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COLPO DI STATO: UN’IDEA DA AGGIORNARE di Maurizio Blondet

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Persino il New York Times lo riconosce (1), additando i più recenti e gravi abusi di potere di cui si è macchiata l'amministrazione Bush.
L'elenco è istruttivo:

«Intercettazioni senza mandato».
Dall'11 settembre (ossia ormai da oltre quattro anni) Bush ha autorizzato la NSA a spiare le telefonate e le @ mail dei cittadini americani senza chiedere il prescritto permesso preventivo dalla magistratura, e senza che il Congresso possa esercitare un controllo su tali operazioni. Tralasciamo il fatto (ne parleremo dopo) che in Italia è peggio, che i magistrati da noi si autorizzano da sé a fare fiumi di intercettazioni; in USA, è una violazione inaudita delle «civil liberties».
La scusa è lo stato d'emergenza-terrorismo: bisogna violare un po' la legalità e le garanzie costituzionali per prevenire atti terroristici.
Naturalmente, nulla garantisce che la presidenza non intercetti e spii, invece dei terroristi, avversari politici interni, giornalisti, parlamentari.
Convocato su questo tema ad un'audizione senatoriale, l'attorney general Alberto Gonzales (uomo di Bush, ovvio) ha detto: fidatevi del Presidente, spetta a lui conciliare la «sicurezza nazionale» e le «libertà civili».
Insomma ha detto che Bush ha assunto «tutti» i poteri, senza controllo alcuno.

«Campi di prigionia segreti».
Come è emerso, la CIA detiene campi segreti di prigionia nella «nuova» Europa, in Marocco, in altri Paesi non identificati.
Che i detenuti senza nome siano sottoposti a torture e maltrattamenti va da sé, come hanno rivelato alcune foto fortuitamente scattate dai torturatori militari ad Abu Ghraib: è una conseguenza dell'assenza di controlli indipendenti.
Atrocità varie hanno luogo a Guantanamo: è apparsa la notizia che una parte dei detenuti, avendo intrapreso uno sciopero della fame per la loro detenzione extra-giudiziaria, sono stati sottoposti ad alimentazione forzata: legati a una sedia, e nutriti con sonde infilate nel naso che arrivavano allo stomaco.
La presidenza USA assicura che gli incarcerati sono tutti «terroristi» islamici, gente di Al Qaeda; ma sicuramente molti sono innocenti, sequestrati a caso nella prima fase dell'invasione in Afghanistan e Iraq: gli stessi militari USA (perché i lager segreti sono gestiti dalle forze armate) hanno incriminato formalmente per terrorismo, delle imprecisate centinaia di prigionieri a Guantanamo, solo dieci di loro.
Gli altri, sono detenuti lì, ormai da anni: mai interrogati, senza processo, senza che sia stata formulata un'accusa da cui possano difendersi, senza poter vedere avvocati né avere contatti con le famiglie: sono incarcerati in eterno, sotto la dizione insensata di «enemy combatants».
E soprattutto, nulla esclude che in quei luoghi siano detenuti anche cittadini americani.
Magari avversari del governo Bush…

«Epurazioni nell'armata e nell'intelligence».
Come preparazione preliminare alla guerra in Iraq, Donald Rumsfeld ha dimissionato il capo di Stato Maggiore generale, Eric Shinseki, e riempito le poltrone più alte del Pentagono di suoi yes-men.
In generale, i competenti tecnici sono stati dovunque sostituiti con «politici» di fiducia della Casa Bianca o di Rumsfeld.
Gli organi di indagine, dalla CIA all'FBI, sono stati tutti concentrati sotto l'autorità di una nuova istituzione, la Homeland Security, capeggiato da Chertoff, l'israelo-americano che era procuratore a New York l'11 settembre.
Le colpe dell'intelligence?
Non davano le informazioni «giuste» sulle armi di distruzione di massa di Saddam.
Paul Pillar, che è stato capo dell'intelligence in Iraq fino all'anno scorso, ha scritto sul Foreign Affairs che Bush e Cheney avevano detto chiaro «quali risultati volevano» (il pretesto per l'invasione), e hanno promosso solo gli analisti che producevano quei «risultati».
La reazione della Casa Bianca: ha soffiato il nome di Pillar al Washington Times, dove il complice neocon Michael Novak ha scritto che Pillar non è affidabile, perché non si attiene alla linea del partito.
Come in Unione Sovietica negli anni '30.
Altri critici del governo sono stati licenziati.

«Nessun controllo parlamentare».
La Casa Bianca ha bloccato un'inchiesta parlamentare sulla credibilità delle informazioni che hanno portato alla guerra; e ovviamente ha sostanzialmente impedito ogni seria indagine sull'11 settembre e sui suoi veri autori e mandanti.
I parlamentari dell'opposizione sono palesemente intimiditi, forse terrorizzati da minacce o ricatti.

