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Capitale, rendita, recessione: critica a Piketty

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Il processo di evoluzione in senso sempre più oligarchico della società del XXI secolo viene ampiamente documentatamente analizzato e spiegato nelle sue strutture profonde nell'ormai celebre opera dell'economista francese Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, uscita nel 2013. È un saggio molto ampio e documentato, impossibile da riassumere in questa sede; qui cercherò di indicare i punti-chiave della sua analisi:
1) dall'inizio del XVIII secolo fino alla prima Guerra mondiale le condizioni economiche dell'Occidente erano:
a- minimo tasso di inflazione, minimo tasso di crescita economica pro capite (0,2-1%);
b- rendimenti del capitale mobiliari e immobiliari mediamente del 4-5%;
c- prevalenza dei redditi da capitale sui redditi da lavoro ;
d- conseguente società basata sui rentiers (costituenti circa l'1% della popolazione, detentori di un patrimonio e di un reddito di almeno 50 volte quello medio), resto della popolazione a livelli molto bassi di ricchezza ;
e- il fatto che la rendita del capitale (immobiliare e finanziario) era molto superiore al tasso di crescita dell'economia, comportava automaticamente che i capitali tendevano a crescere e a concentrarsi – fattore, questo, fondamentale nel modello di Piketty, perché produce una divergenza oligarchica sempre più ampia nella società;

2) dopo la Seconda Guerra Mondiale, per trent'anni:
a- forte aumento del tasso di crescita economica e del tasso di inflazione;

b- riduzione del valore dei capitali per effetto dell'inflazione;

c- redistribuzione verso il basso dei redditi e dei capitali;
d- spostamento notevole di quote di reddito dai capitali al lavoro;

3) dal 1975 in poi:
a- inversione di queste tendenze, cioè graduale ritorno di quote di reddito dal lavoro al capitale;
b- tendenza alla riduzione del potere di acquisto dei redditi da lavoro e prestiti facili a tutti (subprime loans) per consumi e casa al fine di compensare il calo dei redditi da lavoro;
c- tendenza crescente alla concentrazione di capitali redditi nelle mani di piccole frazioni della popolazione;
d- tasso di redditività (quindi di crescita) dei patrimoni proporzionale alla loro grandezza (per varie ragioni);

