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Pirati di ieri e di oggi

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La storia la scrivono i vincitori, quindi è sempre diversa dalla realtà? Ne parliamo con Teodoro Brescia Dottore di ricerca, docente e scrittore e autore del libro...

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Chi compie azioni tali da portare all’impoverimento di altri per il proprio personale tornaconto può avere varie definizioni. Se le azioni sono svolte a terra illegalmente, sarà un “ladro”, un “truffatore”; se sono svolte sempre a terra ma legalmente, sarà finanziere d’assalto, cavaliere del lavoro, capitano d’industria, sfruttatore, ecc… Quando l’azione è compiuta in mare è un pirata.

Cambiano i nomi, i luoghi e i modi, ma il risultato non cambia. 
Per Cicerone le comunità dei pirati erano hostes humani generis, ovvero nemiche del genere umano, ma l’opinione sui pirati non è sempre stata concorde con Cicerone.
Quando i Fenici incontravano una nave o un villaggio, ne valutavano la forza: se era debole e conquistabile senza particolari rischi attaccavano, mentre se le forze in gioco erano paritarie o i nemici erano superiori diventavano commercianti. 
Il giovane Caio Giulio Cesare fu catturato dai pirati e trattenuto per sei settimane. Pagato il riscatto e tornato libero, combatté la pirateria nel Mediterraneo e scorrazzò come un pirata in terraferma depredando mezza Europa. 
Nel nord le cose non erano differenti: nel corredo dei vichinghi non mancavano mai la spada e la bilancia. Una volta soppesate le forze avversarie, gli uomini del nord estraevano l’una o l’altra.

 

I CORSARI
Verso il Dodicesimo secolo, trovandosi con le casse dello stato vuote, i re francesi autorizzarono alcuni armatori e comandanti a combattere in loro nome contro gli eterni nemici della Francia: gli inglesi. Queste autorizzazioni, dette lettere di corsa, prevedevano un pagamento che poteva essere fisso (un tot a lettera) o variabile (dove una certa percentuale del bottino andava al re). Oltre a ciò, al corsaro era permesso trovare rifugio nei porti francesi e, se veniva catturato dai nemici, doveva essere trattato come un militare e non come un pirata. In pratica, il corsaro poteva attaccare ogni nave battesse bandiera nemica e ogni insediamento a terra, rapinando tutto quello che trovava come un pirata, ma salvando il collo dal boia e diventando ricco. 

