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Attorno a Putin qualcuno allunga il “body count”

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Chi ha visto il video delle telecamere di sorveglianza non può credere alla tragedia fortuita: una Mercedes a velocità assolutamente folle devia sulla corsia opposta e colpisce, fra le cento vetture che filano sul viale Kutuzovsky, di fatto una tangenziale a sei corsie, la BMW ufficiale del presidente Putin. Scontro frontale. Tanto violento da uccidere il guidatore, l’autista di fiducia di Vladimir Vladimirovic – un uomo sperimentato, addestrato agli imprevisti, quasi di certo un uomo dei servizi, su una delle auto sicuramente più blindate che esistano sulla Terra.

Non sappiamo, né forse sapremo mai come si chiamava. Putin non era a bordo. Si può esser certi che se  fosse stato su quella BMW ufficiale, un tale incidente non avrebbe potuto aver luogo, dato che in questo caso è preceduto, affiancato e seguito da auto della sicurezza, convogli a volte di 90 automezzi. Ma l’uccisione di una persona amica, a lui vicina da anni, è un colpo diretto, e un avvertimento a lui…
Subito sul web un pullulare di sospetti. Fra cui quello che la Mercedes investitrice (il cui guidatore è, dicono, fra la vita e la morte in un ospedale) sia stata “dirottata” a distanza, con un sistema di teleguida e  trasformata in un drone letale su gomma. Ipotesi del tutto plausibile, dato che le più recenti auto di lusso sono dotate di guida autonoma potenziale.
Del resto al vertice G 20 di Hangzou in Cina, solo pochi giorni fa, Obama ha fra l’altro minacciato Putin direttamente di “cyberwar”, di guerra cibernetica, come ritorsione per le presunte intrusioni di hacker russi  nei computer del Partito Democratico e nelle mail di Hillary: “Gli Stati Uniti hanno più capacità di guerra cibernetica di qualunque altro stato, sia difensiva sia offensiva.”  Potrebbe esser questo un primo luttuoso avvertimento? 
La Rete si affretta a rievocare che giusto due anni fa, nel settembre 2014, lord Jacob Rotschild ha   bollato Putin come “un traditore del Nuovo Ordine Mondiale”: frase enigmatica. Che il presidente possa esser definito un avversario del Nuovo Ordine Mondiale (NWO, inteso come governo unico mondiale della finanza) è certo; inoltre i Rotschild di Londra hanno buoni motivi di vendicarsi di lui, dato che sono stati loro a prestare all’oligarca ebreo Khodorkovski i 250 milioni di dollari con cui costui comprò la Yukos, oggi Gazprom, che vale alcune migliaia di volte di più, e che Putin ha confiscato per la nazione:  rovinando un affare d’oro ai finanzieri giudei. Ma “traditore” implica che per qualche motivo Rotschild   aveva diritto di pensare che Putin fosse guadagnato alla causa globalista, e lo accusi di averla disertata.
Sappiamo troppo poco per scavare in queste ipotesi. Notiamo che il “Body Count" – il conto dei cadaveri, come in USA viene chiamato l’elenco degli uccisi che potevano creare problemi ai Clinton – si sta estendendo anche attorno a Vladimir Putin, e si allunga. L’autista di fiducia è il quarto della lista, che comprende pezzi molto grossi.
C’è Christophe de Margerie, l’amministratore delegato della petrolifera francese Total, il cui Falcon 50 si schiantò all’aeroporto di Mosca la notte fra il 20 e il 21 ottobre 2014, dopo che il patron della petrolifera francese aveva incontrato  l’uomo del Cremlino.

I due sono amici, e De la Margerie è una bestia nera per Washington: perché non ha obbedito all’ordine di sanzioni contro il governo Saddam in Irak (ragion per cui è stato condannato per corruzione nel quadro della causa “cibo contro  greggio”) e contro l’Iran (per cui la Total è stata multata dagli USA per 400 milioni di dollari, che ha dovuto sborsare proprio nel 2014). “Total è un nostro partner prioritario da molti anni”, disse il capo del Cremlino, "e la scomparsa di Christophe de la Margerie è una perdita importante per il paese”.

