I ricercatori del British Antarctic Survey lanciano un nuovo allarme: le temperature del mare che circonda il Polo Sud stanno aumentando in modo più rapido del previsto e minacciano di distruggere in pochi decenni quel che rimane delle popolazioni di pinguini, balene e gamberetti. Il nuovo studio mostra infatti che l'oceano a ovest della Penisola antartica si è riscaldato di più di un grado dagli anni Sessanta, una notizia che ha gettato nella confusione i modelli virtuali e gli esperti, convinti fino a ieri che la particolare combinazione di ghiaccio, vento e correnti della zona avrebbe mantenuto costante la temperatura dell'acqua fornendo uno scudo naturale agli effetti del cambiamento climatico. Al contrario, il rapporto dimostra per la prima volta che gli oceani meridionali si riscaldano eccome, con pesantissime conseguenze per la fauna selvatica di tutta la regione.
Secondo Lloyd Peck, biologo marino che lavora con il British Antarctic Survey, «la temperatura del mare sta salendo con una velocità che non era stata prevista, e questo è molto preoccupante per la fauna marina». Fino a questo momento infatti i modelli di simulazione forniti dai computer escludevano che l'Antartico avrebbe avuto conseguenze dirette dall'effetto serra, mentre oggi il rapporto dimostra esattamente il contrario: il riscaldamento c'è ed è gravido di conseguenze anche perché, conclude Peck, l'ecosistema antartico è così delicato che «basta l'incremento di un grado per mettere a rischio le capacità biologiche, fisiologiche ed ecologiche degli animali che abitano la regione».
Ad accelerare la rapidità del fenomeno ci pensano quelli che i climatologi chiamano feedbacks positivi, che di positivo però hanno ben poco. Appena la temperatura comincia a salire aumenta anche la concentrazione di sale nelle acque di superficie rendendo più difficile la formazione del ghiaccio, perché le acque più dense congelano a temperature inferiori. Ma meno ghiaccio significa anche meno protezione dall'effetto serra, perché l'acqua assorbe il calore del sole invece di rifletterlo come fa la calotta, e finisce per rinforzare la tendenza al riscaldamento del clima. Come l'esperto polare Michael Meredith scrive su Geophysical Research Letters: «Sia l'andamento delle temperature che quello della salinità contribuiscono a ridurre la futura produzione di ghiaccio. A sua volta la riduzione del ghiaccio rinforza l'aumento della temperatura e della salinità in un tipico feedback positivo che tende ad accelerare il fenomeno».
Oltre a fornire ulteriori prove, se ancora ce ne fosse bisogno, che siamo in presenza di una crisi epocale, l'aumento delle temperature al Polo Sud e la conseguente riduzione della calotta hanno effetti immediati sull'intera catena alimentare. E' noto infatti che il krill, una specie di gamberetto che costituisce il nutrimento di una gran quantità di creature marine, dai pesci alle balene, si è ridotto dell'80 per cento dagli anni Settanta. Inoltre la conformazione della terra rende la fauna antartica particolarmente vulnerabile al cambiamento climatico semplicemente perché, come sottolinea il professor Peck, «gli animali non possono più migrare verso sud per fuggire al riscaldamento, sono al capolinea».
Naturalmente, di fronte agli attuali problemi degli esseri umani il destino dei gamberetti polari o delle balene può sembrare ben poca cosa. Chi si illude che la questione riguardi soltanto la fauna selvatica e qualche nostalgico naturalista d'altri tempi, è consigliato di andarsi a rileggere l'ennesimo allarme lanciato la settimana scorsa dall'Istituto per l'ambiente e la sicurezza umana dell'United Nations University di Bonn. Le conseguenze del riscaldamento globale, ovvero l'innalzamento dei mari, la desertificazione e la penuria di acqua potabile, costringono alla fuga almeno 10 milioni di persone ogni anno, accrescendo l'esercito dei profughi ambientali, come vengono ormai correntemente chiamati, a ritmi del tutto imprevisti. Secondo i ricercatori di Bonn è quindi molto probabile che entro il 2010 il degrado ambientale finisca per lasciare senza casa qualcosa come 50 milioni di profughi, impossibili da riassorbire nei sovrappopolati paesi del Nord del mondo. Del resto secondo la Croce rossa già ora i disastri naturali creano più profughi della guerra, ma a differenza delle vittime dei conflitti non ci sono accordi internazionali che riconoscano una condizione particolare ai rifugiati ambientali.
Al quadro bisogna aggiungere l'impatto diretto dell'innalzamento dei mari sulle comunità costiere. E' di ieri la notizia che la piccola nazione di Tuvalu – 11 mila abitanti distribuiti su nove atolli nell'Oceano pacifico – ha stipulato un patto con la Nuova Zelanda: sarà questa nazione ad accogliere i suoi abitanti quando il loro paese verrà cancellato dalla carta geografica. Una fortuna di cui non possono certo godere i circa 100 milioni di persone che, nel mondo, abitano in zone costiere situate al di sotto del livello del mare. Secondo il South Pacific Applied Geoscience Commission solo nel Pacifico ci sono almeno 30 mila isole a rischio, anche se in modo diverso a seconda della loro conformazione e della posizione geografica.
Alcune, come le Tuvalu, rischiano di venire direttamente sommerse dall'innalzamento del mare mentre altre, come le Figi, Samoa e Tonga, sono esposte ai cicloni sempre più frequenti che caratterizzano l'attuale periodo di transizione.
Dopo anni di attiva rimozione del problema, alimentata dagli interessi dell'industria petrolifera e da una sorta di hybris tecnologica che rasenta la stupidità, oggi finalmente si riconosce che il riscaldamento climatico è «la più grande sfida che deve affrontare l'umanità» e che «richiede di unire le forze di tutti per fare significativi progressi nella riduzione delle emissioni». Nobili principi, se non venissero declamati unicamente a scopo elettorale da una coalizione dei partiti che si oppongono a Blair e che impugnano l'ecologia a fini strumentali. Certo, Blair è ben lontano da quella riduzione del 20 per cento prevista da Kyoto per la Gran Bretagna, ma nel campo dell'applicazione del noto protocollo ben pochi paesi al mondo possono vantare significativi passi avanti. Al contrario, invece di stimolare gli investimenti nell'efficienza energetica e nella ricerca di fonti alternative, l'incertezza sul futuro petrolifero spinge i governi a raschiare il fondo del barile, ovvero a far saltare parametri ambientali costati anni di lotte e, contemporaneamente, a premiare le compagnie petrolifere (principali responsabili dell'effetto serra) con sostanziose sovvenzioni per le prospezioni petrolifere nelle zone più sensibili del pianeta, dall'Amazzonia o al Circolo polare artico.
Nemmeno il pronunciamento della Banca mondiale, che in un controverso rapporto aveva sconsigliato di continuare a investire nell'industria estrattiva, è riuscito a istillare qualche dubbio nei fautori del business as usual. Decenni di negoziati hanno svuotato di senso l'unico piano globale contro il cambiamento climatico – il protocollo di Kyoto, appunto – già indebolito dai fautori del primato del mercato a tutti i costi. Forse sarebbe il caso di cominciare a rendersi conto di un aspetto fondamentale del problema: nella logica del profitto immediato che guida il mercato le devastazioni convengono sempre – il grande business delle ricostruzioni, per esempio – anche se i soldi a carico della collettività potrebbero essere molto meglio investiti proprio nelle misure necessarie a contenerli. Senza un profondo cambiamento di rotta in tal senso, il destino dell'homo cosiddetto sapiens si fa davvero incerto.
Articolo di Sabina Morandi
Fonte: www.liberazione.it