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ATTACCO ALL’IRAN? SE NE TORNA A PARLARE di Maurizio Blondet

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L’agenzia Novosti, il 30 marzo, ha dato voce ad una «fonte d’alto livello della sicurezza» che dice: «Le ultime informazioni d’intelligence segnalano un’intensificazione dei preparativi militari USA per una operazione dal cielo e da terra contro l’Iran». Il Pentagono, ha aggiunto la fonte, «sta cercando un modo per assestare un colpo che consenta ‘di mettere il Paese in ginocchio al minimo costo’».

Molti commentatori americani, da William Lind (1) a Paul Craig Roberts (2), tornano a ritenere imminente l’attacco a sorpresa contro le installazioni nucleari di Teheran. Elencano a questo proposito una serie di indizi.

Il viaggio di Dick Cheney in Medio Oriente,  in visita ai Paesi arabi «amici», ha avuto una strana conseguenza in Arabia Saudita. Il quotidiano saudita Okaz ha scritto che il Consiglio della Shura (il consesso dei consiglieri della monarchia) sta preparando «piani nazionali per affrontare rischi nucleari e radioattivi improvvisi di qualunque genere che possano toccare il regno, in ciò seguendo l’avvertimento di esperti su possibili attacchi ai reattori nucleari iraniani di Bushehr» (3). Dick Cheney fece un simile viaggio nelle capitali islamiche del Golfo poco prima dell’invasione dell’Irak, nel 2003.

La presenza navale americana  nel Golfo Persico ha raggiunto, per la prima volta in quattro anni, il livello che aveva poco prima dell’invasione dell’Iraq (marzo 2003). Oltre alla USS «Eisenhower» che è nell’area dal dicembre 2006 insieme alla sua squadra d’appoggio, sta entrando nel golfo la USS «Jonh Stennis», che porta 80 aerei ad ala fissa, fra cui i caccia-bombardieri F/A-18 Hornet e Superhornet. Accompagnano la portaerei «Stennis» (con 3.200 uomini d’equipaggio) otto navi d’appoggio, e quattro sottomarini nucleari. Le navi portano missili Patriot, adatti (più o meno) a parare una contro-reazione missilistica iraniana.

Già una settimana prima del lancio della Novosti il generale Leonid Ivashov, oggi vicepresidente dell’Accademia di Scienze Geopolitiche di Mosca, aveva parlato di un piano per l’attacco aereo contro le infrastrutture militari iraniane in «un prossimo futuro».

Le recenti dimissioni forzate dell’ammiraglio William Fallon, il capo del CENTCOM (il comando USA per il Golfo e l’Asia Centrale) aggiunge forza agli indizi. Fallon aveva assicurato: «Nessun attacco all’Iran finchè ci sono io» (on my watch). Per la Casa Bianca era imposssibile, dato il suo prestigio, vincere la sua resistenza e forzargli la mano.

Il segretario al Tesoro USA, Henry Paulson, è stato particolarmente duro nel dichiarare l’Iran un pericolo per il mondo. In un discorso di qualche mese fa al Council on Foreign Relations, l’ex presidente di Goldman Sachs diventato ministro rivelò che il corpo delle Guardie della Rivoluzione iraniane sono «un’organizzazione militare direttamente coinvolta nel progettare e sostenere atti di terrorismo, nonché nel finanziare e addestrare altri gruppi terroristici».

Di più: siccome le Guardie della Rivoluzione «sono così profondamente interne all’economia e alle imprese commerciali iraniane, è molto probabile che chi fa affari con l’Iran, in qualche modo fa affari con le Guardie della Rivoluzione, ossia con dei «terroristi». La minaccia era diretta, più che contro Teheran, con le nazioni che «fanno affari con l’Iran». Minaccia di complicità in terrorismo. In più, Paulson diceva che le sanzioni che gli USA si apprestano ad applicare non sarebbero state solo contro il regime iraniano, ma contro l’intera società iraniana, permeata da «terrorismo» fino alle midolla.

Il 20 marzo, questa minaccia ha cominciato a diventare seria (4). Un ufficio poco noto del Tesoro USA, il Financial Crimes Enforcement Network (FinCEN), ha emanato un rapporto diretto a tutte le banche e istituzioni finanziarie del mondo, dal titolo: «Direttive alle istituzioni finanziarie sulla continua minaccia di riciclaggio che coinvolge attività illegali iraniane». In questo rapporto il Tesoro USA «richiama gli Stati membri (dell’ONU) ad esercitare vigilanza sulle attività che le istituzioni finanziarie sul loro territorio intrattengono con banche domiciliate in Iran e le loro filiali e sussidiarie all’estero».

