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CHI CREDE A CHI? di Paolo Cortesi

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In questi modi di dire è contenuto un processo sociale e culturale di enorme rilevanza: la parola scritta fu, per secoli, la fonte dell’autorevolezza e garanzia di verità. Tale funzione venne poi conquistata dalla parola udita, o meglio “vista”, sul teleschermo.

Chi oggi non è più un ragazzino è stato testimone oculare di questo slittamento epocale. “L’ha detto la tv” era la fonte della credenza popolare, e ciò che “aveva detto la tv” poteva forse stupire o lasciare perplessi, ma la sua forza argomentativa era comunque tale da non poter essere ignorata.

Esisteva, insomma, un canale privilegiato da cui la folla dei telespettatori (li chiamavano così, tanti anni fa…) ricavava notizie e informazioni la cui credibilità era tutta e soltanto nel mezzo di comunicazione: se lo aveva detto la tv, doveva essere vero…

L’essere umano è uno strano bipede che riesce a contenere, nella sua esperienza di vita, le più strazianti contraddizioni: la luminosa ragionevolezza talvolta coesiste con una nevrotica confusione di pensiero. Questo è evidente soprattutto nel processo di formazione delle opinioni.

Come prestiamo fede ad una affermazione? Perché siamo più favorevoli a ritenere vera una cosa piuttosto che un’altra? Chi crede a chi?
Nell’antichità, la parola, per il semplice fatto di essere stata espressa, aveva essa stessa un suo potere di verità.

Platone, nel Fedro, racconta che l’autentica conoscenza può essere rivelata solo dal maestro all’allievo, personalmente, direttamente, vocalmente. Il grande filosofo nutriva un forte disprezzo verso la parola scritta (ed è curioso, visto che lui ha scritto molto e ci ha lasciato alcune delle opere più splendide del pensiero greco). Platone temeva che affidando la parola alla carta si sarebbe svilita la sapienza; gli indegni ed i malvagi avrebbero potuto avere accesso alle rivelazioni più alte; la memoria si sarebbe perduta dato che non sarebbe stato più necessario imparare a memoria il testo che si poteva leggere facilmente.

È chiaro che Platone si riferiva al valore iniziatico della comunicazione; egli non pensava alla lista della spesa o ai bigliettini amorosi quando parlava di parola scritta, ma intendeva testi che rivelassero la profonda essenza delle cose, testi filosofici, in una parola: la Verità.

Fino all’innovazione di Gutenberg, la parola scritta aveva un’importanza estrema, quasi sacrale, per noi inimmaginabile. L’analfabetismo quasi universale, gli elevatissimi costi delle materie necessarie (pergamena, inchiostri, scriptoria) facevano sì che anche il più modesto manoscritto avesse un valore davvero ingente. È chiaro che si leggeva con riverenza e con ogni attenzione ciò che era contenuto in oggetti così preziosi; la parola scritta era rara e dunque d’altissimo valore.

Per secoli, la conoscenza umana è stata collegata – materialmente collegata…- alla scrittura, alla pagina, alla stampa.
In tempi assai recenti, nello tsunami dell’analfabetismo di ritorno, la scrittura ha perso fascino e importanza. Ora la maggioranza dei cittadini di un paese di sì splendida tradizione culturale qual è il nostro preferisce che qualcuno gli dica, anzi spesso gli urli, la verità.

Il nostro bravo italiano medio si siede (stende?) davanti al televisore e, spesso a caso, accoglie con passiva ricettività le affermazioni che provengono dal rumoroso elettrodomestico.

Leggere è troppo faticoso! Per carità: seguire con gli occhi (molti lo fanno col dito, come i bimbi della prima elementare!) le righe fitte di quelle paroline tutte in fila come nere formiche; ricordare la frase precedente, collegarla alla successiva, elaborare il tutto nel cervello…! Dio mio, che fatica insopportabile! Che strazio indicibile! Oh no: assai meglio stare a orecchie spalancate e bocca semiaperta ed aspettare che qualcuno dica come stanno le cose. Lui parla, tu ascolti. Molto facile, molto comodo. In un’era che ha elevato l’inerzia a nobile valore etico, questo giochino idiota è la più bella forma di conoscenza!

