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LA RIFORMA CHE NON VOGLIONO FARE di Maurizio Blondet

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La storia la scrivono i vincitori, quindi ĆØ sempre diversa dalla realtĆ ? Ne parliamo conĀ Teodoro BresciaĀ Dottore di ricerca, docente e scrittore e autore del libro...

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{mosimage} Il dibattito sulla finanziaria di Prodi, ancorchè «controllato» perché non sbandasse
in argomenti-tabù, ha messo in luce almeno questo: che è una finanziaria di «più tasse e nessuna riforma», fatta su misura delle oligarchie parassitarie, i miliardari di Stato che si identificano con la «sinistra».
Beninteso, per Montezemolo come per D’Alema, per Rutelli come per Capezzone, le «riforme» necessarie sarebbero le liberalizzazioni degli ordini professionali, i tagli alle pensioni, alla sanità, al costo e alla sicurezza alla sicurezza del lavoro («flessibilità»), ovviamente per renderci «più competitivi»: insomma colpire ancora di più i contribuenti che già sono tartassati, precari e in via di impoverimento.
Di questo si parla quando si parla di «tagli alla spesa pubblica».
Ma almeno, l’opinione pubblica attenta ha capito che i «tagli alla spesa pubblica» necessari ed utili sono proprio ciò che nessuno di lorsignori ha proposto: gli scandalosi sprechi, i costosissimi privilegi e gli emolumenti dei Sardanapali pubblici.
Qualcosa è venuto alla luce, e consente di identificare dove bisogna «riformare».
Si è scoperto, ad esempio, l’immenso spreco provocato dalle «partecipate», ossia dagli enti  un tempo pubblici o municipali ora pseudo-privatizzati, dall’ENI all’ENEL alla Centrale del Latte di un qualunque Comune.
Queste aziende ex di Stato sono state dichiarate «private», il che significa che sono ora soggette al diritto privato e non al controllo pubblico.
Ma la loro privatizzazione è meramente formale, legalistica.
Restano aziende pubbliche per almeno due motivi: poiché l’azionista di maggioranza di queste presunte società per azioni resta il Tesoro, o il Comune o la Regione, a pagare le perdite sono sempre i contribuenti, attraverso le casse pubbliche.
Queste SpA presunte, fornendo un servizio pubblico, non possono esser lasciate.
Non si possono lasciare senza luce, acqua e gas i cittadini delle ex-municipali, ora «partecipate».
Queste cosiddette imprese, inoltre, continuano ad operare più o meno in regime di monopolio: dunque sono al di fuori di ogni «mercato», su di loro non agisce la mano invisibile di Adam Smith, e non devono occuparsi di alcuna «competitività».
A che cosa è servito dunque «privatizzarle»?


Si è capito, finalmente.
Anzitutto, a sottrarre il loro operato al sindacato degli organi pubblici di controllo.
Mentre aziende pubbliche devono in qualche modo rispondere di come operano o trattano i patrimoni (pubblici) a loro conferiti, o dei loro sprechi, alla corte dei Conti e alla magistratura ordinaria, non è così per le società per azioni: possono fare quello che vogliono, nei limiti del codice penale, purchè ci sia il voto della maggioranza del consiglio d’amministrazione.
Così ad esempio alla Regione Lombardia Formigoni, il grande privatizzatore ed epico cantore dell’efficienza e del mercato, sta conferendo tutti gli immobili della Regione ad una SpA chiamata «Lombardia infrastrutture»: con questo semplice inghippo, tutta la roba nostra, dei cittadini, da noi pagata mille volte come contribuenti, può essere alienata senza concorso pubblico.
La nuova SpA può vendere a chi vuole, e al prezzo che vuole, senza aste di nessun genere, cose come gli ospedali lombardi, le Ferrovie Nord, gli stadi, una immensa ricchezza di edifici pubblici, terreni e case popolari.
Ma nelle vere SpA, il consiglio d’amministrazione rappresenta (almeno in teoria) dei veri capitalisti privati che nell’impresa hanno messo i loro soldi e che sono indotti alla prudenza dalla paura di perderli e di fallire.
Nelle aziende pubbliche neo-privatizzate, i consiglieri sono, tipicamente, deputati trombati
a cui qualche partito ha trovato un posto ben remunerato, o amici e clientes dei partiti, da compensare.
Non hanno alcun interesse alla buona amministrazione, né alcuna capacità imprenditoriale.
Non devono temere di perdere il loro capitale, perché comunque vada l’azienda partecipata, a pagare non saranno loro, ma i soliti contribuenti.
E abbiamo scoperto che queste aziende «pubbliche di fatto», ma giuridicamente private, sono state affollate di consiglieri di questo genere.
La RAI ne ha nove.
Alitalia e Ferrovie cinque (si immagina che non dormiranno la notte, visto lo stato delle loro aziende), l’ENI 12, l’ENEL 9.
Persino il Poligrafico ha dieci consiglieri: senza alcun motivo confessabile.


