Anche nel resto del mondo le cose non vanno per il meglio. L’ Europa sta per farsi ingoiare definitivamente dal vortice che gli oligarchi hanno predisposto per intrappolarla; gli Stati Uniti, fino a ieri nazione-guida per antonomasia, sono diventati un modello da rifuggere anche negli esempi più minuscoli; le nazioni più povere sembrano ormai abbandonate al loro destino, e dovunque si percepisce un generale senso di egoismo che limita le attenzioni agli affari propri, come se a nessuno importasse più che il mondo possa andare in malora.
Una volta per le stragi dei Palestinesi qualcuno si indignava, oggi non si scompone più nessuno.
L’immagine più adeguata che viene alla mente, per l’individuo che cercasse di fare il punto della situazione, è quella di un sommozzatore in immersione, che si trovi improvvisamente a perdere il senso dell’orientamento: non sai più dove sia la superficie e dove sia il fondale, ti fai prendere dal panico, e nuoti impazzito senza sapere se stai salendo o se stai scendendo.
Eppure… Se hai la freddezza di fermarti per un istante ad osservare la direzione in cui vanno le bollicine che escono dal tuo respiratore, ti renderai conto che, nonostante tutto, stai risalendo in superficie.
Fuor di metafora, quelle bollicine corrispondono alla capacità di inquadrare una determinata situazione nel più ampio periodo storico a cui appartiene. Così facendo potremmo renderci conto che ci troviamo – in tutta probabilità – all’inizio della risalita di un’onda sinusoidale, il cui emiciclo sembra durare circa 8-12 anni.
Chiarisco bene quanto sopra, prima di procedere: per “progressismo” io intendo tutte quelle spinte – di tipo individuale, sociale, spirituale, culturale, artistico, ideologico – che aiutino in qualunque modo il lento e faticoso cammino dell’umanità verso una reale situazione di giustizia ed eguaglianza. “Progressista” quindi, in senso estremamente lato, è colui che vorrebbe vedere le ricchezze della terra condivise da tutti gli esseri umani, mentre “conservatore” è colui che vuole mantenere – conservare, appunto – una sua situazione di eventuale vantaggio sugli altri. (Il secondo termine non è usato in maniera critica: uno può anche essersi arricchito con la forza delle sue braccia, ed ha tutto il diritto di sostenere che ciò possiede in più rispetto agli altri gli spetti per natura).
Di certo ancora non siamo alla meta, ma qualche passo in avanti, dall’inizio della nostra civiltà, lo abbiamo fatto: nel medioevo un servo non poteva nemmeno alzare il volto verso il suo padrone, senza rischiare che gli venisse mozzata la testa. Oggi un cittadino qualunque può permettersi di denunciare persino Bush, se ritiene giusto farlo. (Non riesce ancora a farlo condannare, ma almeno 5 minuti di agitazione riesce a farglieli passare). Più in generale, è la distribuzione della ricchezza, e quindi del benessere, che dall’inizio della storia va discendendo inesorabilmente verso sezioni sempre più ampie della società, a fare da indicatore della “freccia del tempo” in senso progressista.
Nel medioevo l’uno per cento della popolazione viveva nel benessere più assoluto, e il restante 99 per cento rischiava letteralmente di morire di fame. Oggi i ricchi esistono ancora, ma è chiaro che una parte di ciò che una volta gli sarebbe appartenuto debba essere stata distribuita in qualche modo agli strati inferiori della popolazione, visto che oggi quasi più nessuno muore di fame, e la percentuale di benestanti è comunque salita di parecchio. (La classe media, o borghesia, fino a due secoli fa non esisteva nemmeno).
Definite in questi termini, sembra che nella storia dell’ultimo secolo le “ondate” progressiste durino mediamente dagli otto ai dodici anni, e siano seguite da periodi altrettanto lunghi di restaurazione. Poi il pendolo riparte daccapo. (In tutto l’articolo mi riferisco esclusivamente alla storia dell’Occidente, ed in particolare a Europa e Stati Uniti).
La necessità di questa alternanza appare sempre più inevitabile, man mano che si procede verso una società sempre più multiforme, nella quale coesistono voci estremamente lontane fra di loro. Se in questa società, su una certa tematica, prevalgono ad esempio le voci progressiste, bisogna poi attendere che anche la parte più restia al cambiamento lo accetti e lo digerisca per intero.
Si possono fare mille leggi che diano alle donne, dall’oggi al domani, le stesse opportunità e gli stessi diritti degli uomini, ma poi bisogna attendere che anche la parte più maschilista della società si adegui di fatto – e non solo a parole – all’innovazione culturale. E per quanto si possa spingere per una qualunque rivoluzione in senso progressista, bisogna saper rispettare in seguito i tempi necessari di adeguamentio per il resto della popolazione.