Sir Francis Drake

Uno dei più famosi corsari fu Francis Drake, il “Corsaro della regina” Elisabetta I. Discese l’Atlantico, entrò nel Pacifico e ne risalì le coste fino ad arrivare agli insediamenti spagnoli del Perù, che furono distrutti e saccheggiati. Attraversato il Pacifico, l’Indiano e di nuovo l’Atlantico, al suo ritorno in patria Drake spartì con l’equipaggio quanto spettava loro delle tonnellate d’oro e argento conquistato. La Corona inglese, con la sua parte, fece costruire la flotta che sconfisse l’Invencible Armada spagnola.
Col tempo le lettere di corsa furono emesse da re, governatori, sindaci e utilizzate sia per combattere i nemici sia per arricchirsi. L’ultima nave corsara della storia, con bandiera tedesca e ovviamente non più a vela, partecipò alla Prima Guerra Mondiale.
L’età d’oro della pirateria è solitamente considerata quella che va dal 1550 al 1730 circa. 
Durante il regno di Elisabetta I, il Galles era di fatto un principato pirata ed era impossibile trovare un pescatore che quando si presentava l’occasione di assalire una nave non diventasse un pirata. Le merci depredate erano esposte alla luce del sole e personaggi come sir Richard Grenville, conte di Pembroke, e sir John Killigrew, presidente della commissione per la pirateria, controllavano i traffici mercantili dei pirati lungo tutta la costa inglese.
Durante questo periodo si verificarono le condizioni necessarie e imprescindibili per la nascita di una nuova pirateria: l’estrema miseria, l’abbrutimento, la mancanza di prospettive e l’abbondanza di soprusi a terra da un lato e la possibilità di guadagni in mare dall’altro.
A cavallo del Diciassettesimo secolo, una parte della popolazione inglese senza lavoro si vide costretta ad emigrare nelle piantagioni dei nobili in America, mentre altre frange della società venivano impiegate nelle corvée delle bonifiche e delle deforestazioni: praticamente schiavi. Questa vita in condizioni coatte venne denunciata in varie lettere di protesta al Parlamento e, non ricevendo risposte, portò ai primi scioperi della storia. 
Nei drammi Coriolano ed Enrico VI, William Shakespeare parlò della difficile vita di queste persone, criticando una società dove la vita dipendeva solo dalla culla e dalla casa dove si nasceva. 
Una vicenda storica che fornirà probabilmente materiale a Shakespeare per ideare una delle tragedie dell'ultimo periodo, sarà quella della nave ammiraglia della Virginia Company, il Sea-Venture. Salpata da Plymouth nel maggio del 1609 per le Americhe, ai tempi ancora nominate Indie Occidentali, questo fece naufragio su una delle isole delle Bermude a causa di una tempesta. Qui, nobili e plebei dovettero collaborare per sopravvivere e per poter costruire una rudimentale imbarcazione capace di portarli a destinazione. Un anno dopo, nel maggio 1610, in Inghilterra giungerà la notizia che tutti coloro che si erano imbarcati sul Sea-Venture erano giunti sani e salvi in Virginia. Un'altra versione ci narra che, mentre una parte dei passeggeri si imbarcarono per le Americhe, alcuni popolani rimasero sull'isola iniziandone la colonizzazione, in un bucolico paradiso di libertà, in grado di sollevare una profonda riflessione sul rapporto tra natura, civiltà e potere. 
La disonestà e la prepotenza dei nobili appoggiati da una legge che come una ragnatela, prende i moscerini ma non i mosconi, non lasciava molte possibilità ai contadini e ai marinai inglesi, e per alcuni di questi un giorno da leoni era meglio di una vita da pecore. I galeoni spagnoli carichi d’oro erano là, bastava provare, Drake l’aveva insegnato, e alcuni, parecchi, avrebbero provato.
Provenendo da un mondo dove tutti quanti accettavano di farsi governare da leggi stabilite dai ricchi per la loro sicurezza, i pirati non ammettevano differenze di sorta: ogni pirata valeva come ogni altro pirata. Le decisioni importanti erano prese collettivamente, per alzata di mano. Se la minoranza non accettava la decisione della maggioranza poteva andarsene, casomai con un’altra nave. Quasi sempre, i pirati realizzavano in mare un ordinamento sociale più giusto ed efficiente di quello che vigeva nella madrepatria, fondato sui privilegi ereditari e sui soprusi dello stato.

