Un piccolo romanzo di un editore semisconosciuto. Eppure «Il Patto» di Paolo Cortesi si annuncia come una delle felici rivelazioni della stagione. Tra fantastoria e suspense
Napoli, 26 ottobre 1860. Il giovane portaordini, Lorenzo, è arrivato correndo al quartier generale di Garibaldi, a Palazzo Agri. Poco meno di un mese dopo la sconfitta dell'esercito borbonico a Volturno. La liberazione, se così si può chiamare, del Sud è cosa fatta. E al ragazzo, intimidito, appare un'immagine dell'eroe dei due mondi ben diversa da quella consueta: ora, seduto a un capo di una lunga tavola, non ha l'aria del guerriero, ma «uno sguardo affettuoso, leale, attento, rispettoso, assorto, mesto, lieto». «Uno sguardo da innamorato». Anche lui, Lorenzo, come tutti quelli che hanno seguito Garibaldi nell'impresa, nutre una profonda ammirazione per il suo comandante. Che, con aria premurosa, gli fa le domande di rito; quelle che il fido Bixio, presente al colloquio, ha già sentito mille volte: «Come ti chiami?». E: «Che te ne pare dell'opera nostra?». Cliché; null'altro che cliché.
C'è peraltro qualcosa di molto più importante: il portaordini ha un messaggio segretissimo per il generale, e glielo consegna. Ma, quando l'altro si accorge che il sigillo è rotto – puro caso: la ceralacca era troppo larga -, e si mette ad incalzare il ragazzo di domande, quello parla: ha letto il messaggio, rimanendone turbato. Perché ne esce un altro aspetto, meno glorioso, della guerra. Tuttavia Lorenzo giura: manterrà un rigoroso silenzio. Ma l'eroe non si accontenta: congedandolo con qualche ampollosa parola d'elogio, d'improvviso, con la massima naturalezza, gli trapassa il cranio con un colpo di pistola.
Che cos'ha di così grave da nascondere, il generale?
È una scena tra le più agghiaccianti e sorprendenti del romanzo Il Patto, di Paolo Cortesi (classe 1959, bibliotecario a Forlì). Libro bellissimo e terribile. Ci è arrivato – è bene raccontarlo – secondo una modalità che gli addetti, con loro buona pace, sono soliti ritenere perdente in partenza: inviato dall'autore, sconosciuto a chi scrive queste righe, per posta, con poche semplici parole. L'editore: un editore di nicchia.
E però, in ogni caso, Il Patto ci è sembrato un grande romanzo. Tanto intelligente e tanto colto quanto feroce. Lo potremmo definire un romanzo fantastorico. Senonché c'è molto di più: realismo, parodia, gusto del mistero e dell'assurdo (quanto poi?). E del grottesco. La sua trama trascorre dalla metà dell'Ottocento a oggi, salvo poi rivolgendosi indietro, al XVII secolo e al tempo dei Rosacroce, per tornare, infine, ai giorni nostri. Raccontandoci, attraverso una serie di convulse avventure, il disegno di una potente società segreta, la Sinarchia, e la sua fanatica ricerca, che dura da secoli, di un'anarca entità, l'eone (un oggetto? Una formula? un rituale misterioso?). Che riserva, a chi se ne impadronisca, la sovranità assoluta sul mondo, tutto il mondo.
Non si tratta di un polpettone, si tranquillizzi il lettore. Il bravissimo Cortesi organizza su questo tema, segmentandolo in tante brevi scene, un grande affresco. Né la parte contemporanea, dove i protagonisti sono uomini comuni (un professore, un ex bibliotecario, un erudito chiamato da tutti "posapiano"), coinvolti loro malgrado nelle trame dei potenti, sulla scia dell'eone, è inferiore per qualità al rutilante racconto ottocentesco dove campeggiano figure pubbliche come, appunto, Garibaldi e Bixio, Cavour, Napoleone III. Mescolando Cortesi, tranquillamente e borgesiamente, vero e falso. Non risulta che Cavour e Garibaldi fossero quei furfanti matricolati descritti dall'autore, nondimeno molto ci diverte e ci scompiglia il gusto del pastiche storico-fantastico e la sua concreta realizzazione, favorita da un'assoluta padronanza del ritmo impresso alla scrittura. Cosa c'è dietro le facciate impassibili della storia codificata? E che c'è dietro le figure uffciali del potere? Ieri, oggi, sempre.