Nelle vere aziende private che operano sul mercato,  i consigli d’amministrazione servono a sancire scelte rischiose, imprenditoriali; ma nessuna scelta imprenditoriale tocca al Poligrafico, che opera come monopolio per un solo cliente, lo Stato, e fa la stessa produzione da secoli.
Il solo senso di un consiglio d’amministrazione in un tale ente è regalare stipendi di sogno a degli «amici».
Tutti ben pagati da noi.
Appena Cimoli è arrivato all’Alitalia non più come «boiardo di Stato» ma come «amministratore delegato», ossia travestito da super-manager, la prima cosa che ha fatto, su sua richiesta, il consiglio d’amministrazione dei parassiti pubblici mascherati da azionisti è stata: raddoppiargli lo stipendio, attualmente sui 2,8 milioni di euro l’anno.
Il personaggio guadagna (più precisamente, percepisce senza guadagnarlo) 179 mila euro
al mese, il triplo di quel che prende il suo pari-grado alla British Airways.
Ovviamente, né i risultati del supermanager presunto, né tantomeno i profitti (che sono solo perdite) di Alitalia, giustificano un tale emolumento.
Ma, si sa, l’Alitalia è ora privata; solo i soldi che spreca sono nostri, cioè pubblici.
Giuseppe D’Angiolino, presidente ANAS per anni 9 fino al 2001 e boiardo di Stato, non sarà stato un’aquila, ma prendeva «solo» 350 milioni di lire l’anno per un’azienda di 6 mila dipendenti.
Quello che Lunardi ha messo al suo posto riceve il quadruplo.
I consiglieri dell’ANAS da soli prendono 40 mila euro l’anno (si riuniscono, se va bene, una volta a settimana) ma altri 140 mila per certe «deleghe» che sono inghippi clientelari: c’è il consigliere con la delega al personale (a che serve, se c’è un direttore del personale? A distribuire posti ai clientes), quello con la delega al Mezzogiorno, cioè a mettere le mani in pasta con le imprese edili di mafia e camorra… e sono anche superpagati per questo.
I consiglieri, da controllori che dovrebbero essere, diventano operatori: incontrollati, perché sono loro che si dovrebbero auto-controllare.
Si aggiungano le municipalizzate ora «partecipate» fra pubblico e privati: sono circa 800, e ciascuna ha, ipotizza Tiziano Treu, una decina di consiglieri: sono almeno 8 mila parassiti con emolumenti, a stare bassi, fra i 50 e i 150 mila euro l’anno ciascuno.
Aziende che prima funzionavano sotto la guida di un dirigente, ora «devono» avere un consiglio d’amministrazione…
Paolo Scaroni, aministratore delegato dell’ENEL, nominato da Berlusconi, ha guadagnato altrettanto, e si è portato via una liquidazione di quasi 6 milioni di euro.
Scaroni era stato «boiardo di Stato» e come tale era stato beccato da Mani Pulite per tangenti ai partiti; ora non corre più nemmeno questo rischio.