Il Capitano Teach, meglio conosciuto col nome di Barbanera

La nave apparteneva ai pirati, il comandante era eletto e scelto tra le persone più capaci e fortunate; lo lasciavano comandare finché andava bene, poi lo cambiavano. Solitamente il comandante abitava la cabina migliore, quella di poppa, ma ogni pirata poteva entrare, mangiare, bere e dormire senza chiedere nessun permesso e senza che ciò creasse alcun problema. Solo durante la caccia e il combattimento il comandante aveva pieni poteri, e i suoi ordini non potevano essere ignorati, pena la morte immediata. La persona veramente importante della nave era il quartiermastro, il capo dell’equipaggio, anche lui eletto per alzata di mano, cui spettava il diritto di saltare per primo sulla nave nemica, di stabilire il valore del bottino e di dividerlo. Il nostromo, il nocchiero, l’ufficiale di rotta erano altri personaggi importanti, cui spettava una parte maggiore del bottino. Anche al medico andava una quota superiore del bottino: se non c’era, le sue funzioni erano svolte dal falegname, tanto gli attrezzi usati erano gli stessi. I velieri utilizzati erano solitamente veloci in modo da attaccare, o fuggire, rapidamente. Per mantenere le navi efficienti, i pirati non lesinavano nelle spese per l’armamento e facevano carena tre volte l’anno.
Per fare il pirata, come per qualsiasi altra attività che non possa svolgersi sempre alla luce del sole, c’era bisogno di luoghi dove si potesse riposare, trovare compagnia, riparare le navi e, soprattutto, dove si potesse scambiare il bottino con armi, munizioni, vele, viveri, medicine e quant’altro serviva per l’attività piratesca. Ai Caraibi uno dei luoghi più utilizzati era Tortuga, una piccola isola montagnosa a nord ovest di Hispaniola (odierna Haiti). In queste due isole si erano installati nel Diciassettesimo secolo dei marinai che, sbarcati dalle loro navi, si erano dati alla caccia dei numerosi bovini che popolavano l’isola. La carne veniva poi affumicata su di una sorta di griglia di legno, come nella tradizione caraibica, nella quale veniva nominata boucan. Da questo termine, che entrerà nell'uso corrente del francese nella seconda metà del Sedicesimo secolo, deriverà boucanier (o bucaniere in italiano), ossia avventuriere che cacciava il bue selvaggio nelle Antille per affumicarne la carne e, per estensione, pirata. 
Questi cacciatori/affumicatori erano i principali fornitori di carne affumicata ai pirati, ed essendo degli ottimi tiratori, non di rado alcuni di loro lasciavano la caccia ai bovini per la caccia ai bottini. Già dal 1640 i bucanieri si erano dati una forma sociale basata sul mutuo soccorso chiamata Fratelli della Costa; su queste basi di mutuo soccorso, o Fratellanza che dir si voglia, vennero stipulati i contratti tra i pirati che si trovarono riuniti in un’associazione chiamata Filibusta.
Con gli accordi di Ratisbona del 1684 le potenze europee tentarono di fermare la pirateria: così i pirati dei Caraibi da cacciatori diventarono oggetto di caccia da parte tanto degli spagnoli che degli altri stati europei. Per sopravvivere, spostarono le loro attività nell’Oceano Indiano e nel Mar Rosso, attaccando le navi del Mogul e quelle delle Compagnie delle Indie inglesi, olandesi e portoghesi. Anche qui i bottini erano enormi, e la spinta romantica era la stessa: “Loro spogliano i poveri al riparo della legge, noi spogliamo i ricchi protetti dal nostro coraggio.” (NdA: questa, come altre citazioni in corsivo, è di Charles Bellamy, Capitano pirata).
Non potendo più utilizzare tranquillamente la Tortuga, i pirati cercarono basi nel Nord America. Dalla Virginia a New York i porti e le insenature non mancavano, e i pirati vi trovarono un rifugio e dei commercianti che non chiedevano troppo da dove provenissero le merci. Questo traffico coi pirati metteva in crisi i rapporti delle colonie con la madrepatria Inghilterra, la quale perdeva i dazi e le imposte doganali, ma arricchiva le colonie che potevano permettersi di acquistare merci a minor costo e avevano clienti che compravano i prodotti americani senza discutere il prezzo. Quando i pirati spostarono il loro campo d’attività nell’Oceano Indiano, alcuni mercanti americani impiantarono magazzini d’appoggio nel Madagascar, in modo da poter rifornire come sempre gli affezionati clienti; il giro di soldi era assicurato. Il mercante Frederick Philipse di New York aveva una base commerciale nell’isola di Santa Maria, presso il Madagascar, dove vendeva le sue merci con un ricarico del 1.500%. 
Le colonie americane non fornivano solo merci ma anche equipaggi. Nel 1694 la nave del pirata Thomas Tew entrava nel porto di Newport dopo 15 mesi di navigazione con nemmeno un ferito a bordo. Mentre in Inghilterra il segretario di un lord poteva sperare di guadagnare in una vita di lavoro ed umiliazioni 500 sterline, ogni pirata di Tew aveva in tasca una quota bottino di 1.200 sterline. Non c’è da stupirsi se, come scriveva un giornale dell’epoca, “i servi lasciano i padroni e i figli lasciano i genitori” per la pirateria.