Le banche del mondo vengono invitate a «tener conto del rischio che viene dalle falle nell’AML/CFT (le sigle stanno per «antiriciclaggio e anti finanziamen to del terrorismo») del regime iraniano, come anche di tutti i programmi di sanzione internazionali applicabili dagli USA con riguardo ad ogni possibile transazione».

Con questa intimazione, si vuole che i Paesi terzi tronchino ogni relazione non solo con le banche di Stato iraniane, ma con quelle private e con le ditte. Si tratta di quel che un banchiere tedesco ha chiamato un «puro e semplice ricatto»,  quando nei mesi scorsi la tedesca Commerzbank ha dovuto interrompere il finanziamento dell’interscambio fra Germania ed Iran per brutali pressioni USA. «Chi vuole fare affari in USA o spera di attrarrre investimenti americani deve andarci piano con l’Iran», scrisse lo Spiegel.

Ora il rischio è di essere messi nel mirino come complici del terrorismo. E’ un giro di vite che intende spezzare tutti i collegamenti finanziari dell’Iran col mondo, rendendo il Paese incapace di fare e ottenere pagamenti per i beni e servizi importati ed esportati.

Il danno per il Paese può essere enorme: il 30% del prodotto lordo iraniano è costituito da importazioni, e il 20% da esportazioni non-petrolifere. Una grossa porzione della economia e anche della società iraniane sarà danneggiata da questo embargo finanziario.

Per esempio, l’Iran produce all’interno il 95% dei propri farmaci, ma le sostanze chimiche farmaceutiche che li compongono sono importate. Sarà difficile curare malattie comuni e meno comuni. E’ una «cura dimagrante» simile a quella sperimentata da Israele sulla pelle di Gaza, chiusa e bloccata nel passaggio di merci, e ridotta alla fame. E come a Gaza, anche contro l’Iran la cosiddetta comunità internazionale ha cominciato ad obbedire a Washington, applicando l’embargo finanziario.

Naturalmente, la prima della classe è l’Unione Europea (benchè la Germania sia la prima fornitrice di merci all’Iran), che ha persino creato una lista nera di persone, che si presume (dagli americani) coinvolte nella ricerca nucleare o nelle guardie rivoluzionarie, a cui è vietato l’accesso in Europa.

Sorprendetemente ma non troppo, anche la Cina – la massima importatrice di prodotti energetici dall’Iran – sta obbedendo al suo cliente e creditore americano. Da qualche mese, le banche cinesi rifiutano di aprire lettere di credito a commerciani iraniani.

Come abbiamo detto giorni fa, solo la Svizzera ha per il momento sfidato l’intimazione americana, stipulando un grosso contratto con Teheran per la fornitura di gas. Il portavoce del Dipartimento di Stato ha condannato l’accordo, riconfermando che la posizione americana è contraria a «ogni investimento in Iran, non solo nel petrolio o gas naturale, ma in ogni settore economico».

E infine s’è chiesto retoricamente che atto di buonesnso fosse quello di fare affari con l’Iran. Difatti, che senso ha un contratto con un Paese che sarà presto distrutto?

Israele ha programmato «la più vasta esercitazione mai compiuta» che simula la risposta a lanci di missili da Iran e Siria. Lanci «convenzionali e non convenzionali». L’esercitazione comincerà il 6 aprile e coinvolgerà anche i membri del governo, che saranno evacuati e messi al sicuro in bunker (5).

 


tratto da effedieffe

 

1) William S. Lind, «Operation Cassandra», Antiwar.com, 26 marzo 2008.
2) Paul Craig Roberts, «A third American war crime in the making», Online Journal, 31 marzo 2008.
3) Chris Floyd, «Attack on Iran: worried yet? Saudis prepare for sudden nuclear hazard», GlobalResearch, 31 marzo 2008.
4) John McGlynn, «The day US declared war on Iran», Asia Times, 1 aprile 2008.
5) «Israel conducts war games directed against Iran and Syria», GlobalResearch, 1 aprile 2008.

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