{mosimage} Vincenzo Visco |
Quest’anno il giro delle proroghe, dei rinvii, delle modifiche normative con effetto retroattivo ad esercizio già chiuso ed in deroga allo statuto del contribuente è stato particolarmente frustrante ed ha fatto rilevare come lo scontro tra i due schieramenti politici utilizzi l’arma della politica economica (in particolare quella fiscale) non per cercare di migliorare la nazione ma per punire le categorie che hanno votato per la parte avversa.
In realtà chi perde è il sistema produttivo.
La pletora degli adempimenti formali (per lo più inutili e vessatori), nuove normative che si accavallano con le vecchie ed incertezze sui tempi di applicazione delle stesse, rendono praticamente impossibile avere un rapporto regolare con il fisco italiano ed espongono le imprese a rischi di vessazioni da parte degli organi di accertamento.
Un semplice esempio: una piccola azienda manifatturiera con un milione di euro annuali di fatturato, che importa o acquista beni in Europa per rivenderli in Italia, e che ha un solo dipendente, è soggetta ai seguenti obblighi:
– obblighi periodici (mensili o trimestrali)
– liquidazioni IVA e versamento dell’IVA;
– elaborazione dei modelli Intrastat sugli acquisti intracomunitari;
– elaborazione ed invio delle dichiarazioni d’intento;
– elaborazioni mensili del cedolino paga;
– comunicazioni mensili all’INPS;
– versamento mensile delle ritenute fiscali e dei contributi INPS per i dipendenti;
Ci sono inoltre obblighi dichiarativi annuali (che si cumulano a quelli periodici di cui sopra):
– certificazioni delle ritenute pagate ai terzi percipienti;
– elenchi dei clienti e fornitori;
– bilancio d’esercizio;
– comunicazione annuale IVA;
– dichiarazione dei redditi con uniti gli studi di settore;
– dichiarazione dei sostituti d’imposta.
Nessuno di questi adempimenti può essere gestito in prima persona dall’imprenditore se non è un professionista del settore.
Nell’elenco sono inclusi solo gli adempimenti principali.
Andrebbero aggiunti anche gli obblighi dichiarativi ICI (se si ha un immobile) e la dichiarazione annuale MUD relativa ai rifiuti, nonché l’invio dei registri dei corrispettivi per chi vende al pubblico.
Oltre agli obblighi dichiarativi ci sono naturalmente anche i pagamenti.
Anche qui le date non sono sempre le medesime: per le imposte sul reddito si effettuano a giugno/luglio e novembre di ogni anno, unitamente ad alcune imposte locali (addizionali regionali e comunali).
Date diverse sono invece previste per i rimanenti tributi locali, quali la TARSU (i rifiuti urbani), l’imposta di Registro per i contratti di affitto, l’ICI, le imposte sulla pubblicità, ecc…
Si tenga presente anche che i contribuenti sono tenuti a pagare le imposte con un anno di anticipo: assieme alle imposte sul reddito dell’anno 2006 si paga un importo analogo aggiuntivo a titolo di acconto d’imposta per l’anno 2007 che è pari, fatto unico in Europa, al 100% delle imposte dovute per l’esercizio 2006 appena chiuso.
A tutto ciò vanno aggiunti gli adempimenti relativi alla Legge 626 (sicurezza sul lavoro); quelli per la privacy e quelli previsti dagli accordi Basilea 2 (se no vengono tolti i fidi bancari).
Adempimenti che sanno di beffa viste le continue violazioni in materia di privacy e gli incidenti sul lavoro recentemente segnalati dalla cronaca, ma che alle aziende costano.
Questo assurdo elenco di adempimenti fiscali e amministrativi si applica anche a micro imprese con fatturati risibili e molti di questi rappresentano delle vere e proprie duplicazioni di dati.
Ad esempio, per chiudere l’esercizio e presentare i propri dati al fisco e al Registro imprese, indipendentemente dai ricavi realizzati, una società di capitali deve:
– redigere un bilancio;
– presentare una dichiarazione riepilogativa annuale IVA;
– presentare una dichiarazione dei redditi (dove si mettono gli stessi dati già esposti in bilancio e nella dichiarazione riepilogativa IVA);
– predisporre gli studi di settore (che si fanno in modo diverso dalla dichiarazione dei redditi pur riportando anch’essi i dati già indicati nel bilancio e nella dichiarazione dei redditi).
Dovrebbero spiegarci perché si devono predisporre quattro documenti invece che presentarne uno solo quando i dati vanno sempre all’amministrazione finanziaria.
