La femina accabadora o agabbadòra è una donna della tradizione sarda che praticava un’antica forma di eutanasia, un atto pietoso nei confronti del moribondo agonizzanti, con un secco colpo di martello. Da molti considerata una figura leggendaria sembra proprio che non sia affatto un mito.
La donna che termina
Accabadora, la parola è una derivazione di s’accabbu (la fine) e ha lo stesso suono (e significato) dello spagnolo acabar (terminare). Secondo la tradizione sa femina accabadora veniva mandata a chiamare solo nei casi in cui la persona moribonda, pur avendo ricevuto l’estrema unzione, continuava a soffrire e non riusciva a morire, perché “qualcosa” la teneva legata alla vita. Poteva essere un amuleto nascosto, un’immagine sacra, o un peccato imperdonabile.
Allora, da un paese vicino (doveva essere “tia strangia”, cioè venire da fuori), veniva fatta arrivare s’accabadora. Secondo alcuni chiamata, secondo altri “evocata” semplicemente spalancando tutte le porte e le finestre.
Come primo intervento la donna avrebbe rimosso dalla stanza del malato ogni amuleto e immagine sacra e avrebbe posto accanto al capezzale un pettine o un giogo in miniatura. Se tali operazioni non avessero sortito effetto nello spezzare il legame, allora, dopo un certo periodo di tempo, la donna sarebeb ricorsa a sa mazzucca, un piccolo martello di legno, che avrebbe usato in assoluta solitudine, per porre fine alle sofferenze del malato.
I familiari del malato le esprimevano profonda gratitudine per il servizio reso al loro congiunto offrendole prodotti della terra.
Si dibatte da un paio di secoli per decidere se la tradizione sia effettivo residuo di ancestrali pratiche di derivazione matriarcale o un’invenzione folkloristica.
Le prima notizie risalgono al padre scolopio Vittorio Angius che cita l’esistenza di «vecchie pazze» con mazzuoli, chiamate ad alleviare una morte difficile percuotendo la nuca o il petto del moribondo. Ma altri ritennero la storia una pura invenzione.
Fino alla lettera-inchiesta di una squadra di medici premiata conil Premio Alziator 2022: “Accabadora. Mito e Realtà. Storia e reperti di un ritrovamento”.
L’indagine parte dalla confidenza di un paziente, passa per il ritrovamento di una sa’mazzucca avvolta in ritagli di giornale degli anni intorno al 1920, un rosario, dei denti umani, una lista di nomi scritti a matita, ed altri oggetti, attribuibili agli averi di una vera s’accabadora. I fogli di giornale contenevano articoli di carattere religioso, fra cui anche il resoconto della miracolosa guarigione di un bambino dopo l’invocazione a un santo.
Indagini negli archivi Arcivescovili di Cagliari hanno confermato che i nominativi appartenevano a persone di varia età decedute in quel periodo. Sul martello sono state riscontrate tracce ematiche che le analisi hanno confermato essere di sangue umano.
Dunque non è un mito. E dopo tale indagine assumono una rilevanza diversa le varie testimonianze emerse di chi afferma di aver visto s’accabadora all’opera fino agli anni ’60 del secolo scorso.

Era una figura che in un contesto molto religioso, veniva convocata con grande riserbo per garantire una morte rapida e dignitosa a chi stava agonizzando. A nessuno era consentito assistere al suo rito terminale che includeva una procedura di espiazione degli eventuali peccati commessi e non perdonabili che, secondo la credenza dell’epoca, gli avrebbero causato proprio una lunghissima agonia. Da notare che gli strumenti della accabadora, il martello e il giogo in miniatura, sono associati da millenni in molte culture europee alla morte, al passaggio nell’aldilà, alla riunione con il divino, alla rottura dei legami, a un concetto di passaggio che include sia la morte che la rinascita.
Secondo il lavoro svolto dal gruppo dei medici, questa figura svolgeva una duplice attività, era sia s’accabadora per dispensare la morte, che sa’levadora, per aiutare le donne a partorire, in base al compito per cui veniva chiamata vestiva di bianco o di nero. Da questo particolare ruolo duplice di vita e di morte emerge il legame con il culto della dea Madre.
È certamente una storia che echeggia di ancestrale, come la figura della Koga o Jana o Surbile, altra donna della Sardegna antica che era guaritrice e sciamana della comunità, così come le Abbrebarojas, che praticavano incantesimi per propiziare la fertilità dei campi.
A Luras c’è il museo Galluras, che oltre a tanti reperti della cultura e della tradizione della Sardegna custodisce il martello de sa femina agabbadòra, il proprietario, PierGiacomo Pala, è l’autore di “Antologia della femina agabbadora”, in cui ha raccolto le testimonianze e la sua indagine per venire a capo del mistero.


Qualche fonte:
“Eutanasia ante litteram in Sardegna” di Alessandro Bucarelli, Carlo Lubrano
“Il folklore sardo” di Francesco Alziator
“Antologia della femina agabbadora”, PierGiacomo Pala
“Accabadora” di Michela Murgia
Dolores Turchi, Ho visto agire S’Accabadora, Iris 2008
“L’accabadora”, film diretto da Enrico Pau
https://www.galluras.it/
Angius, Vittorio e Casalis, Goffredo, Dizionario geografico storico statistico degli stati di S.M. il Re di Sardegna, vol. II, G. Maspero librajo e G. Marzorati tipografo, Torino, 1834-56
Francesco Teruggi: https://www.academia.edu/43075299/SACCABBADORA_IL_REPIT_E_LACQUA_DELLE_UNDICI_E_MEZZA_ipotesi_su_alcuni_riti_di_aiuto_al_passaggio