La versione dell’incidente  colposo (il guidatore di uno spazzaneve ubriaco che ingombrava la pista) è sfatata da un libro inchiesta uscito in Francia e dal processo che si è aperto mesi fa a Mosca – per assassinio (vedi in calce a questo articolo per una ricostruzione della vicenda).

 

Mikhail Lesin, milionario, ex ministro di Putin per la Comunicazione (1999-2004), fondatore di Russia Today e del settore dei media controllati da Gazprom, viene trovato morto a Washington, nella stanza del lussuoso albergo Dupont Circle.

Sconosciuti i motivi per cui fosse nella capitale americana: una missione per Putin? Oppure aveva rotto (come si è detto dai media USA) con Putin e il sistema di potere russo? Lesin aveva comprato a Los Angeles una villa da 28 milioni di dollari, il che ha indotto l’FBI, su incitamento del senatore Roger Wicker, ad aprire contro il personaggio una inchiesta per riciclaggio. La causa della morte addotta all’inizio – infarto – è stata smentita.

Boris Efimovich Nemtsov: oppositore politico di Putin, playboy, capo di un partitino senza importanza, il 27 febbraio 2015 viene  trucidato con quattro colpi di pistola da sicari che si allontanano su una Ford: mentre passa a tarda sera con un’amica ventenne, sul ponte  Zamoskvoretski, cioè non solo nel centro di Mosca, ma davanti alle cupole del Cremlino.

Persino esponenti dell’opposizione riconoscono che Nemtsov è un cadavere gettato davanti alla porta di Putin. Naturalmente altri oppositori, e i media occidentali, strillano che Putin è il mandante di questo omicidio, come di quello di Anna Politkovskaya e di Aleksandr Litvinenko, il sedicente agente avvelenato col Polonio a Londra nel 2006…

Da esperto di servizi, Putin e il suo entourage saprà certo valutare se il nemico esterno, che riesce a mettere in atto azioni di sangue di grande sofisticazione a Mosca, abbia o no un appoggio all’interno,  magari nei servizi di sicurezza, o fra i superstiti oligarchi di cui non ha ripulito il paese. È notorio che egli è un “centrista”, fra due gruppi di potere che sono definiti, o si definiscono, “Integrazionisti atlantici filo-americani”, opposti ai “sovranisti eurasiatici”; lo schema può essere sommario e semplicistico per mancanza di informazioni. Di colpo, poche settimane fa, Putin ha congedato il suo onnipotente capo dello staff, Sergei Ivanov: uomo di sua assoluta fiducia, suo braccio destro per dieci anni, esponente (e garante) della potente casta dei siloviki (gli ex KGB), dato da tutti come suo alter ego e financo probabilissimo successore alla presidenza. Invece lo ha fatto “Inviato speciale alla conservazione, ecologia e trasporti”. Tutti i commentatori sono d’accordo sul fatto che la sostituzione di Ivanov è un evento epocale: ma è una rimozione oppure un premio? Un metterlo in secondo piano in vista, appunto, di candidarlo alla presidenza? Egli mantiene il suo posto al Consiglio di Sicurezza, il corpo consultivo degli intimi collaboratori, il che rende difficile la valutazione.