Quanto sopra scoraggia chiunque ad aprire una nuova iniziativa e anche per questo in Italia non investe più nessuno.
Nemmeno gli italiani.
Chi può scappa.
Anzi è già scappato.
Ecco altri 2 esempi significativi su questa situazione.
Detrazioni IVA
E’ diventata ormai da lungo tempo prassi, da parte dell’amministrazione finanziaria, quella di cambiare ogni anno le regole fiscali.
Ma all’inizio del 2007 hanno superato se stessi varando regole che hanno effetto retroattivo sul 2006, quando i bilanci delle aziende erano già stati in larga parte presentati e approvati dalle assemblee dei soci.
Così ecco che ad aprile del 2007 viene detto che la detrazione IVA sulle auto per l’anno 2006, già modificata nel corso dello stesso 2006, è ulteriormente cambiata e stabilita al 40%, e che gli effetti fiscali relativi al 2006 si potranno riconoscere solo nella prossima dichiarazione dei redditi relativa al 2007.
Insomma è stato varato un effetto fiscale retroattivo che si denuncerà 2 anni dopo.
Studi di settore
I criteri di determinazione della congruità ai fini degli studi di settore relativi all’anno 2006 sono stati oggetto di modifiche da parte della pubblica amministrazione sino al mese di giugno 2007.
A giugno 2007!
Quando era già scaduta la prima finestra utile per il pagamento delle imposte senza maggiorazione. Mentre il fisco stava ancora discutendo su come applicare gli studi di settore, molte aziende e contribuenti stavano già pagando le imposte in base alle proprie risultanze contabili, secondo i termini indicati dalla stessa amministrazione finanziaria.
Il problema è che con gli studi di settore l’amministrazione fiscale vorrebbe determinare le imposte in base a indici statistici di redditività, dimenticando però che non sono state abrogate le norme che obbligano i contribuenti a determinare le imposte in base alle risultanze contabili.
Andrebbe spiegato allora ai cittadini perché si debba tenere una contabilità, fare dei bilanci, predisporre dichiarazioni dei redditi e calcolare le imposte in base alla contabilità se poi questa stessa documentazione non viene esaminata dal fisco, che determina le imposte in base ai metri quadrati dell’ufficio o in base a quanto sono larghi i bagni dell’azienda.
Per chi e per cosa si sta lavorando?
Perché si è obbligati a prendere (e pagare) un commercialista se poi il suo lavoro non viene considerato?
Il peggioramento nei rapporti con l’amministrazione finanziaria è palpabile anche se, per inciso, il deterioramento della situazione risale a molto lontano.
Un esempio?
Eccolo.
Si Provi senza l’aiuto di un esperto a leggere la propria busta paga: non si capirà nulla.
Eppure dovrebbe essere la cosa più semplice del mondo.
E’ dall’unità d’Italia che ci sono i lavoratori dipendenti.
Come è possibile che il dipendente non possa leggersi la propria busta paga?
Perché ad una azienda serve un esperto per calcolare la retribuzione dei propri dipendenti?
Perché un negoziante non può fare le paghe dei propri garzoni?
Dove sono i sindacati?
Dove sono le associazioni degli imprenditori?
Una volta per seguire un’impresa sotto l’aspetto amministrativo e fiscale, e senza i computer, vi era un unico consulente (di solito un dottore commercialista o un ragioniere) e le buste paga venivano fatte a mano, ed erano relativamente semplici.
Oggi, che esistono i computer, per fare le stesse cose nelle aziende ci sono:
il consulente del lavoro;
il dottore commercialista;
il ragioniere commercialista;
il tributarista;
il revisore dei conti;
il consulente d’azienda.
E sicuramente se ne sta dimenticando qualcuno.
Non si parla di nuovi servizi o di nuove funzioni.
Si parla di fare quello che si faceva 50 anni fa.
Senza alcun valore aggiunto.
Tutto ciò grava sulla società, sui cittadini, e quindi alla fine sul prezzo dei beni e dei servizi che vengono acquistati.
Anche sul versante del numero delle imposte esistenti, tra gabelle nazionali e gabelle locali, ci si perde nel conto.
Sembra che gli amministratori pubblici prendano premi e incentivi per complicare ed ingarbugliare le situazioni
Nel 1992 era stato fatto un timido tentativo per semplificare il numero delle imposte.
Ma poi si è continuato a legiferare nuovi balzelli, che si aggiungono ai precedenti.
E’ frustrante persino farne l’elenco.
Si arriva allo sconcerto se poi si pensa che per creare questo groviglio costoro vengono anche pagati.