Nonostante tutti i trattati tra le nazioni e le spedizioni militari, la pirateria cessò di esistere solo quando vennero a mancare i presupposti per la sua esistenza. Dai primi del Settecento, i traffici d’oro e di preziosi dai Caraibi all’Europa si erano affievoliti enormemente e anche il Mar Rosso non rendeva più come una volta. Le transazioni economiche non avvenivano più con lingotti d’oro o sacchetti di diamanti e preziosi ma con lettere di credito e assegni. Nel secolo successivo i mari erano solcati da migliaia di navi mercantili cariche di lana, grano, tè, guano e carbone, tutte merci che non erano appetibili, troppo pesanti da trasportare, difficili da piazzare sul mercato e con un guadagno bassissimo. Non aveva senso impadronirsi di merci, anche se di grande valore, se poi non si potevano scambiare. In aggiunta l’Illuminismo, le idee di libertà e giustizia sociale, le rivoluzioni, i sindacati e i partiti spingevano le masse non più verso il mare ma verso le lotte popolari per migliorare le condizioni di vita. Il mare non attirava più come prima e la terra non spingeva più le persone a lasciarla: la pirateria era finita.
Passano i secoli e nel 1989, dove il Mar Rosso si unisce all’Oceano Indiano, ci imbattiamo in una piccola isola, Socotra, base dell’Unione Sovietica per il controllo del traffico mercantile e militare tra l’Oceano Indiano e il Mar Rosso. L’isola è da decenni piena di antenne per captare il traffico radio dei paesi arabi, dell’Oceano Indiano e di piccoli mezzi militari camuffati da pescherecci che tengono monitorato il traffico militare e mercantile; gli isolani, confinati nella propria terra, vivono di quanto passa loro l’Unione Sovietica per la quale Socotra è l’orecchio nell’emisfero sud. Col crollo del Muro di Berlino, l’URSS abbandona la base e gli abitanti si trovano di colpo senza una forma di sussistenza e senza una fonte di reddito. L’URSS ha lasciato nell’isola le costruzioni, le piccole imbarcazioni e alcune armi leggere che i locali usavano per difendersi dall’attacco dei nemici. In poco tempo, essi si inventano un’attività agricola e iniziano a pescare, finché un giorno qualcuno vide passare una barca che offriva sigarette e altri beni. Scatta allora il meccanismo: barca = cose buone e soldi, e dal chiedere si passa presto al richiedere con un’arma in mano. Contemporaneamente anche nello Yemen le cose cambiano, e anche su quelle coste si iniziano a segnalare atti di pirateria contro piccole imbarcazioni. I francesi inviano in quelle acque un paio di piccoli mezzi militari, uno a Socotra e uno lungo le coste yemenite, mentre alcune organizzazioni umanitarie non governative aiutano gli abitanti dell’isola a ricostruirsi una vita, un tessuto sociale ed un’economia sfruttando oltre al terreno e alla pesca anche le sue coste a fini turistici. Mancando i motivi per la sua sopravvivenza, nel giro di alcuni anni la pirateria è un ricordo.
Vicino a Socotra c’è la Somalia, una ex colonia italiana dove le potenze occidentali si sono impegnate a commettere più errori possibili, non ultima un’azione militare sotto bandiera ONU che ha portato più potere e armi ai signori della guerra locali e morte, miseria e carestie per la popolazione. Mogadiscio, la capitale, è da anni il posto più pericoloso della Terra mentre alcuni territori come il Somaliland e il Puntland si sono parzialmente distaccati dal governo centrale e godono di un relativo benessere e, soprattutto, della mancanza di guerre. 
A cavallo del millennio, lungo le coste a nord di Mogadiscio i pescatori iniziano a lamentare una rapida sparizione del pesce di cui queste acque erano sempre state ricchissime. Le autorità locali fanno orecchie da mercante perché ne conoscevano bene la causa: le flotte pescherecce delle grosse industrie della pesca dei paesi occidentali stavano razziando il pesce della Somalia.
I pescherecci industriali di altre nazioni non potrebbero pescare in queste acque riconosciute da tutti come esclusive dei pescatori somali, ma la Somalia non ha motovedette per proteggere le sue acque: i pescatori sono in balia di pirati di cui vedono solo le grandi navi. A questo punto alcuni pescatori iniziano ad utilizzare le armi, che grazie allo stato di guerra si trovano un po’ ovunque, per attaccare le navi pescherecce che stanno depredando il loro mare e, già che ci sono, attaccano anche qualche nave mercantile rapinando i soldi e i pochi averi dell’equipaggio. La risposta occidentale non si fa attendere, e arrivano le navi militari a difendere i pescherecci che pescano di frodo e i mercantili in transito: ha ufficialmente inizio la stagione della pirateria somala.
Poi la situazione peggiora. Sempre più spesso le reti somale raccolgono pesce morto. I somali provano a mangiarlo ma si ammalano. Anche solo il contatto coi pesci morti può provocare vesciche e malanni. In seguito allo tsunami del dicembre 2004 sulle spiagge arrivano dei fusti dai quali esce della roba fluida e puzzolente che non si può toccare perché anche quella provoca malattie. Cos’era successo? La risposta sarebbe nei filmati di Miran Hrovatin e nei taccuini di Ilaria Alpi, entrambi uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994. I due coraggiosi reporter della Rai avevano scoperto l’esistenza di società che, con la protezione dei servizi di sicurezza italiani Sismi e Sisde, smaltivano rifiuti tossici e radioattivi nel Terzo Mondo pagando la connivenza dei dittatori al potere con armi che serviranno per reprimere la popolazione. 