4) più recentemente, e oggi:
a- sovraindebitamento diffuso, scoppio delle bolle del credito facile (subprime);
b- calo della domanda aggregata (dovuto allo spostamento di quote di reddito dai ceti medio-bassi che spendono molto per consumi, ai ceti alti, che spendono poco preferendo investimenti finanziari);
c- quindi calo degli investimenti, dell'occupazione, dei redditi;
d- ritorno a una società di redditieri con caratteristiche inedite ed estreme dovute alla finanziarizzazione dell'economia (aggiungo io: il reddito nazionale non è più diviso soltanto tra lavoro e capitale convenzionale che, unendosi, producono ricchezza; ma ora si è aggiunto il business della produzione di strumenti finanziari generati dal nulla, che consentono a chi li genera e li colloca di prendersi una buona parte della torta del reddito nazionale, senza contribuire o aver contribuito alla produzione di ricchezza reale, come invece fa anche il rentier normale, che incassa gli interessi senza lavorare, ma su un capitale che proviene dal lavoro e dal risparmio);
e- i rentiers (creditori, titolari di assets finanziari nominali come bonds pubblici e privati), soprattutto tedeschi, impongono in Europa il dogma dell'austerità (consacrato nello statuto della BCE, nei vincoli di bilancio, nel Fiscal Compact, ma privo di basi empiriche), per salvaguardare il potere d'acquisto dei loro crediti e delle loro rendite, cioè impongono politiche restrittive e recessive per difendere il potere d'acquisto dell'unità monetaria (Euro) a detrimento del potere d'acquisto dei redditi da lavoro (le politiche recessive causano fallimenti, disoccupazione, tagli salariali, recessione) e da assets reali (l'inasprimento fiscale decurta i redditi degli immobili e deprime oil loro valore di mercato);
f- questa crescita bassa o nulla associata (1-1,5%) ad alti rendimenti (4-5%) delle attività finanziarie potenzia l'effetto di accumulazione-concentrazione esponenziale della ricchezza nelle mani di un'oligarchia sempre più distaccata verticalmente dalla popolazione generale (vedasi il paragrafo Divergenza internazionale, divergenza oligarchica, nella Parte Terza del libro di Piketty).
Questo processo sta producendo il nuovo ordinamento di fatto e di diritto del mondo intero, in cui le classi medie si dissolvono e restano fondamentalmente due classi: un'oligarchia renditiera, parassitaria, tecnocratica, ristrettissima; e una pauper class di tutti gli altri.
L'autore conclude affermando che questo sistema è  ormai vicino a soglie critiche; il correttivo sarebbe (Piketty stesso la giudica però utopistica) una tassa progressiva, annuale, mondiale sui capitali, per controbilanciare la tendenza alla concentrazione sempre più ristretta della ricchezza intesa sia come patrimonio che come reddito. Questa tendenza scaturisce automaticamente dal fatto che il tasso di rendimento dei capitali è stabilmente superiore al tasso di crescita economica, sicché avviene un continuo trasferimento di ricchezza dai lavoratori ai capitalisti. Inoltre, dato  che i grandi capitali e i grandi redditi da questi generati sono apolidi per loro natura e possono sfuggire al fisco, o negoziare con capi di governo come Junker un'aliquota agevolata dell'1 %, abbiamo una situazione oramai in cui gli oneri fiscali ricadono solo sui redditi e i capitali medi e piccoli, erodendoli, e consentendo per contro a quelli grandi di accelerare la velocità di crescita. Da qui una sempre maggiore diseguaglianza sociale.
Un'ultima considerazione critica rivolta a tutte le proposte di risolvere il problema della recessione, stagnazione e concentrazione di ricchezza attraverso una tassazione dei capitali, cioè attraverso una tassa patrimoniale, mondiale, annuale e progressiva. Questa considerazione vale anche per la proposta di Piketty. La tassazione del capitale, se realizzata in ambito nazionale, è controproducente perché colpisce solo i capitali piccoli e medi, mentre quelli grossi o molto grossi, essendo di natura essenzialmente finanziaria, sfuggono al fisco trasferendosi in luoghi dove non pagano o pagano solo l'1% come nel Lussemburgo degli accordi segreti fatti a suo tempo da Junker con centinaia di multinazionali. Realizzare una tassazione mondiale sui capitali, come vorrebbe l'economista francese, è praticamente impossibile, stante il conflitto di interesse tra i vari paesi, la loro competizione al ribasso sulle imposte per attrarre capitali, e stanti anche le molte differenze di esigenze tra di essi.
Ma, quand'anche si riuscisse a realizzarla, essa sarebbe inefficace
perché la principale causa della concentrazione parassitaria, anzi fraudolenta, del capitale e dei redditi, da oltre 10 anni a questa parte, non è quella individuata e studiata dall'economista francese, ma sta nella cosiddetta finanza creativa, ossia nel fatto che, oramai, migliaia e migliaia di miliardi di ricchezza virtuale, contabile, vengono creati da una oligarchia ristrettissima che ha i mezzi e la forza per farlo, attraverso la semplice generazione dal nulla e a costo zero di titoli finanziari perlopiù derivati, che vengono poi collocati sui mercati tanto regolati quanto non regolati e opachi, da un sistema bancario in parte ufficiale, in parte no. Questa attività di creazione e collocazione, con le enormi masse di potere d'acquisto che essa raccoglie e sposta istantaneamente intorno al mondo, con le gigantesche bolle che crea e le cui esplosioni ricadono sui bilanci pubblici, è l'origine del fatto che la ricchezza virtuale, finanziaria, nominale, è oramai un multiplo di quella reale, sia in termini di patrimonio che in termini di giro d'affari. È l'origine del fatto, quindi, che il mondo è oramai un'instabile piramide rovesciata, un gigantesco schema Ponzi in cui il debito continua a crescere e gli interessi sono pagati attraverso la creazione di sempre un nuovo capitale virtuale, senza basi reali.
In conclusione, il paradigma di Piketty è come parlare della guerra oggi ignorando l'esistenza delle armi nucleari, fermandosi a quelle convenzionali. Esso va cioè integrato con questa ulteriore 'dimensione', per corrispondere alla realtà odierna; allora apparirà chiaro come nessuna tassa, patrimoniale o altra, potrebbe prevenire o correggere gli effetti del suddetto meccanismo, perché non lo raggiunge e perché esso non ha bisogno di patrimonio per operare, dato che esso, a differenza dell'industria non puramente finanziaria, usa come 'capitale' non beni patrimoniali, ma la sua posizione di cartello mondiale bancario e l'accettazione di mercato dei prodotti-simbolo che esso genera e smercia (questo tema verrà trattato nella seconda parte di questo libro).
Inoltre, nessun rigore di bilancio pubblico, nessuna prudenza nel credito bancario, potrebbe realizzare una stabilità finanziaria nel mondo, una stabilizzazione del debito, finché un tale meccanismo è in azione, nè tantomeno un catasto degli assets finanziari, come lo vorrebbe Piketty: sarebbe come fare il catasto delle onde del mare o delle nuvole del cielo, o più esattamente delle partite di poker. L'unica soluzione sarebbe fermarlo, impedirlo e proibirlo esattamente come si reprime un'attività terroristica, assieme al suo complemento, cioè le agenzie di rating privato. Ma esso genera e distribuisce quantità enormi di profitti, quindi di consenso; perciò è improbabile che le istituzioni agiscano contro di esso.
La proposta di Piketty di una tassa patrimoniale mondiale progressiva periodica come soluzione alle distorsioni che egli individua e come mezzo per sostenere la spesa pubblica ha un ulteriore e più grave limite nella errata concezione della moneta, delle sue dinamiche, e conseguentemente del debito pubblico, in cui egli è prigioniero, e che lo intrappola nell'illusione della scarsità oggettiva della moneta (per una trattazione di questo, v. il mio Cimiteuro).
Nella loro superficialità o radicale malafede, i capi dei sindacati e dei partiti della pseudo sinistra non si occupano di questi fattori, li ignorano, e dirigono l'interesse e le «lotte» dei loro ingenui seguaci su problemi falsi o secondari, come le indennità di disoccupazione o il sostegno ai redditi, mentre le suddette tendenze vanno avanti e creano un contesto in cui la difesa dei diritti dei lavoratori diviene semplicemente impossibile. Questo contesto è dato dalla adozione del principio della competitività commerciale come criterio per le politiche economiche, ossia a livello mondiale è stato imposto un modello di sviluppo che dice: dovete puntare sul commercio, sulle esportazioni, sull'attrazione di investimenti esteri; puntare a realizzare attivi commerciali e ad attrarre capitali per introitare valuta.
Quindi si abbattono le barriere doganali e i limiti alle importazioni, e tutti i paesi devono competere tra di loro riducendo i costi delle loro merci allo scopo di riuscire ad esportare e ad attirare investimenti esteri.
Da un lato questo è un gioco a somma zero, perché il totale delle importazioni di merci e capitali è, per definizione, pari al totale delle esportazioni; e, dall'altro lato, si traduce nel continuo taglio dei diritti economici e non economici dei lavoratori, finalizzato a ridurre i costi di produzione quindi i prezzi, nella illogica rincorsa dei salari cinesi o pakistani, per rendere i prodotti più competitivi sui mercati globali. Inoltre i vari paesi sono posti in una reciproca competizione al ribasso delle imposte per attrarre capitali stranieri.
Chi subisce questo trattamento peggiorativo – lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, pensionati, disoccupati – è ormai la maggior parte della popolazione; quindi questo processo peggiorativo è un altro potente fattore che aumenta la divaricazione sociale in senso oligarchico.