«Decreti speciali d'emergenza».
Il primo ed essenziale si chiama Patriot Act: è un decreto presidenziale passato d'urgenza subito dopo l'11 settembre, con sedute notturne, in un Congresso svuotato dall'allarme-antrace (chiara intimidazione: il «terrorista» rimasto ignoto mandò antrace fabbricato in un laboratorio USA a senatori dell'opposizione democratica e a giornalisti) in gran fretta e senza esame approfondito. Non trattandosi di una legge, ma di un decreto, il Patriot Act ha una scadenza: ma essa viene continuamente prorogata.
Le libertà civili restano tutt'ora sotto il controllo di questo decreto d'emergenza.
Fra l'altro nel decreto c'è una disposizione-museruola («gag order», sezione 215) che ingiunge quanto segue: qualunque organo pubblico o privato che viene richiesto dal governo di produrre informazioni di ogni tipo (finanziarie, mediche, sessuali) su un cittadino americano conservate nei suoi archivi – per esempio ospedali, fondi d'investimento, banche – ha l'obbligo
di non comunicare nulla alla persona soggetta all'indagine occulta.
Quel cittadino americano non saprà di essere sotto inchiesta, non potrà dunque difendersi in alcun modo da quell'intrusione del potere nella sua privatezza.
Persino il Washington Post trova che quest'ordine consente al governo di «spiare americani che non hanno alcun coinvolgimento nel terrorismo o legami con potenze straniere».
Si credeva che il Congresso, dopo quattro anni, avrebbe cancellato questo decreto.
Invece da pochi giorni quattro senatori repubblicani, a cui si sono uniti due democratici, ha detto di «aver raggiunto un accordo con la Casa Bianca» per tenere in vigore l'ordine-museruola ancora per un anno intero.
Sei parlamentari su cento: così funziona la «democrazia» in America.
Altro che Putin.

«Stato di guerra perpetua».
Donald Rumsfeld ha ribattezzato la guerra al terrorismo come «la lunga guerra», destinata ad una durata indefinita.
Ciò che era cominciato come «guerra lampo», shock and awe, diventa senza fine.
La vastità del pericolo giustifica un simile stato bellico, una simile mobilitazione permanente e riduzione delle libertà?
William Pfaff ha citato uno studio di John Mueller, della Ohio State University e pubblicato dall'American Journal on Terrorism and Political Violence: il numero di vittime americane di attacchi terroristici dagli anni '60 (quando il Dipartimento di Stato ha cominciato a tenerne il conto) ad oggi, e compresi gli oltre tremila americani morti l'11 settembre, «non è superiore
al numero di americani morti accidentalmente affogati nella vasca da bagno».
O agli americani colpiti dal fulmine, o uccisi da una reazione allergica inattesa al…burro di arachidi.
La minaccia terrroristica è enormemente sopravvalutata dalla propaganda USA, conclude Pfaff; il terrorismo è in realtà un fenomeno marginale, affrontabile con la polizia.
Allora perché la «guerra perpetua»?
Il solo scopo di tale guerra senza fine è perpetuare se stessa – e i decreti d'emergenza e i pieni poteri del presidente.
«Ciò configura per la democrazia una minaccia più sinistra di qualunque progetto sognato da Bin Laden. La minaccia radicale contro gli Stati Uniti è in patria» (2).

Pfaff è vicino a dire la verità, ma la tace.
Perché tutte le situazioni che abbiamo elencato sopra – intercettazioni illegali, campi di prigionia, leggi speciali, vaste epurazioni – sono gli ingredienti di un fatto ben noto alla dottrina politica: il colpo di Stato.
Gli Stati Uniti sono caduti vittima di un golpe.
Perché non proclamarlo?
Perché gli americani non lo crederebbero.
E non solo per malafede: non riconoscono come putsch quello che è loro successo.
Come tutti noi, anch'essi hanno un'idea datata di quel che è un colpo di Stato.
Per riconoscerlo come tale, devono vedere i carri armati per le strade, militari che fanno retate di cittadini, generali che intimano per radio di stare in casa, perché c'è il coprifuoco.
Ma questo è il golpe di tipo militare, ed è solo uno dei golpe possibili: il più vecchio, il meno sofisticato.
Ormai impossibile persino in America Latina, data la perdita d'influenza generale delle forze armate, ridotte ormai al livello di guardie giurate aziendali del sistema.
Il golpe in USA è stato di un tipo più sofisticato.
La nozione di colpo di Stato va aggiornata urgentemente.