Fino alla fine del secolo i pirati si limitano a brevi incursioni lungo la costa attaccando i mercantili in transito e rapinando gli equipaggi terrorizzati dalla presenza delle poche armi in mano ai pirati. Nel 2000 gli USA iniziano a pattugliare le coste del mar di Aden e della Somalia. Messa alle strette, la pirateria allarga il suo raggio d’azione. Trasforma alcuni piccoli mercantili in navi appoggio e li usa per colpire lontano dalla costa. Ma trovare una nave in mezzo ad un oceano non è facile, e qui subentrano gli informatori delle varie compagnie di navigazione e delle assicurazioni, che informano i pirati sulle rotte e le caratteristiche delle navi da colpire. 
Gli attacchi aumentano, sempre più organizzati, e a volte ci scappa il morto. USA, Russia, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Spagna, Portogallo, Danimarca, Cina, Giappone, Malesia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar inviano navi militari nell’area, cui si aggiungono saltuariamente altre navi di altri stati: migliaia di militari, la più grande concentrazione di navi dopo lo sbarco in Normandia, tutti schierati contro un pugno di “pezzentoni”, colpevoli di non voler morire di fame e di inquinamento chimico e nucleare e di aver reagito alla prepotenza degli occidentali.
Ma come fanno i pirati a sequestrare i mercantili e a tenere prigionieri gli equipaggi fino al pagamento di un riscatto di milioni di dollari? Chi incassa? Chi gestisce il denaro? Chi paga le armi, le munizioni, il carburante? I riscatti di milioni di dollari delle assicurazioni sono tutti pagati ad una società con sede a Londra che si occupa di fare da tramite coi pirati. Chi si nasconda dietro a questa società non è dato saperlo, neppure alla Nato che in una conferenza a Roma dichiara di “non essere in grado di seguire il flusso del denaro”. Sequestrare una nave è difficile ma mantenere il sequestro del personale e portare avanti le trattative per mesi è ancor più difficile. Nel 2010 i pirati hanno gestito 1.181 ostaggi e 45 navi. Serve un’organizzazione, non è una cosa che possano fare alcuni poveri pescatori analfabeti. Dietro ai pirati cominciano ad apparire le varie mafie italiane e russe. Nel 2008 furono pagati 55 milioni di dollari, nel 2009 100 milioni, nel 2011 oltre 200 milioni. Questi milioni spariscono nei meandri del sistema bancario internazionale e ai pirati somali arrivano solo le briciole che permettono a loro e alle loro famiglie di sopravvivere.
Se nei paesi occidentali la pirateria è vista come un reato che infastidisce l’economia delle nazioni industrializzate, in Somalia la pirateria è vista in modo completamente diverso. I pirati non sono considerati dei predatori ma dei difensori delle coste somale dallo strapotere delle potenze occidentali, dalle sue illecite attività di pesca e dallo stoccaggio dei materiali tossici. I pirati somali sono visti come persone che si sacrificano per depredare gli sfruttatori della Somalia e difendere gli interessi della popolazione e il suo territorio. Nel Corno d’Africa il termine usato per questi pirati è Badaadinta badah, ovvero Salvatori del mare, per distinguerli dai criminali nazionali e stranieri che imperversano in mare, in terra e in ogni angolo della regione.
Nel 2008 la Nato organizza l’operazione Ocean Shield, il cui comando è attualmente italiano, e la guerra alla pirateria aumenta di tono. Il 6 luglio 2011 arriva negli USA in catene Ahmed Abdulkadir Warsame, cittadino somalo catturato e tenuto per mesi sotto sequestro su una nave militare statunitense, la USS Boxer (Lhd-4), dove Ahmed è stato torturato ininterrottamente per due mesi. L’intelligence voleva fargli rivelare i legami tra i pirati somali e Al Qaeda ma, a quanto pare, il somalo non aveva mai sentito quel nome. Incuranti del Diritto Internazionale, gli USA lo hanno trasferito in una loro prigione in attesa di giudizio. 
Se qualcuno è rimasto colpito dall’uso della tortura, ricordo che anche in Italia la tortura è legale, poiché nessuna legge l’ha mai proibita. 