I processi di divaricazione sopra descritti comportano che la classe dominante finanziaria deve attrezzarsi per fronteggiare un malcontento e una ribellione popolare che si fanno sempre più probabili ed energici col crescere automatico della diseguaglianza, dell'impoverimento e del generale peggioramento delle condizioni di vita di quasi tutta la popolazione. Questi strumenti consistono:
a) in norme giuridiche e corpi di polizia che consentano un'adeguata repressione delle sommosse (vedi Eurogendfor, o European Gendarmery Force);
b) nel nascondimento della realtà, nella disinformazione, nel make-believe, cioé nel far credere alla gente, in base a teorie economiche elaborate ad hoc e ripetute continuamente da mass media, istituzioni e università, che ciò che avviene sia inevitabile conseguenza delle leggi oggettive dell'economia, del mercato, della competitività, della meritocrazia; e/o che sia dovuto al fatto che la gente ha vissuto in passato al di sopra dei suoi mezzi (quindi teoria della colpa e dell'espiazione); e/o che sia necessario per la Pace, la Giustizia, la Sicurezza, l'Ecologia;
c) si aggiunge la predicazione pauperista di papa Francesco: i cristiani dovrebbero accettare di buon grado la riduzione in santa povertà.
Ormai si è visto che la riduzione delle retribuzioni e la precarizzazione dei posti di lavoro, che è ciò in cui consiste la riforma strutturale predicata dalle istituzioni europee e dalla BCE e dai partiti della pseudo-sinistra, dai Renzi e dagli Hollande, porta a una contrazione strutturale della domanda aggregata, contrazione che si traduce in una contrazione degli investimenti, dato che nessuno investe se non ha una domanda capace e disponibile a comperare i suoi prodotti. Da qui una spirale di disoccupazione, recessione, calo delle entrate tributarie a parità di pressione fiscale, aumento della spesa pubblica per sostegni al reddito. Tutta la politica economica internazionale, non solo europea ma anche globale – WTO, FMI, Trattatto Transatlantico (TTIP), dottrina dell'austerità – è impostata su questo modello rovinoso per la gente, e continua a produrre risultati altamente nocivi per la collettività e altamente profittevoli per piccole ma dominanti aliquote della popolazione, che sono quelle che detengono ed esercitano il potere politico e finanziario al di sopra di tutti gli elettorati e parlamenti. In particolare, il suddetto Trattato Transatlantico, il cui testo effettivo viene mantenuto segreto, viene negoziato a porte chiuse (autentica democrazia) tra USA e UE. I suoi fautori promettono che aumenterà i commerci, il prodotto lordo, l'occupazione. Ma sono promesse false: come mostrano studi amici dell'Onu e del centro studi economici del parlamento europeo, questo trattato, se adottato, avvantaggerà gli USA sull'Europa, ridurrà il Pil e l'occupazione in Europa, priverà gli Stati della possibilità di regolamentare il commercio a tutela della salute e della sicurezza della popolazione qualora le regole possano ridurre i profitti delle multinazionali (pensiamo a tabacco, ogm, conservanti e coloranti…) e li sottoporrà, in tali casi, al giudizio di una commissione arbitrale sostanzialmente privata.
Il Trattato Transatlantico è quindi uno strumento avanzato per trasformare gli Stati nazionali da soggetti attivi e politicamente sovrani, rispondenti alla popolazione, in contenitori attrezzati per popoli superflui, simili a recinti, a stalle, e governati dal grande capitale apolide attraverso il cartello monetario-creditizio internazionale, le agenzie del rating, la manipolazione dei mercati finanziari, i banchieri centrali 'indipendenti', le sovvenzioni agli uomini e ai partiti politici nonché ai centri di ricerca e di istruzione in materie economiche.
Ma il Trattato Transatlantico è soltanto l'ultimo di molti passi compiuti in questa direzione. Altri passi salienti sono stati la deregolamentazione finanziaria e commerciale inaugurata dalla Thatcher e da Reagan negli anni '70, l'introduzione in molti paesi dell'indipendenza dei banchieri centrali dallo Stato e del finanziamento del debito pubblico sui mercati speculativi, l'autorizzazione alle banche di credito e risparmio ad usare i soldi dei risparmiatori per speculazioni e azzardi finanziari (abolizione del Glass-Steagall Act, fatta nel 1995), lo stesso impianto autocratico delle istituzioni comunitarie, il Trattato di Maastricht e l'Euro (Sistema Europeo delle Banche Centrali), il Trattato di Lisbona, il Fiscal Compact.