Chi fa il colpo di Stato?
«Chi ha già il potere legale».
Un colpo di Stato è il contrario concettuale della (mitica) rivoluzione «dal basso».
Il golpe viene attuato dall'alto, dalle istituzioni.
Hitler era stato legalmente eletto; l'incendio del Parlamento (Reichstag) gli diede il pretesto di proclamare lo stato di emergenza grazie a cui assumersi anche i poteri che l'elettorato non gli aveva dato.
Il sofisticato assalto aereo alle Twin Towers è stato palesemente il Reichstag di Bush, più o meno regolarmente eletto da poche settimane.
Il colpo di Stato si fa dall'alto, usando i mezzi del potere statale.
Perché farlo?
Per avere più potere di quello che spetta all'istituzione golpista.
In nome dell'emergenza, instaurare la dittatura.
«Il colpo di stato lo fanno gli statali».
Non sono più necessariamente i militari, ma qualunque corpo istituzionale che abbia sufficiente potere «legale».

In Italia, a fare il golpe è stata la magistratura, ai tempi di Mani Pulite (la «causa» di emergenza).
I partiti di governo vennero azzerati da azioni legali perfettamente legittime, per corruzione.
Ma come si ricorderà, ci fu un momento in cui Borrelli offrì al presidente Scalfaro la «disponibilità» del pool di Milano di prendere il governo, per il bene della patria in pericolo: se il presidente ci chiama…
Come tutte le cose che avvengono in Italia, il golpe è riuscito solo a metà.
Ma da allora la magistratura mantiene gran parte del potere che si è accaparrata oltre le sue prerogative istituzionali.
Rifiuta la separazione tra le carriere di accusatore e giudicante: un'anomalia non presente in alcun altro Paese del mondo.
In USA, quella dell'accusatore pubblico è una carriera elettiva, che porta a future cariche politiche, fino a quella di governatore di Stati; in Francia, i procuratori sono funzionari del ministero della Giustzia e dell'Interno.
In nessun caso chi ha sostenuto l'accusa può diventare giudice giudicante.
In Italia, la magistratura è diventata promotrice delle inchieste, manovra in piena insindacabile autonomia le polizie, che sono tutte diventate «polizia giudiziaria».

E anche questo non ha eguali nel mondo.
Altrove, la polizia compie indagini dapprima informali, su denuncia o in base all'evidenza di un delitto (un cadavere trovato in una casa, poniamo), mobilita i suoi informatori, interroga portinaie.
Quando ritiene di aver raccolto indizi sufficienti, gli agenti portano la questione davanti al procuratore d'accusa, indicano un possibile colpevole, chiedono mandati legali di perquisizione o di intercettazione.
Fatto notevole, il procuratore in questi casi, e in quei Paesi, «critica» gli indizi raccolti dalla polizia: nell'interesse dell'imputato, e nel proprio interesse, perché è poi lui che deve sostenere l'accusa nel dibattimento, contro un collegio giudicante che non lo considera un collega, e se l'accusa è basata su indizi contestabili, è la sua reputazione ad andarci di mezzo.
In Italia, avviene il contrario.
La polizia ha perso ogni autonomia.
Riceve ordini dal procuratore, è il procuratore che addita i filoni d'inchiesta, che dice cosa cercare, dove scavare, chi intercettare. E incarcera preventivamente, per periodi decisi in modo arbitrario, cittadini che non sono ancora colpevoli perché ancora non giudicati.

La magistratura contesta le leggi: dunque rifiuta obbedienza all'istituzione parlamentare, il secondo dei tre poteri (esecutivo, legislativo, giudiziari) che per la speranzosa dogmatica democratica, dovrebbero «bilanciarsi» l'un l'altro, «fare contrappeso» al potere degli altri due per scongiurare appunto che uno – di solito l'esecutivo – assuma troppo potere incontrollato.
Anche in Italia abbiamo avuto un golpe sofisticato, di nuovo tipo.
Tanto più rischioso, in quanto non sappiamo riconoscerlo e dunque, nemmeno denunciarlo.
E c'è poca possibilità di difesa contro un colpo di Stato di nuovo tipo.
«Gli apparati statali si adeguano».
La burocrazia è una «macchina», fatta di uomini in carriera, che non hanno alcuna voglia di rischiare lo stipendio in nome di qualche principio etico o civile.
Basta che le disposizioni cui obbediscono vengano da apparati superiori «legali», e loro eseguono. In USA, alti gradi militari hanno avuto piena coscienza della manovra golpista condotta l'11 settembre; e anche analisti della CIA.
Ma sono stati zitti.
Per non essere licenziati.
Basta che i golpisti assicurino che chi non protesta non sarà rovinato personalmente nella carriera, e la burocrazia si adegua.

