Ci sono molti segnali che l'incontro di Minsk del 26 agosto sia l'inizio di una svolta. Ogni ottimismo è prematuro, per molte ragioni. Ma mi limito a sottolineare i dati più evidenti.
In primo luogo il presidente ucraino Petro Poroshenko è andato a Minsk, su invito formale del collega bielorusso Lukashenko, a incontrare coloro che, fino a un minuto prima, aveva dichiarato di voler salutare, per giunta a muso duro, definitivamente.
I tre ex alleati e ex amici che aveva di fronte comprendevano il nemico principale, Vladimir Putin. Tutti e tre – Putin, Lukashenko, Nazarbaev – fanno parte dell'Unione Doganale che Kiev ha ripudiato firmando il trattato di "associazione" all'Unione Europea. Per fare quel passo è stato compiuto un colpo di stato il 22 febbraio di quest'anno. Adesso Poroshenko va a Minsk e dichiara – immagino tra lo stupore generale dei suoi sostenitori di Kiev – che l'Ucraina intende restare a metà strada, in buoni rapporti con gli uni e con gli altri. Naturalmente non è questa la verità, ma prendere l'aereo per andare a Minsk a dire una bugia, per giunta di fronte a una congelata (dallo stupore) Katherine Ashton, è impresa che resterà negli annali della diplomazia oligarchica ucraina. […]
Secondo punto. Poroshenko è andato a Minsk subito dopo avere sciolto il parlamento e indetto nuove elezioni per il 26 ottobre. Non ci sarà un governo, sostenuto da una coalizione solida, per almeno tre mesi. Il che significa che il trattato di "associazione" non potrà essere ratificato dalla Rada ucraina per un periodo di tempo cruciale e delicatissimo. Che significa? Con ogni probabilità significa che Poroshenko sa di non poter effettuare la virata promessa agli antirussi nei tempi brevi. E' andato a Minsk frenando. Vedremo gli effetti. Ma una cosa appare evidente: Putin non farà concessioni che siano a detrimento della Russia, né sul piano commerciale, né su quello industriale, né su quello energetico.
A differenza del tono dimesso di Poroshenko, che dava l'impressione nettissima di essere sulle braci, Putin ha svolto un impeccabile ragionamento economico: noi non intendiamo discriminare nessuno, ma la mossa di Kiev ci costerà 100 miliardi di rubli, cioè 3 miliardi di dollari solo nei primi mesi. Dovremo difendere il nostro mercato interno. Dunque l'Ucraina perderà tutte le condizioni preferenziali di cui ha goduto in passato, come membro della Comunità di Stati Indipendenti. E non fruirà di nessun vantaggio tra quelli previsti dall'Unione Doganale. Dunque stare in mezzo non sarà possibile. Bisognava pensarci prima. Se ci saranno correzioni, allora si potrà ridiscutere. Altrimenti bisognerà prendere atto del divorzio e trarne tutte le conseguenze. L'Ucraina ci perderà molto di più. Punto. Poi – ha detto Putin – "ribadisco che la Russia non ha mai impedito a nessuno di scegliere alleati economici, e perfino militari" (questa notazione è molto importante, perché dimostra che a Mosca non ci sono illusioni sull'eventualità che Kiev non entri nella NATO). Cioè fate quello che volete, ma anche noi tireremo le nostre somme. L'impressione è stata che Kiev sia in grande difficoltà, mentre Mosca sa cosa può fare e cosa non può fare. Che è una posizione migliore. Singolare – e non mi pare un particolare secondario – che l'incontro si sia svolto in russo.
Terzo punto. L'Unione Europea si è presentata all'incontro con la signora Ashton e non con il presidente della Commissione, seppure in pectore. Una rappresentanza in evidente tono minore, sebbene coniugata con i commissari per l'energia e il commercio. Segno di scarso gradimento per un vertice non voluto? Forse. Ma anche segno di debolezza, o di incertezza, di chi è costretto a subire l'iniziativa altrui. Dopo essere stata co-protagonista del disastro dell'Euromaidan, l'Unione Europea si defila. E ce n'è ben donde: chi pagherà la bolletta del gas non è chiaro, e l'autunno è alle porte. L'Ucraina è in bancarotta totale. L'Europa è in crisi. Certo Bruxelles e Kiev possono infliggere gravi danni alla Russia, ma Bruxelles sa perfettamente che l'Europa ne subirà di non minori. Ed è sempre più clamorosamente evidente che la storia del gas da fracking americano-canadese era un bluff nel quale gli europei hanno potuto nuotare solo tre o quattro mesi. E ora, pover'uomini? Poroshenko, anche lui, è al corrente. Gli ucraini non si riscalderanno con il suo cioccolato. Il suo premier ancora per poco Jatseniuk ha un bel gridare di sanzioni alla Russia: neanche le sanzioni servono per scaldarsi.
Quarto punto. Poroshenko ha accolto l'offerta di Nazarbaev di un piano per la ricostruzione del Donbass. Anche questa è decisione che troverà critici feroci a Kiev, dove il Donbass lo vogliono distruggere e i russi cacciati.
Quinto punto. Le sorti della guerra vanno male per Kiev, malissimo. L'esercito si scioglie e la Guardia nazionale dei nazisti è capace di bombardare le città a distanza, ma fugge il confronto diretto con i combattenti ribelli. Il vertice di Minsk si è svolto in piena offensiva separatista, che continua anche oggi. Diventa forte la richiesta russa di un regolamento attraverso negoziati diretti tra Kiev e il Donbass. Putin ha però rifiutato ogni eventualità di una mediazione russa. "La questione è affare interno dell'Ucraina". La Russia annuncia una seconda colonna di aiuti e nessuno azzarda l'idea di respingerla, neanche la Ashton.
Infine, sesto punto. A Minsk non ci sono gli USA. Neanche come osservatori. Poroshenko accetta. Accetta anche l'Europa. Qualcosa scricchiola. L'operazione Euromaidan, che serviva per isolare la Russia e metterla sul banco degl'imputati, sanzionarla, colpirla, si risolve in un sanguinoso pasticcio da cui nessuno dei promotori sa come uscire. E ancora non si sono sentiti i nastri delle registrazioni del Boeing malaysiano.
Fonte: giuliettochiesa.globalist.it