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    Escher, Bach, Borges: il cerchio, la spirale e l’eterno ritorno

    È in-finitamente in-esprimibile (in-effabile direbbero gli stilnovisti) e dunque lontana dall’uomo l’idea in-accessibile che si nasconde dietro all’in-finito: solo il classico patto con il demonio, anche quest’ultimo pura negazione di ciò che si è soliti identificare come sommo bene, sembrerebbe condurre già su questa terra a qualche cosa di eterno. Ma l’eterno è un tipo di infinito, è una limitazione, come del resto nella sua grandezza è limitato il male assoluto; dunque anche la scelta di Faust di voler abbracciare la sfera del sapere non conduce a una infinità vera. L’uomo tenta di scalare il monte dell’infinito senza accorgersi di non riuscire a superarne nemmeno la base e si deve accontentare pertanto di una sua semplice sfumatura: la circolarità.

    […] Il concetto di archetipo analizzato da Jung è in nuce la fonte inesauribile della circolarità. Tutta l’arte – e Borges, Bach ed Escher lo esemplificano – fa ricorso a tematiche che ritornano costanti e che giungono da un passato sommerso dell’umanità; può variare l’interpretazione ma non la sostanza. La nostra storia è la storia di tutti e da qualche parte nell’universo è di sicuro già stata narrata, musicata o dipinta. In ogni caso la scelta della circolarità per la rappresentazione dell’infinito è la più umana possibile, la più visualizzabile e rappresentabile attraverso i vari parametri dell’arte. L’ouroboros, il serpente che si morde la coda allegoria dell’eterno ritorno, della rinascita infinita del tutto, in un certo senso rappresenta ciò che in topologia è la ‘Bottiglia di Klein’, una superficie ambigua in cui non è dato sapere quale sia l’interno e quale l’esterno. L’insistenza di Borges sui temi del labirinto, dell’arte combinatoria (antica tecnica cabalistica) che con le sue permutazioni è in grado di limitare fattorialmente l’infinito, della circolarità della narrazione e dell’infinita biforcazione delle storie, ha un suo denominatore comune nella ricerca della divinità – o perlomeno delle sue tracce – in mondi paralleli a quello reale in cui gli indizi sulla sua presenza sono mascherati da continui enigmi. Quelle di Bach o di Mozart, come il racconto di Borges, sono nel loro paradossale esoterismo musiche alla portata di tutti e da tutti comprensibili, che lentamente nel loro svolgersi diventano la porta di accesso per un altro mondo. Si arriva poi alla nota Striscia di Moebius II (1963) accostandola a quanto detto circa il canone bachiano (Bach ha codificato e
    cristallizzato il tutto con un breve canone cancrizzante che, nella sua pura semplicità, raffigura sonoramente quello che Moebius ha tradotto geometricamente con il suo nastro) credo che ancor più rappresentativo del genio di Escher sia l’autoritratto Mano con sfera riflettente (1935),laddove la presenza simultanea di due realtà differenti distrugge la barriera spaziale tra il fruitore e l’opera creando un feedback circolare

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