Tra l’altro la massa di questi adempimenti, oltre a creare confusione, costa di più ai cittadini senza un reale beneficio nei conti della pubblica amministrazione.
Non ci risulta infatti che, per effetto dei numerosi adempimenti trasferiti dalla pubblica amministrazione alle aziende negli ultimi 15 anni (intrastat, dichiarazioni d’intento, eliminazione della modulistica doganale dal 1993, ecc..) la pubblica amministrazione abbia diminuito il proprio personale.
Ma soprattutto l’insieme di questa situazione non consente più ad una persona di media cultura di gestire o iniziare una nuova impresa.
Troppe variabili non controllabili.
E con tutti questi adempimenti nessuno, dicasi nessuno, può essere sicuro di considerarsi in regola con il fisco di questo Paese.
Ancora una volta il danno maggiore lo subiscono le piccole e medie imprese, nonché tutte quelle micro iniziative economiche che non hanno speranza di decollare in questo sistema.
Sembra di assistere all’organizzazione delle gite scolastiche, dove orari e costi cambiano sino all’ultimo minuto in base al numero dei partecipanti.
Ma qui si parla della programmazione economica e fiscale di un Paese che una volta era la sesta potenza industriale del pianeta e che oggi, a sentire i giornali, è ridotta ad avere come priorità principale quella di tenere sotto controllo il deficit pubblico.
Se la politica fiscale è questa, o siamo rappresentati dalla peggiore classe politica di sempre oppure sorgono dubbi sul ruolo effettivo delle tasse.
Vedremo il perché nella prossima parte.
Secondo quanto trasmesso dai TG del 21 e 22 luglio scorsi la principale ragione del deficit pubblico italiano è l’evasione fiscale.
Nell’esporre i risultati della lotta all’evasione fiscale realizzati dalla Guardia di Finanza nel 2006, emerge che l’Italia è un Paese di evasori fiscali che sottraggono all’erario circa 20-30 miliardi di euro annui con i quali non ci sarebbe più bisogno di fare manovre finanziarie e soprattutto si potrebbe pianificare il rientro del debito pubblico.
Il problema, secondo il comunicato dei TG, è che di questa evasione solo una percentuale irrisoria, tra l’ 1% e 2%, finisce nelle casse dello Stato.
Per tale motivo si pensa di inasprire ed allargare l’istituto dell’ipoteca immobiliare da applicare agli evasori.
Al fermo dell’autoveicolo verrà quindi affiancata l’ipoteca immobiliare (per chi l’immobile ce l’ha).
Il comunicato non è stato contestato da alcun partito.
Se ne deduce che per l’intera classe politica la colpa di tutto è degli italiani, che sono evasori. Ganasce e ipoteche e tutto andrà a posto.
Niente più finanziarie lacrime e sangue e conti pubblici sotto controllo.
Possibile che la colpa del dissesto finanziario italiano sia sempre del cittadino?
Oggi perché è evasore; ieri perché non era abbastanza flessibile sul mercato del lavoro; l’altro ieri perché andava troppo in vacanza all’estero o consumava troppi farmaci.
E’ proprio così o questa è l’ennesima «panzana» istituzionale dei signori del potere che del resto da sempre considerano i sudditi degli ignoranti (sarà l’istruzione pubblica)?
Basta vedere gli attuali spot televisivi erogati su come risparmiare corrente elettrica per far credere di avere risolto il problema energetico.
Andiamo con ordine.
Tasse e deficit pubblico
A scuola è stato insegnato che le tasse sono uno strumento necessario per fare funzionare la democrazia.
Con esse lo Stato, in base al principio di rappresentanza che caratterizza i sistemi democratici, redistribuisce le ricchezze e garantisce i servizi alla collettività secondo gli indirizzi scelti democraticamente dai cittadini attraverso il sistema dei partiti, che li rappresentano.
La differenza tra le tasse raccolte presso i cittadini e l’insieme della spesa dello Stato crea, se negativa, il cosiddetto «deficit pubblico».
Il deficit pubblico può essere ripianato o ridotto solo attraverso una maggiore tassazione sui cittadini (che deprime l’economia, perché la gente spende meno) o attraverso la vendita dei beni pubblici (fenomeno oggi noto come «privatizzazione»).
Ma in Italia è proprio così?
Se ci si vuole informare sul debito pubblico italiano, non si troverà alcun ente pubblico preposto a questa funzione.
Non c’è un ministero per le informazioni al cittadino.
Non vi sono norme che, in regime di trasparenza, informino i cittadini su come lo Stato spende
i soldi delle tasse.
