva fatto abbandonare il progetto. Questo sarebbe stato l'amaro commento di Ludendorff: 

“Intuivamo che colà avveniva qualche cosa di decisivo, forse la decisione. Quando ci giunse, fin dal secondo giorno della battaglia, la notizia che l'offensiva era fallita sentimmo che la partita era perduta. Per la prima volta avemmo la sensazione della nostra sconfitta. Ci sentimmo soli. Vedemmo allontanarsi fra le brume del Piave quella vittoria che eravamo già certi di cogliere sul fronte di Francia.”

Il falsario, oltre a conoscere male la storia di quelle atroci giornate, non era un grande esperto di psicologia: di solito, chi è battuto non esalta, con toni così solenni, chi lo ha sconfitto…
E per dimostrare la falsità di questa lettera, basti sapere che Ludendorff, fin dalla fine del settembre 1918, era consapevole che la guerra era perduta, tanto che – il 29 – aveva, con l'assenso di Hindenburg, convocato al quartier generale il segretario agli esteri Hinze per incaricarlo dei contatti in previsione di trattative di pace, rivolte allo stesso presidente statunitense Wilson.
Il Munchner Neueste Nachrichten – che, si diceva, aveva pubblicato la lettera-confessione di Ludendorff – smentì decisamente di aver mai visto un simile documento.

Dunque, una falsificazione piuttosto maldestra, che un qualsiasi controllo in biblioteca avrebbe svelato senza incertezze. 

Abbiamo esempi assai vicini a noi, e per questo più dolorosi per le loro terribili conseguenze: si pensi alle dichiarazioni del governo Bush sulle pretese armi di distruzione di massa che avrebbe avuto il dittatore irakeno Saddam Hussein: non esistevano, e non ci volle troppo per verificare che si era trattata di una menzogna.
Ma il potere non si cura della verità. Esso decide cosa è vero e cosa no, confermando – nel corso dei secoli – l'antica e sempre attuale affermazione di Oxenstierna: “Figlio mio, guarda quali imbecilli governano il mondo!”


Articolo tratto dall'edizione cartacea di NEXUS New Times, n. 81, Agosto-Settembre 2009
Per informazioni sulla rivista, consultare gli argomenti trattati o acquistare una copia arretrata, clicca qui


 

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