Come disse Confucio, sbaglia il leader di una nazione che voglia anticipare troppo i tempi della sua evoluzione.
Proviamo ora ad esaminare, per grandi linee ovviamente, i cicli “ideologici”, positivi e negativi, che hanno caratterizzato la storia occidentale dell’ultimo secolo.
Dopo la caduta dei “Grandi Imperi” mitteleuropei dell’800, ci fu in Europa un primo tentativo di allargare la cerchia del potere, con degli esperimenti più o meno riusciti di monarchie che cercavano di convivere con una rudimentale forma di parlamento. Decisamente elitari, e ben lontani dal concetto di democrazia moderna (non esisteva ancora il “suffragio universale”), questi parlamenti cancellavano se non altro quell’aura di dominus assoluto che aveva circondato fino ad allora la figura di re ed imperatori.
Ma venne la Prima Guerra Mondiale a fermare quel ciclo di avanzamento ideologico, e ad azzerare moltissimi dei valori i cui semi erano stati gettati nel primo decennio del nuovo secolo.
Le conseguenze negative della guerra si sentirono in Europa per tutti gli anni ‘20, e solo sul finire del decennio ripartì quella spinta di rinnovo ideologico che diede vita a fascismo e nazismo come nuovi possibili orizzonti della moderna società. (Oggi nazismo e fascismo vengono genericamente condannati, soprattutto per le conseguenze nefaste a cui portarono, ma è innegabile che al tempo in cui naquero furono accolti dalle masse con il necessario entusiasmo ideologico).
Anche per gli Stati Uniti, nonostante la Grande Depressione, gli anni '30 furono ideologicamente positivi, grazie al New Deal di Roosevelt e al susseguente rilancio psico-economico, che avrebbe collocato la nazione, per la fine del decennio, in testa al mondo.
Poi venne la Seconda Guerra Mondiale, con il disastro umano, sociale, e sopratutto ideologico, che preparò il terreno per gli anni bui delle persecuzioni politiche (Maccartismo) e della Guerra Fredda.
Si dovette aspettare il ritmo frenetico e contagioso del rock di Elvis Presley, a metà degli anni ’50, per cominciare a sentire la nuova spinta rivoluzionaria che avrebbe letteralmente buttato a mare le vecchie ideologie, innescando la grande rivoluzione culturale degli anni ’60: Beatles, Rolling Stones, Figli dei Fiori, rivoluzione sessuale, libertà individuali, Black Panthers, diritti civili, tutto era finito nel grande calderone, e ne era uscito completamente trasformato e ridefinito.
Troppo, per troppe persone, in troppo poco tempo.
Lo stop, indispensabile a quel punto, fu imposto in maniera traumatica e inequivocabile con l’assassinio, a distanza ravvicinata, delle due figure più significative e carismatiche di quel periodo: Martin Luther King e Robert Kennedy.
Con la morte del secondo si apriva inoltre per i repubblicani la strada del ritorno al potere, caratterizzato dagli anni della “nuova inquisizione” di Richard Nixon.
A sua volta l’Europa passava dai momenti festosi e costruttivi del ’68 a quelli, molto più oscuri e dolorosi, degli “anni di piombo”: Piazza Fontana, Bologna e Brigate Rosse in Italia, l’ ETA in Spagna, la Rote Armee Fraction in Germania, l’IRA in Irlanda, i Palestinesi un pò dappertutto, l’Europa fu travolta da una miriade di stragi diverse, che restavano però contrassegnate dalla stessa ambiguità di fondo, e che riconducevano regolarmente ad un cui prodest tutt’altro che “rivoluzionario”.
Anche la restaurazione ha bisogno di cambiare maschera, a seconda dell’epoca in cui si manifesta.
Il culmine della notte, in Italia, fu raggiunto con l’omicidio di Aldo Moro, nel ’78. Quando un governo si deve arrendere, in modo così palese e impotente, alla volontà altrui, ed è costretto a sacrificare un personaggio politico come Moro, significa che la res publica di pubblico ormai ha molto poco, e si trova tutta in mano di pochissime persone, che purtroppo non vivono nemmeno da questa parte dell’oceano.
Ma fu proprio nella spaccatura creata dal matrimonio impossibile fra cultura cattolica e cultura marxista che trovò lo spazio per crescere quella cultura laica che fino ad allora era esistita soltanto sulle pagine della nostra Costituzione, e che di fatto durò soltanto per il breve tempo in cui governarono i socialisti di Craxi.