Tralasciamo per il momento le partecipate regionali, allungherebbero troppo il discorso.
Ma quel che abbiamo detto spiega perché in Italia paghiamo le bollette, i ticket e le tariffe autostradali  più care, mentre i costi pubblici sono in aumento spaventoso e le aziende ex-pubbliche continuano a fare perdite terrificanti, il contrario dell’efficienza che ci era stata promessa dalle privatizzazioni, dalle «dosi di privato» iniettate nel settore pubblico.
Tutto ciò che è servizio pubblico ci costa di più perchè dobbiamo pagare i 179 mila euro mensili a Cimoli, e le enormità di paghe a migliaia di inutili «consiglieri d’amministrazione». (1)
Si capisce che questa è la palla al piede dell’Italia, la causa della sua perduta competitività, il peso mortale della sua burocrazia.
Si capisce anche qual è stato l’effetto finale delle «partecipazioni» di questo tipo: la distruzione, nei dirigenti, del senso stesso di «bene pubblico».
Sono ircocervi, metà privati quando fa comodo a loro, ma metà pubblici quando si tratta di coprire le falle che hanno provocato.
Si capisce anche che qui, più che nella liberalizzazione dei taxisti e dei panettieri, o nella mitica persecuzione dell’evasione fiscale dei dentisti, si possono ottenere risparmi veri, tagli della spesa pubblica «utili», ossia  che non riducono i servizi resi ai cittadini ed agli utenti.
E si capisce che sarebbe facile, qui la «riforma»: basta ritornare al sistema pubblico per tutto ciò che dà servizi pubblici. Perché la privatizzazione (pseudo) non ha nulla a che fare con la devoluzione, e nemmeno con la democrazia. Aziende pubbliche erano autoritarie, ma soggette a qualche genere di controllo e in teoria almeno, possono essere rese più trasparenti.
Le aziende «partecipate» restano autoritarie, ma ora opache e non-responsabili, in mano ad oligarchie che si sottraggono ad ogni controllo ed esame.
Sono «private» nel senso che se ne infischiano del bene pubblico (res publica), ma non portano nessuna efficienza né vantaggio al consumatore o utente.
Dunque, si deve creare uno statuto giuridico diverso e nuovo per queste aziende.
Si deve ri-centralizzare ogni servizio pubblico: la regionalizzazione, proclamata per portare «il potere vicino al cittadino», è solo un enorme colabrodo con più buchi di prima.
E poi, che senso ha chiamare Servizio Sanitario Nazionale un’entità che invece è gestita dalle regioni, ciascuna a suo modo, con ineguali servizi e costi enormemente diversi?
Perché infinite municipalizzate per fornire elettricità e gas, comprati da fornitori unici e colossali, come l’Arabia, l’Algeria e la Russia, che sono pure stati sovrani?
Centralizzare è d’obbligo, per risparmiare e rendere più efficiente il servizio, e perché i manager capaci non sono poi tanti.


Ma questa riforma «facile» è anche quella che non si farà.
L’Ulivo non la farà perché è appunto il partito dei parassiti miliardari di stato e delle burocrazie inadempienti. Ma anche il Polo si è ben guardato dal fare una riforma di questo spreco vergognoso: è troppo comodo disporre di posti inutili ma ben pagati per amici e clienti. (2)
Chi può farlo?
Strano a dirsi nella presunta «culla del diritto» (dove è vero il diritto non è mai uscitod alla culla), nessun giurista, nessuna Corte costituzionale, ha avvertito la perversione legale, la vera patologia del diritto che è costituita da «partecipate» che sono «private» per statuto,  ma le cui perdite vengono pagate da contribuenti.
Il mostro giuridico dura, perché serve.
La Banca d’Italia non fiata: il grande responsabile e promotore di queste privatizzazioni false e mostruose è stato Mario Draghi (3), che può citare in suo appoggio anche Monti, Ciampi, Padoa Schioppa…tutta gente che il «mercato» non sa nemmeno cos’è, e che ha trovato il modo di perpetuare il suo potere attraverso questo nuovo mostro giuridico.
Nessuno vorrà farlo.
Nessuna burocrazia inutile, nella storia, si è riformata da sé.
Nessuna mostruosità è mai stata spontaneamente risanata, anche quando la sua natura suicida era chiara a tutti: così come la legge sciagurata che diede al Parlamento polacco l’obbligo di decidere all’unanimità, benchè palesemente paralizzante e patologico, non fu mai sanato dai parlamentari.
Il motivo è semplice: ciascuno di loro aveva un diritto di veto, un potere demente a cui non voleva rinunziare.
La «guarigione» venne solo dall’esterno: con spartizioni della Polonia fra le potenze vicine, perdite di territorio e di indipendenza spaventevoli…
Così accadrà all’Italia.
Stiamo davvero andando verso la situazione dell’Argentina, a forza di tasse per pagare i parassiti e i loro sprechi.
Il nostro destino è già stato descritto: «Una spirale discendente a circolo vizioso, dove la debolezza della crescita economica provoca introiti fiscali in diminuzione nonostante ogni inasprimento della torchia; conseguente rialzo dei tassi a lungo termine sul debito pubblico, a cui seguiranno tasse ancora più feroci, che provocheranno un ulteriore rallentamento dell’economia e un deficit pubblico crescente dovuto a introiti fiscali ancora diminuiti».
La spirale argentina. (4)