Lo sanno bene i politici che hanno preso il potere usando come unico mezzo persuasivo deliranti monologhi alla televisione.

Eppure…eppure….eppure accade, ma ahimè solo in casi estremi, che la vecchia magia non funzioni più. L’atavica pigrizia mentale dell’italiano medio ha uno scatto ferino di ribellione e ciò che dice la tv non fa più presa.

L’esempio recentissimo ci è offerto dall’affaire dell’influenza aviaria. Sapete bene di che si tratta, ma mi si conceda un telegrafico riassunto per puntualizzare l’aspetto di cui vorrei parlare.

I mass media hanno creato una bella psicosi di massa; con titoli agghiaccianti, previsioni apocalittiche e termini da grand guignol hanno espresso un concetto lineare nella sua drammaticità: è imminente una pandemia che potrebbe sterminare il genere umano. Chi non si spaventerebbe a questa atroce dichiarazione? Gli esperti (i massimi complici di questa brutta storia) sentenziano alternativamente: la pandemia c’è e colpirà; la pandemia sarà debellata dai vaccini; la pandemia è sotto controllo; la pandemia ci è un po’ sfuggita di mano; la pandemia non ci sarà; e via variando.

Al primo cigno trovato morto in Italia, i giornali e i tg hanno strillato “ecco! è giunta la morte nera fra noi!”; poi, subito dopo, hanno esortato a non drammatizzare e a non lasciarsi prendere dal panico, quello stesso panico che hanno distribuito a dosi industriali in tutti i modi.

Davanti a questa schizofrenia, l’italiano medio si rifugia nella più ostinata diffidenza. Non crede più a nulla e a nessuno e assume comportamenti che, su vasta scala, hanno conseguenze devastanti. Non si compra più il pollo nostrano – che è sicuro al cento per cento -; si fa crollare un settore dell’economia, si lasciano a casa migliaia di lavoratori.

Premesso che sono del tutto contrario ai sistemi di allevamento industrializzati, che trattano forme viventi come fossero scatole o bulloni, mi chiedo come si possa invitare alla normalità dopo che si è fatto di tutto per violarla.

La gente è oggi stranamente passiva e inerte. Forse è proprio per questo che la sola reazione che riesce ad elaborare è di negazione acritica. Dopo aver sopportato tutto, dopo aver subìto tutto, la gente sceglie – quando può scegliere…- la totale non-collaborazione con chi la governa/comanda.

Ormai gli spazi in cui la volontà individuale può ancora esercitarsi sono così rari e angusti che il nostro buon italiano medio non li affida al suo padrone di turno, ma ne pretende la determinazione: almeno sul pollo decido io! esclama il nostro Signor X medio.

Bombardato da puro terrorismo mediatico, vessato da leggi e decreti come neppure in epoca carolingia, umiliato da una politica fatta da una minoranza di onnipotenti e intoccabili, straziato da un carovita che farebbe urlare di dolore un mugik, istupidito da una sistematica demolizione della libera cultura, il povero Signor X non è più in grado di progettare il suo futuro, non sa vedere oltre la fine del mese, non può più sperare in un felice avvenire per i suoi figli.

Dopo che gli è stato sbattuto in faccia l’arrivo del mortale virus che fa strage di volatili (e la farà anche di uomini!), dopo che gli è stato intimato di non temere quello stesso virus e di affidare la sua vita agli esperti che premurosamente lavorano per lui, il povero Signor X capisce che c’è qualcosa che non va…

Schiavo sotto i Romani, servo della gleba nel Medioevo, operaio sottopagato nella Rivoluzione Industriale, carne da cannone in due Guerre Mondiali, burattino decerebrato sotto la dittatura fascista, carne da radiazione nella Guerra Fredda, carne da tv adesso, il povero Signor X si guarda attorno e, a fatica, esce dal torpore muto in cui lo tiene immerso, come in formalina, il padrone di turno…Esce dal torpore e comincia a temere che ci sia qualcosa che forse non va…

E non compra più il pollo che prima mangiava di gusto.

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