“Ladri” o non “ladri”, gli anni ‘80 furono gli anni della “Milano da bere” e dello yuppismo, del benessere e dei telefonini, ma furono soprattutto anni che diedero all’Italia – e ad altri stati europei – un senso di solidità nazionale mai conosciuto fino ad allora.
Anche negli Stati Uniti, nonostante vi fosse Reagan alla Casa Bianca, era ripartita un’onda di entusiasmo e di ottimismo che aveva cancellato una volta per tutte le ombre del Watergate. Si trattava però di benessere e ottimismo artificiali, le cui conseguenze sarebbero state pagate duramente verso la fine del secondo mandato a Reagan, e nella susseguente presidenza di Bush padre (‘88-‘92).
Anche da noi, inizialmente, la ritrovata “solidità” delle nazioni ci aveva portato a ipotizzare un’Europa unita, forte almeno quanto gli Stati Uniti economicamente, e di certo superiore a loro culturalmente.
La fine del decennio ci regalò invece il disastro che tutti conosciamo: sconfitta da malriposti nazionalismi, sbilanciata da troppi interessi di parte, e abilmente tenuta divisa da chi non voleva il successo dell’Unione – meno colti forse, ma fessi no di certo – l’Europa sarebbe stata fatta comunque, ma non più sulla base di quei principi che avevano alimentato in maniera entusiastica il suo concepimento.
L’onda del riflusso aveva colpito ancora.
Anche gli Stati Uniti, in quel periodo, risentivano pesantemente degli esiti imprevisti della Prima Guerra del Golfo. Soldati che partivano allegri e disinvolti per una semplice ”operazione chirugica”, ritornavano devastati, mutilati, o afflitti da un morbo misterioso e terrificante, e i fantasmi del Vietnam tornavano a materializzarsi nelle coscienze disturbate del popolo americano.
Noi nel frattempo venivamo travolti da una valanga di gol, tette e formaggini dalle nuove TV di Berlusconi, che riuscirono in pochissimo tempo a fare dei nostri cervelli una tale marmellata, da non essere nemmeno più in grado di distinguere i mortaretti dello stadio dalle bombe che piovevano su Baghdad.
Ci indignavamo per i primi, e ci esaltavamo per le seconde.
Un pò in tutta Europa l’entusiasmo iniziale veniva sostituito da un qualunquismo generico e disfattista, che colorava i primi anni ’90 di cinismo e di apatia.
Ma il turn-over che portò Clinton alla Casa Bianca, e la ripresa psico-economica che ne conseguì, finirono per farsi sentire anche da noi, e così ci avviammo tutti al fatidico incontro con “la fine del mondo” – il capodanno del 2000 – con un malcelato dispiacere di veder eventualmente finire un piacevole sogno.
Invece non accadde nulla, e ci risvegliammo tutti con un intero millennio ancora da vivere.
Ma la regola dei cicli storici – a quanto pare – non perdona, e l’11 settembre arrivò per tutti, tanto puntuale quanto inaspettato.
La storia di questi ultimi otto anni la conosciamo tutti, e credo che ben pochi sarebbero ansiosi di riviverne anche un solo giorno.
Ma il pendolo sta cominciando nuovamente a risalire, e ci sta mostrando che gli anni orribili che abbiamo trascorso sono in realtà serviti a metterci di fronte ad alcune realtà, riguardo a noi stessi, che ancora non conoscevamo, o che comunque non volevamo vedere. Ora invece le stiamo accettando, ed è questa nuova presa di coscienza che permetterà al mondo occidentale di ripartire in avanti.
A novembre Barak Obama vincerà sicuramente le elezioni, e coloro che pensano che “comunque non cambierà nulla” non hanno la minima idea di cosa significhi per gli Stati Uniti avere un presidente nero alla Casa Bianca. Se anche Barak Obama non facesse nulla di nulla, dal primo all’ultimo giorno della sua presidenza, il semplice fatto di sedere nell’Ufficio Ovale metterebbe in moto una spirale di ottimismo e crescita ideologica di importanza fondamentale: stiamo infatti per avvicinarci all’altra “fatidica” data, quella del 2012, e non c’è bisogno di credere alle profezie per capire che, a meno di rapidi e sostanziali cambiamenti nel nostro modo di vivere e di pensare, siamo comunque tutti condannati al disastro.
Non è Barak Obama che cambierà l’America – e quindi il mondo – andando alla Casa Bianca, ma è la storia del mondo, con i suoi cicli regolari di progresso e di stasi, che impone oggi un Barak Obama alla Casa Bianca.
Il resto dovrà farlo ciascuno di noi.
tratto da luogocomune