Nel 1999, Jean-Claude Junker, allora presidente dell'Eurogruppo, spiegò apertis verbis la tecnica di ingegneria sociale adoperata per introdurre le riforme desiderate dai poteri forti: enunciare l'idea della riforma come giusta, utile, nobile (la gente non ne capisce gli effetti di lungo termine), aspettare che l'idea venga in qualche modo accettata, eseguire la riforma sul piano normativo, aspettare finché essa abbia prodotto effetti tali che la gente non possa più tornare indietro, nemmeno se vuole. Per che interessi lavora uno Junker e chi lo ha votato, oltre che per la propria carriera? Per quelli delle multinazionali a cui ancor prima, durante il suo ventennio di premiership del Lussemburgo, concedeva loro, con patti tenuti segreti e solo ultimamente (novembre 2014) portati alla luce e allo scandalo, di pagare tasse irrisorie, come l'1 %. Del resto, anche Mario Monti, in un'intervista video rilasciata prima di essere nominato premier italiano, aveva dichiarato che le crisi sono utili per far accettare le riforme. La questione è sempre quella, però: che riforme? Dirette a che cosa? Nell'interesse di chi? A spese di chi? E su quali prove empiriche di efficacia delle riforme suddette? Conosciamo abbastanza bene le risposte a tutte queste domande. E sappiamo che tutte le previsioni-promesse economiche dei soggetti che hanno proposto-imposto le riforme sinora eseguite, sono state smentite dai fatti, dai risultati, che sono stati sempre peggiorativi.

Complessivamente è oramai chiaro che i capi dei partiti tradizionalmente di sinistra hanno scelto di passare dalla difesa della collettività alla difesa degli interessi del capitale contro quelli della collettività, perché hanno capito che la tendenza irresistibilmente in atto è quella sinora descritta, una tendenza alla concentrazione elitaria di capitale, reddito, potere politico; pertanto hanno ritenuto che le loro fortune sarebbero state assicurate se si fossero unite a quelle del capitalismo, mentre sarebbero tramontate se fossero rimasti fedeli agli interessi sociali. 
Questi sono i fatti e i temi che qualsiasi forza politica o sindacale interessata al bene della generalità e non a quello dei propri capi e della élite globale, porrebbe come centrali per la sua azione e comunicazione.

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