Idem per gli enti locali.
Nessuna norma impone di informare i cittadini su quanti soldi, ad esempio, siano stati raccolti con le contravvenzioni e su come questi siano stati spesi.
Se si va in un Comune e si chiedono informazioni sulle spese di una certa opera pubblica, non si avranno risposte.
Se si vuole, a pagamento, si può richiedere una copia del bilancio dello Stato italiano presso i Poligrafici dello Stato, ma è così sintetico che non serve a nulla, oppure avventurarsi alla Direzione Generale del Tesoro e cominciare a cercare.
Si può trovare qualche cosa sul sito www.dt.tesoro.it (1)
A parte i ritornelli periodici sul deficit pubblico pubblicati dai quotidiani in occasione delle annuali finanziarie, i cui numeri peraltro divergono da giornale a giornale, si ha la netta impressione che, oltre a non esistere un obbligo informativo da parte dello Stato verso i propri cittadini, nessuno sappia esattamente come stanno le cose in questo Paese, soprattutto i politici.
Solo nell’ultimo trentennio, ad esempio, hanno massacrato i contribuenti ogni anno con Leggi Finanziarie che quando andava bene (per i contribuenti) incameravano maggiori entrate per 10 o 15 miliardi di euro.
Quando andava male, i miliardi diventavano 20 o 30 e le finanziare 2 anziché 1.
E così la pressione fiscale in questi ultimi anni è passata, come aliquota minima sulle persone fisiche, dal 15% al 23% (la massima è sopra il 40%); l’aliquota IVA ordinaria è passata dal 12% al 20%; sono state introdotte nuove imposte locali (ICI, addizionali regionali, comunali, ecc.), sono aumentate le aliquote contributive; è stato allargato il numero dei soggetti che versano i contributi obbligatori all’INPS ed è stata alzata la soglia dell’età pensionabile.
Senza contare le maggiori entrate una tantum per effetto dei condoni fiscali, edilizi, contributivi, ecc.
Nel medesimo periodo è stato venduto (o svenduto) oltre metà del patrimonio industriale pubblico italiano (a suo tempo acquisito con i soldi dei nonni e genitori dei contribuenti); sono state date ai privati in concessioni ventennali, o oltre, le spiagge d’Italia e le fonti di acqua.
Praticamente hanno tassato tutto salvo l’aria che si respira (tanto è inquinata) e venduta mezza Italia.
Eppure, il deficit pubblico italiano non è diminuito, lo Stato arranca senza fondi e l’INPS minaccia di non poter pagare le pensioni fra 20 anni.
Sempre colpa dei cittadini evasori?
E dove vanno a finire tutti questi soldi?
E’ opportuno provare a fare i conti di quanto costa al cittadino questo Stato, che non funziona e che non da informazioni, nemmeno a se stesso.
Cominciamo dai lavoratori dipendenti.
Per erogare uno stipendio (da fame) di euro 1.000 al mese (che non tutti prendono) un’azienda italiana in regola ne tira fuori ogni mese 3.000.
La suddivisione può essere sintetizzata come segue:
carico contributivo 42%
imposte sul reddito 23%
ammontare netto al dipendente 35%
Se si va su un reddito annuo più accettabile di 30.000 euro l’anno, la ripartizione è la seguente:
carico contributivo 42%
imposte sul reddito 26%
ammontare netto al dipendente 32%
Tenuto conto degli ulteriori balzelli locali (addizionali varie), lo Stato si porta via subito, all’atto dell’erogazione delle retribuzioni, il 70% di tutto.
Dopodiché se si prende l’autostrada la si paga; sui beni e sui servizi si paga l’IVA e su altri (liquori, vino, birra, ecc.) le imposte di fabbricazione, che arrivano all’80% del prezzo di acquisto nel caso del carburante per l’auto.
Aggiungiamo, per completare il quadro, che non tutti i versamenti fatti all’INPS entrano nel conteggio della pensione.
Sempre che ci si arrivi.
Per chi non ci arriva, incassa tutto l’INPS, senza alcun riscatto per gli eredi.
Non si è mai capito, tra l’altro, come lo Stato possa saccheggiare liberamente i fondi dell’INPS per motivi di politica economica (e non previdenziale) senza chiedere il consenso dei lavoratori, che alimentano le entrate di questa cassa e che ne dovrebbero essere i proprietari.
Vediamo adesso la situazione per le aziende.
La pressione fiscale nominale dovrebbe essere del 37,25% (33% IRES e 4,25% IRAP).