Nel 2012 la crisi colpisce anche la pirateria: il numero delle navi attaccate precipita ad una quarantina, con solo cinque attacchi portati a segno. L’aumento della velocità delle navi nell’area pericolosa, le variazioni di rotta, la presenza di militari o mercenari armati a bordo ne ha determinato il tracollo. Il 13 gennaio 2013 Mohamed Abdi Hassan, detto Afweyneh (Lingua lunga), uno dei capi della pirateria somala, annuncia la fine dell’attività per sé e per il suo gruppo, ma non tutto è gratuito. Si calcola che il costo della pirateria nel Corno d’Africa ad oggi abbia superato gli otto miliardi di dollari, e non è ancora finita.
Se invece di spendere otto miliardi per combattere i pirati somali si fossero cercati veramente i responsabili della pesca di frodo nelle acque somale e si fossero identificati i criminali che hanno inquinato quelle acque con prodotti tossici e radioattivi, probabilmente la pirateria non sarebbe mai nata, il mare sarebbe pulito, non ci sarebbero stati decenni di distruzioni, migliaia di morti e carestie. È a causa di criminali occidentali che è nata la pirateria in Somalia, ed è stato per nascondere questi criminali che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi. 
Tempo fa il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha dichiarato che l’utilizzo di navi da guerra non è di per sé sufficiente a risolvere il problema della pirateria e che bisogna continuare a lottare in una maniera più ampia, che includa la ricerca di deterrenti al fenomeno, la promozione della sicurezza e dello stato di diritto e l’identificazione di alternative economiche valide per la gioventù somala.
Belle parole, ma i criminali sono ancora liberi, i pescherecci occidentali razziano indisturbati il mare somalo e i container pieni di fusti radioattivi messi in mare e utilizzati per costruire il molo in un porto somalo sono ancora là dove li avevano visti Ilaria e Miran. 
La pirateria non è sconfitta, è solo sopita: cesserà solo quando finiranno le cause che l’hanno determinata. 

(Tratto da NEXUS New Times, nr. 104)

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