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Solo uomini e bestie? Quanto uomini e quanto bestie? E gli animali? – di Andrea Papi

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Bestia è un termine dispregiativo usato dagli uomini per qualificare gli animali, considerandoli inferiori per autocollocarsi su un gradino più alto, molto più alto, della scala immaginaria d’importanza degli esseri viventi. È la più classica delle operazioni culturali antropocentriche, che vorrebbe qualificare l’animalità per sentirsi distaccati da essa. La “bestia” era la denominazione con cui la chiesa qualificava la parte demoniaca di ogni essere umano prima di inventare il “diavolo”, vero e proprio essere esterno che s’impossessa degli individui. Dicendo “bestia” l’uomo offende solo se stesso e la propria parte animale, che in realtà è una parte nobile rinnegata, a illusorio profitto di una presunta spiritualità. Parte nobile che, fra l’altro, quando si manifesta in autenticità, esalta e non denigra affatto né gli animali né la propria componente animale.

Mi sono chiesto perché ricorrere all’immagine della bestialità nel tentativo di definire il presunto genere antropologico oggi prevalente in Italia. Credo che sia per creare un’immagine ad effetto che, più o meno consapevolmente, richiama ad ancestrali visioni degenerative, a un diffuso decadimento che si ripercuote nel e sul sociale. Ed è un effetto molto forte e suggestivo, che suscita un impatto emotivo immediato efficace, capace d’infondere il desiderio di una rivolta dello spirito contro lo stato di cose presente. Raffinata abilità seducente dell’arte di scrivere, che senza dubbio Paolo possiede in quantità e qualità. Condividendone l’intento, ritengo però che non sia affatto sufficiente per aiutarci a comprendere né con cosa abbiamo a che fare né il magma nel quale siamo costretti a muoverci.

Intendiamoci bene, Paolo ed io non siamo affatto in contrapposizione. Personalmente condivido molte delle cose che scrive, in particolare riguardo alla situazione socio-politica in cui versa la nostra povera italietta, che con grande efficacia definisce primitiva e grezza. La descrizione che ci regala della coscienza politica della classe oggi dominante, la, come la chiama, sedicente classe politica italiana (quella dei professionisti, dico, in quella forma di regime diluito che vige nel bel paese) è illuminante, talmente forte che, appunto, seduce il nostro intelletto. Paolo ci offre una fotografia molto veritiera della subcultura imperante che la fa da padrona nei meandri del palazzo, dove si decide per tutti noi e contro di noi, dove prendono avvio tutte le aberrazioni culturali e comportamentali che ammorbano il presente.

Ciò che non condivido è il sostrato di pensiero che vorrebbe sorreggere la verità della descrizione. Un pensiero che sembra volersi limitare ad identificare la melassa sociale che ci sovrasta, quasi a suggerirci che non può che essere così. La fotografia che fa si presenta come una stigmatizzazione del presente, sulla quale alla fin fine sembra praticamente impossibile intervenire, tanto immodificabile ci appare, presentata nuda e cruda nella sua verità senza speranza.

Quando afferma la parola-chiave dell’Italia d’oggi è brutalità, non complessità, ci dice in modo inequivoco che dove c’è brutalità non c’è complessità. E questo lo considero un primo errore, non solo interpretativo, ma di senso. I concetti che esprimono i due termini non sono affatto in contrapposizione, non si escludono l’un l’altro. Una cosa può benissimo essere brutale e allo stesso tempo complessa. Anche perché si riferiscono a due ambiti concettuali diversi, non coincidenti. La brutalità si riferisce al modo come la situazione si presenta, la complessità è inerente alla sua composizione, alla qualità delle interrelazioni tra le sue componenti.

Ed è proprio in questa differenza interpretativa di senso che si trova la chiave di lettura per cercare di comprendere con cosa abbiamo a che fare. Non possiamo limitarci ad identificare come è il contesto che ci troviamo ad affrontare, fermandoci al modo, anzi alla qualità del modo, del come ci appare e come lo viviamo, quasi fosse una manifestazione imperscrutabile degli dei su cui, ovviamente, sarebbe impensabile intervenire. Soffermarsi su questo limite e stigmatizzarlo vuol dire cercare la linearità delle manifestazioni. Ma il mondo e le sue manifestazioni non sono affatto lineari, bensì complesse e problematiche. La linearità è un approccio ermeneutico che non può che fondarsi sulla semplificazione, perché, siccome la realtà non è semplice, ma appunto complessa, estrapolarne la presunta linea che la dovrebbe definire vuol dire eluderne la complessità della sostanza, riducendone l’insieme delle componenti e la qualità delle interconnessioni. In sintesi vuol dire ridurre forzatamente a semplice ciò che non lo è.