Tuttavia quella vera è ben più alta, per effetto dei numerosi costi totalmente o parzialmente fiscalmente non deducibili e per il fatto che l’IRAP si paga anche sul costo del lavoro.
Un valore più realistico di pressione fiscale potrebbe essere tra il 60% ed il 70% anziché il nominale 37,25%.
Ma vi sono numerosi casi dove questa percentuale viene superata.
Ecco un esempio.
Una società di capitali, con un utile ante imposte di 20.000 euro, che ha un costo del lavoro di 100.000 euro, un canone annuo di leasing immobiliare di 30.000 euro e spese annue per autovettura aziendale di 10.000 euro, in base alle aliquote nominali dovrebbe pagare imposte sul reddito in base al 37,25% sull’utile di 20.000 euro, quindi un ammontare complessivo di euro 7.450.
Nella realtà, per effetto della non deducibilità del costo dell’autovettura, per il fatto che il leasing immobiliare è deducibile solo all’80% % e non al 100%, l’azienda paga un’IRES di euro 11.880 (33% su un reddito imponibile di euro 36.000 e non di 20.000), ed un’IRAP di euro 5.780 (4,25% su un reddito imponibile di euro 136.000, vale a dire sul reddito imponibile ai fini dell’IRES più il costo del lavoro di 100.000 euro).
Quindi l’imposta complessiva è pari ad euro 17.660 (euro 11.880 di IRES ed euro 5.780 di IRAP), pari cioè al 88% dell’utile ante imposte.
Occultamente stanno applicando alle aziende lo stesso livello di tassazione esorbitante riservato ai dipendenti: un prelievo fiscale attorno al 70% sull’utile conseguito.
Ma nessuna azienda regge il mercato se gli togliete il 70% dell’utile conseguito.
Si provi ad immaginare come possa difendersi un’azienda!
Queste considerazioni tuttavia non trovano spazio sui giornali, nemmeno in quelli economici.
E quindi i cittadini non ne sono consapevoli.
Si provi a lasciare nelle tasche di un lavoratore dipendente l’intero costo ditta della sua retribuzione, e si vedrà come sarà disposto a consegnarne il 70% allo Stato in occasione del pagamento delle imposte!
All’aumento consistente del prelievo fiscale negli ultimi anni e alle vendite dei beni pubblici non è corrisposta una equivalente riduzione del deficit pubblico ma, al contrario, si è registrato un aumento delle spesa dello Stato.
In pratica questo Stato alimenta se stesso: non maggiori entrate fiscali per diminuire il deficit pubblico, ma principalmente maggiori entrate per aumentare le proprie spese.
Vengono in mente alcune recenti polemiche in merito al costo della politica: le suntuose ville o panfili dai quali alcuni politici e ministri rilasciano interviste; i 35 mesi o poco più necessari ad un parlamentare per avere la pensione, quando ai cittadini si chiedono invece 35 anni di versamenti, o le 300 mila e oltre auto blu circolanti in Italia.
Oltre che per ragioni morali e di giustizia, tutti i cittadini sono tenuti costituzionalmente a concorrere in ugual misura alle spese dello Stato.
Sotto l'aspetto legislativo questo criterio è stato espresso nel nostro Paese in 2 modi: attuando una tassazione al consumo (IVA e imposte di fabbricazione), in modo che chi più consuma più concorre alle spese dello Stato e, contemporaneamente, prevedendo scaglioni di tassazione sul reddito proporzionali (esempio: sui primi 15.000 euro di reddito si paga il 23%; da 15.001 a 28.000 euro il 27%; ecc.).
Il principio di per se non fa una piega, ma viene in parte snaturato da 2 eccezioni: la prima è costituita dalle società di capitali con soci esteri; la seconda è costituita da una serie di soggetti che, in virtù di una normativa ad hoc, non pagano imposte o le pagano in misura irrisoria.
Per quanto riguarda la prima eccezione, vale a dire le società di capitali, queste pagano le imposte in percentuale fissa sul reddito e non in percentuale progressiva.
Quando poi il socio ritira gli utili già tassati in questo modo (che si chiamano dividendi), sconta una ulteriore tassazione nella propria dichiarazione dei redditi, e quindi alla fine anche il reddito prodotto dalla società soggiace al principio dell'imposta progressiva.
Non è detto però che ciò succeda quando i soci della società sono esteri, ed in particolare quando si tratta di una multinazionale.
Per un motivo o per un altro, attraverso le pieghe della normativa fiscale, sia nazionale che internazionale, le multinazionali riescono il più delle volte ad eludere l'ulteriore tassazione del dividendo in capo ai soci esteri.