Sergei Ivanov, il capo dello staff sostituito

D’altra parte, Putin sta compiendo alcune grandi pulizie, che possono suscitare ovviamente resistenze  della cui violenza sotterranea possiamo avere solo qualche indizio. Il 19 agosto su Katehon, il sito dei sovranisti, è apparso un articolo dove si invoca “la purga” (termine staliniano) della “quinta colonna nei ministeri”, la nazionalizzazione della banca centrale russa (che oggi “è controllata dai Rotschild”), “la costruzione di una economia nazionale, la reindustrializzazione”, e “l’interruzione della pratica di emettere rubli in rapporto alle riserve di valuta” presso la banca di emissione.
La bestia nera di costoro è Elvira Nabiullina, 49 anni, governatrice della Banca Centrale. Che, seguace dell’ortodossia monetaria della Banca dei Regolamenti Internazionali, ha condotto una politica di restrizione monetaria (relativa, con l’inflazione al 15% l’anno scorso) e collegato l’emissione di nuovi rubli alla quantità di valuta, ossia di dollari ed euro, presenti in cassa  – che i sovranisti vedono come la catena del servaggio sotto l’Occidente. Il crollo del greggio ha ridotto la riserva estera, e dunque l’emissione; per frenare la fuga (emorragia) di capitali, ha dovuto tenere i tassi d’interesse proibitivamente alti, paralizzando di fatto l’imprenditoria russa, non particolarmente brillante, con il costo del denaro esosissimo.
Pochi giorni fa i sovranisti eurasiatici già cantavano vittoria, Putin stava (secondo loro) per aderire al loro progetto di economia “nazionale” (autarchica, stampa del rublo gratis). Poi all’apertura del G 20, Putin ha annunciato: la fuga di capitali è calata ad un quinto, l’inflazione è stata dimezzata (7,6%), il deficit di bilancio è al 2,6%, ma il debito estero russo resta basso, al 12%. La disoccupazione è al 5,6. La ripresa economica è modesta, ha riconosciuto, ma è stabilizzata. È un riconoscimento dei meriti della Nabiullina,  della sua arrischiata decisione di non difendere il rublo quando è crollato il barile – la moneta è caduta quasi del 40%, ma oggi si è apprezzata del 13, e il Wall Street Journal la elenca come terza moneta più forte degli emergenti, il che ne fa, secondo la finanza americana, un paese dove vale la pena investire, tanto più che la Borsa russa è salita del 25%. Questo riconoscimento da parte del Wall Street Journal sarà sicuramente visto come una carezza del Padrone alla Nabiullina.

Fatto sta che Putin non ha fatto la rivoluzione sovranista, tenendosi, al solito, su una linea mediana:  “Abbiamo intenzione di continuare a ridurre il deficit di bilancio e di proseguire a ridurre la dipendenza delle entrate dello Stato dalle esportazioni di idrocarburi. Continueremo una politica equilibrata per garantire la stabilità macroeconomica. Continueremo a migliorare l’ambiente per fare impresa”, — ha assicurato Putin.
La resa dei conti fra le due forze opposte non si è conclusa. D’altra parte, all’ambasciatore USA a Mosca, John Tefft, si attribuisce il seguente esplicito proposito: “Toglieremo Putin dal suo posto e ci metteremo la nostra gente come capi del governo russo.”  Fino a che punto sono assistiti dall’interno, se riescono a compiere atti come l’uccisione dell’autista del presidente in piena Mosca?

 

Cosa è veramente successo al patron della Total?

Il Falcon 50 di Christophe de Margerie, l’amministratore delegato di Total, si schiantò all’aeroporto di Mosca la notte fra il 20 e il 21 ottobre 2014, dopo che il patron della petrolifera francese aveva incontrato Vladimir Putin. Quella notte, il Falcon sbatté contro un veicolo spazzaneve che ingombrava la pista, e l’addetto che lo guidava era (si disse) ubriaco. La famiglia di Margerie non volle nemmeno costituirsi parte civile (sembra, ma è inaccertabile, su pressioni del presidente Hollande) il che ha contribuito a far svanire l’inchiesta nel nulla.