Sa tenerci col fiato sospeso Cortesi. E ci inchioda davanti alla vivezza e all'incalzare delle scene. La battaglia alla piana di Volturo, ad esempio: stendhaliamente governata dal caso. La grottesca seduta spiritica organizzata alle Tuileries per la gioia del megalomane Napoleone III, aspirante – anche lui – alla signoria del mondo. La ricerca affannosa, da parte di un gregario gaglioffo, al cimitero Père-Lachaise di Parigi, di una traccia dell'eone, nascosta – così gli hanno detto – in una tomba vicino a quella di Proust. Alta arte accanto a infame malavita. La barbarie di uno sgorbio di uomo, il cardinale De Rosa, coevo di Garibaldi; pronto a far torturare fino alla morte il suo sgherro, ingiustamente sospettato. E dovunque, vite che divengono, in un attimo, pozze di sangue nero: motivo ossessivo ricorrente e metafora della labilità dell'esistere.
C'è peraltro qualcosa di molto più importante: il portaordini ha un messaggio segretissimo per il generale, e glielo consegna. Ma, quando l'altro si accorge che il sigillo è rotto – puro caso: la ceralacca era troppo larga -, e si mette ad incalzare il ragazzo di domande, quello parla: ha letto il messaggio, rimanendone turbato. Perché ne esce un altro aspetto, meno glorioso, della guerra. Tuttavia Lorenzo giura: manterrà un rigoroso silenzio. Ma l'eroe non si accontenta: congedandolo con qualche ampollosa parola d'elogio, d'improvviso, con la massima naturalezza, gli trapassa il cranio con un colpo di pistola.
Che cos'ha di così grave da nascondere, il generale?
È una scena tra le più agghiaccianti e sorprendenti del romanzo Il Patto, di Paolo Cortesi (classe 1959, bibliotecario a Forlì). Libro bellissimo e terribile. Ci è arrivato – è bene raccontarlo – secondo una modalità che gli addetti, con loro buona pace, sono soliti ritenere perdente in partenza: inviato dall'autore, sconosciuto a chi scrive queste righe, per posta, con poche semplici parole. L'editore: un editore di nicchia.
E però, in ogni caso, Il Patto ci è sembrato un grande romanzo. Tanto intelligente e tanto colto quanto feroce. Lo potremmo definire un romanzo fantastorico. Senonché c'è molto di più: realismo, parodia, gusto del mistero e dell'assurdo (quanto poi?). E del grottesco. La sua trama trascorre dalla metà dell'Ottocento a oggi, salvo poi rivolgendosi indietro, al XVII secolo e al tempo dei Rosacroce, per tornare, infine, ai giorni nostri. Raccontandoci, attraverso una serie di convulse avventure, il disegno di una potente società segreta, la Sinarchia, e la sua fanatica ricerca, che dura da secoli, di un'anarca entità, l'eone (un oggetto? Una formula? un rituale misterioso?). Che riserva, a chi se ne impadronisca, la sovranità assoluta sul mondo, tutto il mondo.
Non si tratta di un polpettone, si tranquillizzi il lettore. Il bravissimo Cortesi organizza su questo tema, segmentandolo in tante brevi scene, un grande affresco. Né la parte contemporanea, dove i protagonisti sono uomini comuni (un professore, un ex bibliotecario, un erudito chiamato da tutti "posapiano"), coinvolti loro malgrado nelle trame dei potenti, sulla scia dell'eone, è inferiore per qualità al rutilante racconto ottocentesco dove campeggiano figure pubbliche come, appunto, Garibaldi e Bixio, Cavour, Napoleone III. Mescolando Cortesi, tranquillamente e borgesiamente, vero e falso. Non risulta che Cavour e Garibaldi fossero quei furfanti matricolati descritti dall'autore, nondimeno molto ci diverte e ci scompiglia il gusto del pastiche storico-fantastico e la sua concreta realizzazione, favorita da un'assoluta padronanza del ritmo impresso alla scrittura. Cosa c'è dietro le facciate impassibili della storia codificata? E che c'è dietro le figure uffciali del potere? Ieri, oggi, sempre.
Sa tenerci col fiato sospeso Cortesi. E ci inchioda davanti alla vivezza e all'incalzare delle scene. La battaglia alla piana di Volturo, ad esempio: stendhaliamente governata dal caso. La grottesca seduta spiritica organizzata alle Tuileries per la gioia del megalomane Napoleone III, aspirante – anche lui – alla signoria del mondo. La ricerca affannosa, da parte di un gregario gaglioffo, al cimitero Père-Lachaise di Parigi, di una traccia dell'eone, nascosta – così gli hanno detto – in una tomba vicino a quella di Proust. Alta arte accanto a infame malavita. La barbarie di uno sgorbio di uomo, il cardinale De Rosa, coevo di Garibaldi; pronto a far torturare fino alla morte il suo sgherro, ingiustamente sospettato. E dovunque, vite che divengono, in un attimo, pozze di sangue nero: motivo ossessivo ricorrente e metafora della labilità dell'esistere.
tratto da Il Sole 24 ore – domenica 22 giugno 2008 – N°171