Altro errore di Paolo è che parla quasi esclusivamente delle classi dirigenti. In verità, più che di errore si tratta di diversità di sguardo, che però rischia di indurre in errore nel momento in cui poi se ne traggono delle conclusioni, cosa che Paolo fa con determinazione. Da ciò che scrive si evince che la situazione socio-politica italiana è totalmente in balia e conseguenza pura del modo di essere e proporsi della sua classe dominante che, come ho già detto sopra, descrive in modo mirabile. Il nesso che spiega questa supposta situazione, improntata sulle oligarchie dominanti che determinano in modo netto la massa dei loro sottoposti, è la televisione.

Se ne induce che, secondo questa visione, gli unici protagonisti sarebbero praticamente solo gli adepti della classe dominante e i teledipendenti completamente forgiati da essa. La parodia che Paolo descrive per certi versi è affascinante. Sembra lo scenario di una tragedia greca che si propone sotto la forma della commedia dell’arte. Da una parte abbiamo la sedicente classe politica italiana, il cui livello è così basso e grossolano che non regge le analisi complesse, denotata da una ottusa rozzezza… inafferrabile da sovrastrutture… molto al di sotto di un pur minimo livello di ragionevolezza. Dall’altra i videodipendenti, descritti in modo colorito semianalfabeti, detestanti la lettura, che credono …solo a quello che gli viene vomitato addosso dalla tv, che odiano di un odio quasi mistico tutto ciò che possa avere a che fare con la cultura…Un panorama deprimente, realistico ed efficace, ma, a mio avviso, semplificato all’eccesso.

Siccome però Paolo è sottile, intelligente ed acuto, sa che l’insieme umano di riferimento è un po’ più vasto di questo ciarpame, che esistono anche altri componenti con altre caratteristiche che sarebbe assurdo non prendere in considerazione. Da questo contesto che descrive trae allora una logica conseguenza, coerente e conseguente, che riporto pari pari. Oggi coesistono (per quanto ancora?) due specie umane: quella che ha ancora la nozione dell’altro, e quella che vive come una bestia predatrice senza scrupoli, senza alcun senso di umanità. Uomini e bestie, appunto. La realtà è così stigmatizzata in due tipi antropologici, inconciliabili tra loro, incapaci a comunicare, che sembrano vivere in mondi artificiali separati. Ovvia la conseguenza: non c’è niente da fare, perché si cozza contro una realtà per ora (chissà per quanto tempo?) del tutto inamovibile.

Più lo leggo e più mi convinco che, pur essendo effettivamente “brutalità” la parola-chiave dell’Italia di oggi, per comprenderla a fondo non si può non tener conto della complessità che la compone e l’ha determinata. L’assunzione della complessità, quale elemento imprescindibile, è un metodo d’indagine che rompe la semplificazione interpretativa per cercare di identificare i gangli vitali che muovono le cose e il loro senso, che non si ferma al ciò che è e appare, ma che tenta di andare oltre, alla ricerca della comprensione di che cosa ha fatto si che sia ciò che è e della complessità della composizione di dove ci muoviamo.

Se si fossero veramente formati due tipi antropologici differenti e contrastanti tra loro avremmo due sottospecie interne alla stessa specie. Invece abbiamo sempre una specie, costellata però da diversi individui in costante mutazione. Che poi una gran massa di questi individui si trovi forgiata momentaneamente in un limbo teledipendente è una caratteristica del tempo presente, di cui non si può non tener conto. C’è inoltre da chiedersi come mai è successo e sta succedendo, perché i percorsi umani e sociali sono sempre processi complessi e frequentemente complicati, non stigmatizzabili una volta per tutte, tanto meno inquadrabili in schemi predefiniti che soddisfano soltanto bisogni di logiche che risultano poi astratte.