Con particolare vantaggio per quelle multinazionali che operano in Paesi dove la fiscalità per le aziende è bassa (non l'Italia).
Non si tratta di una problematica italiana, ma di una caratteristica di tutto il sistema occidentale.
Per risolverla occorrerebbe ricorrere ad una legislazione sovranazionale, che non c'é.
Rimane il fatto che sulla capacità di elusione fiscale da parte delle multinazionali sulla stampa nazionale economica se ne parla molto poco.
E' curioso, invece, constatare come il sistema globalizzato anziché preoccuparsi di predisporre una normativa internazionale che fronteggi sotto l'aspetto fiscale lo strapotere delle multinazionali abbia, con solerzia, favorito la creazione, più o meno presso ogni Stato che accetta queste regole, di zone franche ove si possano fare operazioni a tassazione agevolata (Antille olandesi, Isole Cayman, ecc.).
Ancora una volta, provate ad indovinare quali aziende e quali soggetti più facilmente ne possono approfittare!
Per quanto riguarda la seconda eccezione, relativa ai soggetti che in virtù di apposite norme legislative concorrono irrisoriamente alle spese dello Stato, va detto che i gestori del potere da tempo hanno imparato ad emanare leggi ad hoc per escludere o ridurre le imposte sui loro redditi.
Non stiamo parlando di norme agevolative per sostenere settori strategici, innovativi, o specifiche aree geografiche del nostro Paese, ma di norme che premiano settori solo perché questi sono espressione di particolari interessi privati.
Possiamo classificare i soggetti che non pagano o pagano meno tasse degli altri in virtù di apposite Leggi come segue (il termine sarebbe evasione fiscale, ma siccome in questo caso le imposte non si pagano per Legge, non si può dire):
– il sistema politico;
– il sistema bancario;
– i grossi gruppi industriali.
Il sistema politico da tempo legifera per agevolare fiscalmente se stesso.
Non siamo gli autori del libro «La casta» (vale davvero la pena di leggerlo) per cui non insisteremo su ulteriori dettagli.
Si sottolinea solo che nel complesso questi signori assoggettano a tassazione i loro redditi in misura non significativa (sembra non oltre il 25% complessivamente), oltre a godere di altri numerosi vantaggi e privilegi; e nessun giudice, costituzionale o della Corte dei Conti, ha mai espresso un'eccezione di incostituzionalità su queste norme, né risulta abbia iniziato o fatto iniziare un'indagine.
Altro che indipendenza della magistratura.
Ricordiamoci anche del fatto che sono poi questi nostri rappresentanti politici a nominare i responsabili dell'Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza, che controllano i nostri conti.
Insomma, se il pesce puzza dalla testa, come dare torto a chi pensa che i soldi versati allo Stato siano soldi in gran parte buttati via e che alla collettività non rientra nulla salvo il minimo indispensabile per mantenere il consenso del voto? (Leggesi clientelismo).
Quanto al sistema bancario va detto che anche in questo caso si è di fronte ad un massiccio non pagamento di imposte stabilito dalla legge.
Le banche prestano denaro virtuale senza alcun obbligo di coprirsi con riserve se non un risicato 2%.
E su questa emissione di denaro virtuale richiedono un interesse passivo ai clienti, oltre le spese.
Si consideri il seguente semplice esempio: si supponga di versare in banca 100 euro e che il tasso medio sugli interessi passivi sia il 6% annuo.
Con questi 100 euro la banca può immediatamente prestarne 50 volte di tale importo, in quanto ha l'obbligo di tenere a riserva solo il 2% dei prestiti erogati.
Pertanto a fronte dei vostri 100 euro (su cui non vi riconoscono interessi e vi addebitano le spese di gestione conto), la banca ne può erogare 5.000.
E' denaro virtuale, che non esiste!
Alla banca non è costato nulla.
Ma su questi 5.000 euro virtuali, in virtù delle attuali leggi bancarie, la banca riceverà interessi per il 6% all'anno, pari a euro 300.
In un anno, quindi, la banca ha già guadagnato il 300% del vostro versamento.
E anche ammettendo il rischio di insolvenza da parte di alcuni, il guadagno è talmente iperbolico da garantire il rischio di qualsiasi insolvenza a qualunque istituto di credito.
Perché allora nei bilanci delle banche di questo reddito non vi è traccia?
Il motivo è molto semplice: una normativa che consente di non dichiarare tutto questo reddito unita alla possibilità di effettuare trasferimenti all'estero attraverso operazioni di «clearing» senza obbligo di rendicontazione nominativa degli intestatari dei conti.