O meglio, finché non si legge il libro-inchiesta della giornalista Muriel Boselli, pubblicato a luglio 2016  dall’editore Laffont, L’Enigme Margerie. La giornalista, specialista del settore petrolifero, ha indagato diciotto mesi; ci tiene a dire (essendo freelance, giusta prudenza): “La mia intenzione non è mai stata di provare che si è trattato di un attentato. Non voglio aver niente in comune con le teorie complottiste di certi siti. Ho solo sottolineato le zone d’ombra…”
Vediamole in breve. Qualche ora prima della tragedia – ha ricostruito la giornalista – il capo della squadra degli spazzaneve “insiste pesantemente col suo capo per passare lo spazzaneve sulla pista”: ma quella notte a Mosca non nevica; piove. Il capo cede all’insistenza, non senza sorpresa. Sulla pista, il guidatore comunica di essersi smarrito, di aver perso i punti di riferimento: cosa non del tutto insolita in uno spazio aeroportuale di notte, ma il guidatore lavora lì da dieci anni, e la visibilità non era pessima. Per due ore il  guidatore ha perso il contatto con il suo gruppo; e nessun messaggio di allarme viene emanato dalla torre di controllo, come sarebbe procedura obbligatoria. Il capo della squadra di spazzaneve comunica con i suoi uomini non per radio ma con il suo telefonino, cosa espressamente vietata dai regolamenti. Era ubriaco, Vladimir Martinenko il guidatore? Le analisi russe attestano che aveva 0,6 grammi di alcol per litro di sangue: l’equivalente di due bicchieri di vino. Certo colpevole in servizio, ma non tanto ubriaco da perdere la coscienza di sé, al punto da lasciare il suo veicolo spazzaneve sull’asse della pista di decollo.
Fin qui, si può forse parlare di un insieme di negligenze criminali. Ma è il lato francese dell’inchiesta che lascia esterrefatti: nel senso che non è stata fatta alcuna inchiesta per la morte violenta di un personaggio così centrale per l’economia nazionale.
Muriel Boselli ha scoperto che persino i 4 tomi dell’indagine che la giustizia russa ha inviato alle autorità francesi non sono stati nemmeno tradotti. Non solo: il vedovo della hostess uccisa nella tragedia, Patrick Vervelle, che s’è costituito parte civile (al contrario della famiglia Margerie) s’è visto rifiutare dal giudice istruttore, madame Aline Batoz, di accedere al voluminoso dossier dell’indagine russa. “I parenti di Margerie non sono stati interrogati, il suo ufficio non è stato perquisito, non sono stati consultati i file del suo  computer, né si è cercato nei suoi effetti personali”, si stupisce la giornalista, e parla apertamente di “omertà”.
Ma chi aveva interesse ad uccidere il capo della quarta azienda petrolifera mondiale? Senza cedere al complottiamo accusatorio, la Boselli evoca quanto Margerie avesse irritato “gli americani”, ossia le petrolifere e il governo USA. Se n’era infischiato della legge americana che imponeva l’embargo e il divieto di commercio con l’Iran (Iran Sanction Act, 1997) e aveva continuato a fare gli affari già da tempo stabili con la compagnia petrolifera di stato iraniana, anzi ampliandoli: dal ’97 Total si unisce a Gazprom e alla malaisiana Petronas in un consorzio con la petrolifera iraniana per sfruttare una parte del giacimento di gas di South Pars: un affare da 2 miliardi di dollari – e “gli americani” lo imputeranno per corruzione, accusandolo di aver distribuito 30 milioni di dollari in tangenti. Un altro contratto per lo sfruttamento del campo iraniano di Sirri A ed E, ha specialmente irritato gli americani perché Margerie aveva soffiato l’affare alla Conoco, che s’era dovuta ritirare in ossequio alla legge sulle sanzioni.
Tra il  1996 e il 2002, l’ONU vara il piano “cibo contro greggio”: siccome le sanzioni americane contro Saddam impediscono al regime iracheno di comprare medicinali e  alimenti per bambini, si consente al regime di vendere una parte controllata del suo greggio in cambio di questi generi. Margerie è in prima linea in questa operazione: alla fine sarà accusato – da zelanti giudici francesi su indicazione americana – di corruzione anche in questo caso, insieme al ministro dell’interno di allora, Charles Pasqua. Fatto singolare, fra i più accaniti accusatori del “corrotto” della Total c’è il giornale satirico Charlie Hebdo, che pubblica rivelazioni sulla causa, alla faccia del segreto istruttorio.
Alla fine del 2014 la Total deve accettare di pagare al governo USA una multa di 400 milioni di dollari per aver violato le sanzioni americane contro l’Iran. Margerie insiste. È la sola personalità economica del mondo occidentale a criticare pubblicamente le sanzioni  di Stati Uniti ed Europa contro la Russia al momento dell’annessione della Crimea. Di Vladimir Putin, l’uomo è amico personale. “Total è un nostro partner prioritario da molti anni”, disse il capo del Cremlino, e la scomparsa di Christophe de la Margerie è una perdita importante per il paese”.

Fonte: maurizioblondet.it

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