«Il parlamento non reagisce».
Il potere legislativo, di solito la vittima predestinata del golpe, è quello che meno può resistere. Anzitutto perché non è concentrato, anzi profondamente diviso, addirittura in modo istituzionale: c'è sempre una maggioranza contro un'opposizione, e ciò impedisce un'azione concertata e comune contro il pericolo golpista.
In Parlamento non manca mai un «partito» del golpe, spesso trasversale.
Secondo, perché il «potere» legislativo di fatto non ha potere alcuno: propone e vara leggi, ma non può dare ordini agli apparati burocratici statali.
La magistratura ha a sua disposizione le polizie (mezzo milione di agenti tra CC, PS e GdF); il parlamento non ha nulla di simile.
Il potere più democratico è anche il meno difeso.

«I giornali assecondano».
Questo è il lato più vergognoso: la «libera» stampa, storicamente, non ha mai contrastato un potere golpista.
Quelli che dovrebbero essere gli organi privati ausiliari della democrazia, che vegliano sulla libertà a nome dei cittadini-lettori, sono generalmente i primi a incoronare il dittatore.
La stampa francese lo fece con Napoleone, ripetutamente.
Fino all'ultimo: quando Bonaparte fuggì dall'Elba, i giornali parigini titolarono: «il mostro è evaso»; quando sbarcò a Tolone, «Napoleone è in Francia»; quando entrò nella capitale con le truppe raccolte via via, «salutiamo l'imperatore, l'osanna della folla».
In Italia, è nota la parte che Il Corriere della Sera specialmente (ma non da solo) ha avuto in Mani Pulite, pubblicando atti coperti da segreto istruttorio opportunamente «soffiati» dall'accusa, facendo i processi sui giornali prima che nelle aule (quasi tutti i colpevoli, in aula, sono stati assolti, dopo anni).

«Il popolo approva».
Il colpo di Stato ha bisogno di un certo appoggio popolare.
In genere, ottiene questo appoggio provocando un evento che terrorizza il popolo: come appunto la cricca Bush-Cheney-Rumsfeld-neocon ha attuato l'attentato attribuito ad Al Qaeda.
Spaventata, accecata dal terrore, la popolazione chiede protezione e vendetta.
Accetta la riduzione delle proprie libertà; conferisce spontaneamente immensi poteri al gruppo golpista, perché la difenda.
Un giorno se ne pentirà, forse, quando lo stato d'eccezione diventa «normale» e la guerra «senza fine», e i poteri speciali intrusivi.
Ma l'esperienza (del KGB) mostra che basta incarcerare e perseguitare pochi, non tutti.
L'arresto del vicino, di notte, viene spiato dai vicini con sollievo: non sono venuti per me, torniamo a dormire.
Fino al giorno in cui vengono per prendere lui.

Altrove, è bastato suscitare l'entusiasmo vendicativo: il tintinnare di manette contro i corrotti ha scatenato l'euforia.
In altri ancora, basterà la collusione di gruppi organizzati, come i sindacati, qualche direttore di giornale, o la loro intimidazione.
Mentre Mani Pulite arrestava pacchi di democristiani, la Chiesa ovinamente, intimorita di essere coinvolta (e di perdere l'8 per mille), predicava: «educare alla legalità».
Nessun corpo sociale o intermedio ha speso una parola per difendere le libertà personali calpestate, i diritti alla difesa, la presunzione d'innocenza.
Dopotutto, si è calcolato, basta l'appoggio del 25% della popolazione perché il golpe abbia successo.
Hitler e Pinochet ne avevano di più, e Bush ha ancora il 49% di favori nei sondaggi.
Perché basta così poco?
La risposta la diede, lucidissimo, Richelieu: coloro che si oppongono agli abusi del potere costituito, per quanto numerosi siano, sono sempre «la metà più debole» del potere ufficiale.
Anche quando si pensa di sostenere una buona causa, la coscienza di essere ribelli contro le istituzioni indebolisce il proposito, disorganizza l'azione di difesa della democrazia, si offre a una repressione selettiva: basta arrestare i pochi consapevoli, bollarli come «anti-patriottici» (o «antisemiti»), e il gioco è fatto.

Il potere ufficiale golpista può aggiungere al suo 25% di attivamente favorevoli, l'immensa maggioranza dei passivi, quelli che obbediscono comunque, che non vogliono guai, che hanno paura di esporsi.
L'America, la superpotenza, la storica «democrazia», è caduta sotto un colpo di Stato.
Sofisticato, nuovo, fortemente criminale (il massacro di 3 mila suoi cittadini), e probabilmente sotto il potere di una potenza straniera (Israele): e la tragedia è che nessuno lo dice.
Che nessuno può dirlo.
Ho cercato di aggiornare il concetto.

(Tratto da www.effedieffe.com)

Note
1) «Bush and the trust gap», ripubblicato dall'Herald Tribune, 13 febbraio 2006. Pezzo prudentemente non firmato.
2) William Pfaff, «A 'long war' designed to perpetuate itself», International Herald Tribune, 10 febbraio 2006.

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