Il tutto accompagnato da un regime di sostanziale assenza di controlli.
Chi dovrebbe controllare (Bankitalia), infatti, è posseduto da queste stesse banche.
Un ciabattino deve predisporre gli elenchi clienti e fornitori per tutte le sue operazioni, le banche non sempre.
Ma di questo su «Il Sole 24 ore» non ne troverete mai traccia.
Il tabù del sistema bancario si chiama signoraggio.
Per cui non se ne deve parlare.
Guai a sollevare questa parola nei confronti dell'opinione pubblica.
La diatriba sul diritto delle banche di creare denaro dal nulla (cosiddetto signoraggio secondario (2) deve rimanere confinata in internet.
Guai a dire che Bankitalia ha dei conti correnti alle isole Cayman.
Guai a parlare di sovranità monetaria sottratta occultamente alle nazioni.
Guai se il cittadino scoprisse di cosa si tratta.
Anche in questo caso si arriva alla conclusione che il problema non si risolve all'interno di una sola nazione.
E' globale, in quanto chi ha manovrato per l'adozione di questo sistema è portatore di interessi che non si identificano con gli Stati nazionali.
Ciò in analogia con quanto già detto in precedenza sulle multinazionali.
Lo stesso regime di favore, anche se non così eclatante, lo godono alcuni gruppi industriali «amici» dei governanti di turno.
Ecco un esempio illuminante.
Vi ricordate il signor Poggiolini?
Lo scandalo negli anni '80 dei prezzi dei farmaci 4 o 5 volte più cari (se non di più) rispetto al resto d'Europa?
Le tangenti pagate ai medici attraverso corsi fantasma tenuti in luoghi esotici da aziende farmaceutiche per convincerli ad utilizzare i loro prodotti?
Bene.
Chi iniziava a studiare il diritto tributario alla fine degli anni '70 scopriva che le spese per i corsi e convegni erano deducibili fiscalmente per tutte le aziende al 50%, salvo che per le imprese farmaceutiche dove erano deducibili al 100%.
Poi si è capito il perché.
La stessa Legge dello Stato incoraggiava questa pratica riconoscendo la piena deduzione fiscale alle tangenti sotto forma di viaggio, il cui costo era sostenuto dalle aziende farmaceutiche.
E siccome erano spese ingenti, lo Stato le «aiutava» riconoscendo la piena deduzione di queste spese.
Invece di cercare di ridurre i prezzi dei farmaci, e quindi ridurre le proprie spese sanitarie, lo Stato approvava un sistema fiscale che favoriva le tangenti.
Probabilmente alcuni fautori di queste Leggi sono parlamentari anche ora.
Non ci risulta infatti che ne sia stato allontanato qualcuno per questi motivi.
Possiamo anche fermarci qui, tanto il discorso è lo stesso: si tratta sempre di autorizzare l'evasione fiscale per Legge.
Sappiate che anche oggi esistono norme di favore di carattere clientelare.
Ad esempio, per le grosse concentrazioni di patrimoni immobiliari.
Infine, dopo gli evasori per legge (pardon: i gruppi di soggetti autorizzati a pagare meno tasse in virtù di apposite norme fiscali), vi sono gli altri.
Cioè i normali cittadini.
Vale a dire noi.
Sotto l'aspetto dell'evasione fiscale coloro che non hanno padrini possono essere suddivisi in 3 gruppi:
– quelli che vorrebbero ma non possono evadere il fisco (tipicamente i lavoratori dipendenti);
– gli evasori totali;
– quelli che in qualche modo cercano di difendersi attraverso una interpretazione aggressiva della norma fiscale (a loro favore).
Sul primo gruppo c'è poco da dire.
Sul secondo, quello degli evasori totali, va detto che le motivazioni principali che soggiacciono a questa scelta non vanno ricercate prevalentemente in campo fiscale.
Alcuni operano in questo modo per ignoranza, ma altri sono dei veri e propri gangster.
Operano in questo modo per avvantaggiarsi con lo sfruttamento del lavoro nero, oppure per esercitare attività illecite.
Altri ancora sono nel sommerso per motivi di ordine giudiziario.
In ogni caso riteniamo si tratti di un fenomeno rilevante in primo luogo ai fini penali.
L'aspetto fiscale dovrebbe esserne una conseguenza, magari significativa ma sempre una conseguenza.
Si tratta di un fenomeno da condannare e da eliminare.
Ed infatti, in una situazione di fiducia tra Stato e cittadini, questo fenomeno avrebbe dovuto scomparire da tempo.