Ciò che mi sento di dire è che la vigente condizione socio-cultural-politica favorisce volutamente una realtà dove facilmente, troppo facilmente, gli esseri umani danno il peggio di sé. Ma dico anche che questo non è a caso, che è stato possibile per un insieme di concause e di eventi che ci sovrastano e ci inducono a cadere nel baratro che stiamo vivendo. Come pure dico anche che non è affatto obbligatorio essere irretiti in questo miasma mefitico e non riuscire ad uscirne (il fatto che noi ci poniamo questo problema e ne ragioniamo, senz’altro come molti altri di cui non sappiamo, ne è la dimostrazione).

Una delle ragioni principali è che si aperta una falla nell’immaginario del riscatto nel momento in cui a livello di massa è crollata la supposta alternativa. Il momento simbolico di riferimento di questa contemporaneità in caduta libera è l’‘89, il crollo del muro di Berlino, che ha costretto pure al crollo dei miti della sinistra culturalmente egemone (quella autoritaria statalista), crollo delle illusioni di redenzione sociale, che supponevano di riuscire ad emanciparsi impadronendosi dello stato e pianificando dall’alto una nuova era di libertà e di uguaglianza condivise. Da una parte è bene che una tale assurdità mitizzata si sia polverizzata, perché così è finito un inganno che durava da troppo tempo, dall’altra ha aperto un enorme varco, là dove aveva cercato di collocarsi il sogno dei non abbienti e degli ultimi per redimersi dalle aberranti condizioni dell’onnipotente capital-liberismo oggi globalizzato.

Castoriadis l’aveva capito molto bene. È l’immaginario il vero propulsore della creazione di luoghi che definiscono dove e come vogliamo sentirci collocati e vivere. E l’immaginario deluso, per ora sopito, ma ancora vivo sotto la cenere e bisognoso di elaborare i sogni che motivino il nostro esistente, è stato momentaneamente sostituito dai contenuti del potere dominante che, con le armi sofisticate ed efficaci dell’imbonimento mediatico (in primis della televisione), è riuscito abilmente a irretire una gran massa di esseri umani, la quale per ora non riesce più ad autogestirsi le proprie proiezioni di sogno, solleticando il bisogno di desiderare con desideri di benessere consumistico e deliri di onnipotenza, veicolando abilmente il messaggio che per esser liberi e riuscire a riscattarsi bisogna diventare ricchi e potenti. Così i ricchi e potenti che gestiscono le leve del dream-works, la fabbrica dei sogni, sono ora il punto di riferimento immaginario e desiderante cui aspirare per emanciparsi dall’avvilente stato di cose quotidiano che siamo costretti a vivere.

Naturalmente questo è solo un aspetto della questione, nella realtà molto complessa, come dicevo più sopra, e difficile da identificare in tutte le sue componenti. Ma è un aspetto centrale, perché ha aperto lo spazio, concreto e simbolico allo stesso tempo, per l’accettazione di massa di tutto ciò che Paolo denuncia e per il suo dilagare. Detto in termini metaforici, più o meno aleggia diffusissimo un modo di essere e pensare riassumibile così: dal momento che non è più possibile un’altra società alternativa in cui riconoscermi, mi adatto a questa cui non riesco a sottrarmi e, nei limiti di ciò che mi riesce, cerco di ricavarne il più possibile a mio vantaggio. Di qui la conseguenza per cui, indotti dall’imbonimento mediatico che martella senza tregua con una potenza di fuoco impossibile da contrastare coi nostri mezzi, ci si lascia ammaliare dalla trappola delle sirene consumistiche e dalla voglia lussuriosa del desiderio del successo promesso dagli imbonitori dell’immaginario, che se raggiunto darebbe ricchezza e potere (quindi berlusconianamente libertà), e si tira fuori il peggio di sé.

Essendo una costruzione del tutto immaginaria e artificiale prima o poi cadrà, perché nella realtà non potrà essere raggiunta che da pochissimi. Allora l’impatto “antropologico”, come Paolo lo definisce, cambierà ancora. Noi possiamo lavorare per favorire questo cambiamento e per offrire un modo alternativo e radicale di costruire sia l’immaginario di riferimento sia la possibilità dell’alternativa. Possiamo farlo sia denunciando le diverse forme dell’inganno, sia offrendo modi di essere e di costruire creativamente altri modi di vivere e concepire la vita e la convivenza sociale soddisfacenti, creativi e gratificanti, elaborando progetti, sperimentando e proponendosi.

Andrea Papi

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