Nessuno ci salverà, perché lorsignori che sono al potere saranno pronti ad accusare chi proponesse le necessarie evidenti riforme di «ritorno al centralismo», di socialismo (tale è la pretesa che la cosa pubblica resti pubblica e non sia regalata ai privati), e di sospette nostalgie autoritarie antidemocratiche.
Ma la «democrazia» su cui loro presiedono e da cui ricavano le loro ricchezze è quella così definita da Gore Vidal: «il sistema che dà ai ricchi la licenza di rubare ai poveri,  facendo loro credere che hanno votato per questo risultato».
La sola soluzione – come sempre quando si tratta di sbattere fuori una grossa casta di parassiti costosi – si chiama rivoluzione.
Ma chi la vuole fare?

Maurizio Blondet

 
(tratto da www.effedieffe.com )


Note
1)
Ci riferiamo qui ampiamente all’ottima inchiesta dal titolo «Cattivi Consigli», Di Giovanna Boursier, andata in onda in 22 ottobre 2006 su Rai3.
2) Per strapagare i privilegiati parassitari, gli enti locali (anche di cosiddetta sinistra) ricorrono sempre di più a «risparmi» sui lavoratori meno privilegiati: il lavoro «flessibile» a termine e precario in Comuni e Regioni supera il 13,5 % della forza lavoro, ben più che nelle imprese con meno di venti addetti o nell’artigianato (7,7) sempre accusati di sfruttare lavoro nero; e più che nell’economia privata in generale (11,2 %). Dunque anche tra i dipendenti pubblici si allarga una frattura sociale atrocemente iniqua: quelli con salari modesti non hanno più la sicurezza del posto pubblico fisso, mentre i privilegiati hanno paghe da 170-300 mila euro l’anno. E quelli assunti da vecchia data, oltre al posto fisso che viene negato ai giovani precari, godono di aumenti delle retribuzioni che superano di 10 punti l’inflazione. Mentre i salari privati, come noto, ristagnano. In cima alla classifica delle super-paghe per i suoi addetti a posto fisso è la Campania di Bassolino, così ben amministrata.
3) Fu lui che, da funzionario del Tesoro, salì sul regale yacht Britannia una sera fatale, per raccomandare la privatizzazione, ossia la svendita dei patrimoni pubblici, ad agenti stranieri.
4) Martin Wolf, «Fiscal tightening and reform can rescue Italy’s economy», Financial Times, 25 ottobre 2006. L’autore, membro del gruppo Bilderberg, nota che «il costo del lavoro unitario in Italia è salito del 33 % dal 2000»: ma la sua spiegazione è che «la produttività del lavoratore è ristagnata». Dunque propone di abbassare i salari e mettere alla frusta i lavoratori privati italiani, perché lavorino di più, come in Germania. Nulla dice sui parassiti fannulloni pubblici, il nostro vero problema.

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