L' aspetto curioso è che invece, rarissimamente, viene denunciato dai rappresentanti dei lavoratori che dovrebbero, appunto, tutelare il lavoro.
Infine arriviamo al terzo gruppo, quello dei soggetti (in prevalenza aziende) che per furbizia, necessità o convenienza, cercano di diminuire il carico fiscale nei loro confronti.
Dentro c'è un po' di tutto: furbetti che detraggono l'IVA che non sarebbe detraibile; chi interpreta norme aggressivamente a suo favore; chi ricorre a fatturazioni di comodo.
Chi opera nell'ambito della consulenza aziendale sa che sono prevalentemente 3 i motivi che incentivano questo tipo di evasione:
– la considerazione che lo Stato, per quello che fa, si prende già troppo;
– il fatto che anche pagando parcelle folli a consulenti non si è mai sicuri di essere in regola con le norme fiscali, perché troppe e complicate;
– il fatto che i controlli sono limitati e che, anche quando arrivano, un «aggiustamento» con gli organi di controllo è sempre possibile.
Una grossa mano a questo tipo di comportamento la dà in effetti una normativa fiscale incredibilmente complessa, sottoposta a continui cambiamenti ed interpretazioni spesso in contrasto tra loro ed alcune volte di difficile interpretazione, che colpiscono anche le attività più piccole.
Come da tempo suggerito da più parti, per ridurre sensibilmente questo tipo di evasione basterebbe una «flag tax» per le aziende (per esempio una imposta unica e fissa del 25% o 30%): ci sarebbe maggiore equità fiscale; una semplificazione di tutta la normativa e minori spazi per le interpretazioni.
Il gettito fiscale non potrebbe che risentirne positivamente.
Però non viene fatto!
Sappiate che le statistiche sull'evasione fiscale citate in Italia appartengono alle indagini su questo unico gruppo, e molto marginalmente al gruppo degli evasori totali (che proprio perché non esistono non sono misurabili).
Quando si parla di evasione, pertanto, si parla prevalentemente degli esiti dei controlli fiscali effettuati in aziende esistenti.
Normalmente in un accertamento non fila mai tutto liscio.
Ma questo non vuol dire che quanto preteso dal fisco in sede di accertamento sia tutto dovuto.
Dei 30 milioni di euro di evasione italiana annua sbandierati dalla Guardia di Finanza per il 2006 solo una parte è vera evasione, mentre un'altra parte, anch'essa significativa, riguarda l'interpretazione delle norme fiscali.
Questa interpretazione si chiarisce normalmente avanti le Commissioni tributarie, sino a 3 ordini di giudizio.
L'intero iter richiede alcuni anni ed è per questo che, in modo non del tutto trasparente, si grida sui giornali che solo l' 1% o 2% delle maggiori imposte si traduce in maggiori entrate.
Ma non si tratta di maggiori imposte.
E non si pensi che siano solo le aziende a fare resistenza.
Infatti chi ha esperienza nel contenzioso fiscale sa benissimo che una buona parte delle maggiori imposte pretese dal fisco non viene accolto dalle commissioni tributarie.
In conclusione, in un contesto come quello italiano sopra evidenziato, il minimo che un cittadino possa chiedere è quello di risolvere, o quanto meno attenuare il fenomeno dell'evasione fiscale, attraverso una normativa più equa, semplificando le eccessive norme esistenti ed il numero dei tributi.
E non certamente con le ganasce e le ipoteche immobiliari.
Il ripristino della legalità, nel senso della comune accettazione espressa dalle nostre coscienze, risolverebbe di per sè il problema.
La malavita esisterà anche in futuro, ma la stragrande maggioranza della gente sarebbe disposta ad affrontare un ulteriore sacrificio se ciò dovesse davvero portare al risanamento della Nazione.
Ma questa non è l'attuale percezione, non con queste norme e non con questa classe politica.
La disamina fiscale finisce qui ma sorgono immediate e rumorose le seguenti domande:
Come siamo arrivati a questo debito pubblico con tutte le tasse che paghiamo?
Se le tasse non vanno a ridurre il deficit pubblico, chi può ridurlo?
E soprattutto: cosa è il signoraggio?
Affronteremo queste domande in una prossima serie di articoli, precisando già sin d'ora che forse l'interesse di chi oggi gestisce il potere non è affatto quello di ridurre il debito pubblico e che, contrariamente a quello che si pensa, il debito pubblico si origina allorché viene immessa nuova cartamoneta in circolazione e non (o non solo) per effetto delle maggiori spese dello Stato non coperte da entrate tributarie.
Note: