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Haiti nera storia – di Alberto Roccatano

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Haiti nera storia

Dal paradiso all’inferno. Dai nativi ai deportati neri. Dalla ricchezza alla povertà. E forse cavia sperimentale. Eccovi Hayti.

Italia del nord. Qui fa freddo e c’è la neve. Siete preoccupati per il clima che sta cambiando. Dite che vi piacerebbe stare al caldo dall’altra parte del mondo? Diciamo, più o meno, ad una temperatura fluttuante fra i 26 e 28 gradi centigradi? E, per il dove, pensate alle terre da dove viene il caffè che prendete al bar? E, magari, per il quando, pensate che queste siano le settimane giuste, lontane dai periodi settembrini quando da quelle parti si scatenano gli uragani che sempre cercano vittime?

Allora è probabile che, mentre trattenete gli improperi per le ruote della vostra automobile che slittano sulla neve, stiate pensando ad una vacanza caraibica in alta stagione.

In quel Mar dei Caraibi, fra le due Americhe a due passi da Cuba – l’isola che si protende verso il caldo golfo del Messico come balena curiosa, sfiorando la Florida (un tempo spagnola) e accompagnata dalla più piccola Jamaica – sta la, oggi nera, antica isola Hispaniola, la perla delle Antille, seguita da Porto Rico e l’arco delle piccole isole delle Antille (anche loro di origine vulcanica) che fanno il solletico alle coste nordiche del Venezuela.

I marinai di Colombo, scesi a terra, trovarono con meraviglia che quel paesaggio era simile a quello della verdeggiante ed amena ma lontana Andalusia, le piante e gli uccellini che svolazzavano loro intorno richiamavano alla mente quelle della Castiglia. Per queste e molte altre somiglianze, anche i pesci erano simili a quelli guizzanti vicino alle coste spagnole, venne chiamata Isola Spagnola (Isla Española), la piccola Spagna, tanto appariva splendida. Un nome latinizzato poi in Hispaniola.

L’isola era abitata, in quel tempo dai Tainos un popolo nudo e pacifico che indossava solo monili di oro puro e di perle, fra quei Tainos si trovavano i pochi che conoscevano i segreti amazzonici.

Il popolo Tainos che per la sua mitezza, il rifiuto del furto e della menzogna, assomigliava moltissimo all’antico laziale (anche loro di alta statura) popolo dei Tities (che significa colombelle), i Sabini, così buoni da essere considerati (tutt’ora) fregnoni dai Romani che con loro strinsero un accordo per fondare l’antica Roma.

La terra fertilissima era tutta coperta della più varia e più ricca vegetazione che si possa immaginare; gli alberi piegavano i rami al peso delle belle e mature frutta che ne pendevano; l’aria era percorsa da migliaia di volatili, che, con la splendida ricchezza delle variopinte penne, più che uno spettacolo di meraviglia erano agli occhi un incanto; i fiumi e le riviere portavano pesci d’ogni qualità, belli, grossi, saporitissimi; la temperatura era dolcissima; il mare e il cielo limpidi come cristallo. E in questa terra beata viveva una popolazione felice che non sapeva che cosa fosse bisogno, perché tutte le sue brame e i suoi pensieri non andavano più là di quello che la natura dava. Alla sete bastavano le fonti, alla fame i frutti degli alberi, e i pomi e le radici che con leggerissima cura bastava consegnare alla terra per vederli crescere e moltiplicare in breve tempo a quantità prodigiosa. Il freddo non aveva rigori da cui ripararsi; la semplicità dei costumi non vizi a cui tener fronte; e tutti rispettati e rispettosi si aggiravano per le vergini praterie e per le foreste come madre natura li aveva creati. Non conoscevano armi, né faceva d’uopo conoscerle, perché mancando nei vizi e nei bisogni l’incentivo alle risse e alle guerre, tutti vivevano in pace; e ai pochi mali umori che talvolta dovevano pur manifestarsi tra la quieta popolazione, bastavano a porvi riparo l’autorità dei vecchi e dei capi che chiamavano Cacichi. Il solo pensiero che li travagliasse era la paura delle genti di Canniba; ma vigili guardie spiavano il loro appressarsi, e gli spessi fuochi accesi sulle alture avvertivano tutti dell’imminente pericolo; e il fuggire e il nascondersi pei monti e per le spesse selve era sufficiente difesa alla loro libertà. Non v’era né mio né tuo ciò che la terra dava era di tutti, perché a nessuno costava cura e fatica a farla produrre. E delle poche cose che avevano dentro alle povere capanne, erano l’un l’altro libéralissimi; e con la stessa facilità con cui prendevano, con la medesima offrivano.

E se non era per l’autorità di Colombo che voleva assolutamente fossero ricambiati con qualche cosa, i poveretti si lasciavano spogliare di tutto, contenti e felici che le loro offerte fossero gradite.

(Provate a rileggervi queste righe quando giungerete al racconto dell’ingovernabilità di Haiti fra saccheggi e disperazione, a un mese dal terremoto. Chissà che riescano a trasmettervi pensieri profondi.)

I Tainos, vivevano nelle vallate fra le montagne, ben protetti sia dagli uragani che da un popolo cannibale che da un’altra isola vi faceva scorrerie.

Quando gli spagnoli si addentrarono nella, allora, tutta verdeggiante isola, trovarono la vallata dove vivevano circa tremila Tainos. Perché sia chiaro quanto sia stato facile ottenete la fiducia di quel popolo pacifico per poi crudelmente e barbaramente approfittarne ecco il racconto dell’arrivo dei portatori di civiltà, proprio nell’isola che i Tainos chiamavano Hayti (che significa terra protetta dalle montagne):

Inoltratisi fra terra circa quattro miglia e mezzo gli esploratori giunsero ad una deliziosa vallata, pel cui mezzo scorreva limpidissima una larga riviera. Sulle sponde di questa era la borgata, che aveva un migliaio di case, e poteva contenere meglio che tremila persone. Al loro primo apparire gli abitanti si diedero a furia tutti a fuggire, onde gli Spagnuoli fecero correr loro dietro l’interprete indiano che li rassicurasse. E il povero selvaggio correndo gridava che non temessero, perché quelli eran cristiani e non cannibali; e i cristiani non facevano male a nessuno, anzi erano gente che venivano dal cielo, e donavano a chiunque trovavano bellissime cose. A queste parole cominciarono a rallentare la loro fuga, e poi fattisi coraggio e rassicurati, in numero più di duemila tornarono indietro incontro ai cristiani; e quando li ebbero raggiunti ponevan loro le mani sopra la testa in segno di grande amicizia e profondo rispetto; ma trepidavano sempre, e ci vollero molte assicurazioni dell’Indiano e carezze dei nostri prima che i loro timori si dissipassero affatto. Quando si furono appieno rassicurati fu una gara fra tutti di correre alle loro case a prendere pane, patate, pesce, tutto quello che avevano da mangiare per offrirlo ai nostri; e qualunque cosa s’accorgessero che tornava loro gradita, tosto si affannavano a darla con una spontaneità ed insistenza che facevano fede della loro gioia nel darla; e sempre ricusavano il cambio che venisse loro offerto, per quanto agli occhi loro tornasse prezioso e gradito.

(Nota per i tempi nostri, in Italia, in questo nostro disastrato paese. Quei nativi, che hanno fatto dell’accoglienza la loro offerta per l’altro, che giungeva nelle loro accoglienti terre, non si sono forse dovuti pentire, fino all’estinzione, per il loro dono, immenso, all’altro che non lo poteva meritare, sia perché proditoriamente giungeva da lontano, sapendo approfittare della loro buona disposizione d’animo, che era considerata solo un limite mentale sul quale ritenevano di poter facilmente dominare, fino al punto di poter loro imporre, di fatto, la schiavitù, sia perché l’altro aveva un numero troppo grande, nel presente e nel futuro, che superava e assorbiva il numero troppo piccolo di chi ospitalmente lo accoglieva?)

Hispaniola; così, dunque, l’aveva ribattezzata occupandola e togliendone il dominio ai nativi, il navigatore, cercatore di ricche terre, Cristoforo Colombo, in quel 6 dicembre del 1492.

Quell’oro, la cui origine venne opportunamente nascosta; quell’oro, e non solo oro, che farà uscire di senno – da allora e per il loro limitato sempre – gli occupanti e i futuri mischiati, da subito fu motivo di scontri sanguinosi con i popoli nativi.

Con ben diversa fortuna lo seguì a breve distanza Fedro Alfonso Nino, esperto piloto, che era già stato al servizio dell’Ammiraglio ne’ suoi viaggi lungo le coste di Cuba e di Paria. Giunto alla terra ferma egli seguitò per qualche tempo la costa meridionale di Paria, quindi uscito dal golfo, costeggiò per oltre trenta leghe la sua parte settentrionale, visitando quella che in seguito si chiamò costa delle Perle. Posero piede a terra in differenti luoghi, scambiarono con immenso profitto le loro bagatelle europee, e tornarono in Europa ricchissimi d’oro e di perle. (Sta raccontando di coloro che subito seguirono le orme di Colombo)

…accendevasi la cupidigia nell’udire la descrizione di regioni selvagge e disabitate ridondanti d’oro, di perle, e di spezierie

…Si narrava di fiumi che scorrevano su arene d’oro, di monti ricoperti di pietre e di metalli preziosi, delle spiaggie del mare seminate di perle; e tutte queste ricchezze non avevano padrone, non chi si curasse di loro. A questi racconti la miseria e l’avarizia s’infiammavano di desiderii e di speranze; la patria, la famiglia, i pericoli dell’Oceano, non contavano più nulla

…e un bell’assortimento di perle, ottenute in cambio di qualche campanello o altra bazzecola europea di niun valore

…un marinaio notò al collo di una Indiana molti fili di perle, ed avendo un vaso di terra cotta di Valenza, che è una specie di porcellana dipinta i cui colori sono assai vivaci, lo ruppe e ne offrì i frantumi alla selvaggia, che in cambio gli diede buon numero delle sue perle. Il marinaio le portò all’Ammiraglio, il quale spedì subito a terra molti altri de’ suoi con nuova porcellana di Valenza e alcuni sonagli, ed essi ritornarono poco appresso riportando tre grosse libbre di perle, alcune delle quali erano di meravigliosa grossezza

…Quando scoprii le Indie, proclamai questa la più ricca signoria del mondo; parlai dell’oro, delle perle, delle pietre preziose, degli aromati, e del loro commercio.

Tutti i riportati che avete appena letto sono frasi indicative e significative tratte da La vita di Cristoforo Colombo narrata da Francesco Tarducci secondo gli ultimi documenti pubblicato da I Fratelli Treves nel 1885.

Valga per tutte le pagine di questo articolo il significato nefasto drammatico e crudele che, dalle righe sopra riportate, assorbe e identifica il termine “colonialismo”. Il nostro tempo è figlio del colonialismo piaccia o non piaccia ai viaggiatori per piacere o per necessità del mondo che vorrebbe promettere un paradiso globalizzato. Niente di buono può nascere dal male. Il bene sta con il bene e il male sta con il male ecco perché i frutti velenosi di scelte geopolitiche velenose hanno avvelenato, stanno avvelenando e avveleneranno corpi ed anime. Gli estensori di relazioni e i raccontatori delle meraviglie delle “indie occidentali” come in un primo tempo furono chiamate quelle terre lontane furono purtroppo i battistrada degli invasori che con la forza delle armi e con l’inganno, si vestirono del diritto di occupare quelle terre, di ridurre in schiavitù le genti che ritenevano pagane e inferiori. I genocidi non si contarono, fino al punto che mancarono schiavi per “lavorare” la terra e siccome bisognava produrre sempre di più per la “cupidigia” della “civile” Europa, i mercanti di schiavi fecero rotta verso Hispaniola e non solo.

Nell’isola i costumi tribali africani, sono rimasti nel sangue dei figli degli schiavi deportati, nonostante il cattolicesimo imposto dai dominatori stranieri. Non solo strumenti a percussione particolari, come la manimbula o il grambo, non solo danze rituali come quella del vaudou, non solo un pianista e compositore d’eccezione come Ludovie Lamothe conosciuto nei primi del ‘900 come lo Chopin negro; ma dall’Africa è giunta in eredità anche la schiavitù tra africani, la ricchezza concentrata in poche famiglie, la grande litigiosità. Nell’Africa aggredita e colonizzata gli europei trovarono già presenti queste malattie del pensiero di cui anche loro erano e sono gravemente malati e portatori malati.

E questa consapevolezza era ben presente nel 1903 a Bobo Rosalvo che si sarebbe opposto poi con durezza all’occupazione militare USA di Hayti; in quella fine d’anno infatti aveva preparato un discorso per celebrare, nel gennaio del 1904, il centenario dell’inizio della liberazione dalla schiavitù. Fu un discorso durissimo e lucidissimo, che mostrava quanto fosse difficile per il suo popolo trovare un punto di equilibrio nuovo fra il passato il presente e il futuro; quanto fosse difficile e non solo per i neri essere veramente uomini liberi. Di quel memorabile discorso riporto solo alcune frasi (da me tradotte non letteralmente) che sintetizzano drammaticamente lo stato umano dell’isola sempre contesa.

Je suis fatigué, ô mes compatriotes, de nos stupidités.

Sono stanco, o miei concittadini della nostra stupidità

Faisons grâce au monde, qui nous sait exister, de caricatures révoltantes.

Facciamo di fronte al mondo che ci sta osservando, delle figure rivoltanti.

Un peu de vergogne, voyons, à défaut de grandeur morale.

Dovremmo avere un po’ di vergogna, in assenza della grandezza morale.

Centenaire de notre liberté? Non Centenaire de l’esclavage du nègre par le nègre.

Il Centenario della nostra libertà? No il Centenario della schiavitù del nero sul nero.

Centenaire de nos égarements, de nos bassesses et, au milieu de vanités incessantes, de notre rétrocession systématique.

Il Centenario delle nostre follie, delle nostre meschinità e, in mezzo a vanità senza fine, della nostra sistematica involuzione.

Centenaire de nos haines fraternelles, de notre triple impuissance morale, sociale et politique.

Il Centenario dei nostri odii fraterni, della nostra tripla impotenza morale, sociale e politica.

Centenaire de nos entr’assassinats dans nos villes et savanes.

Il Centenario dei reciproci assassinii, nelle nostre città e nelle savane.

Centenaire de nos vices, de nos crimes politiques.

Il Centenario dei nostri vizi, dei nostri crimini politici.

Centenaire de tout ce qu’il peut y avoir de plus odieux au sein d’un groupement d’hommes.

Il Centenario di tutto quello che ci può essere di più odioso in una società di uomini.

Centenaire de la ruine d’un pays par la misère et la saleté.

Il Centenario della rovina di un paese a causa della miseria e della vigliaccheria.

Centenaire de l’humiliation et de la déchéance peut-être définitive de la race noire, par la fraction haïtienne, cela s’entend. Je vous en prie, n’allons pas profaner les noms de ceux-là que nous appelons aussi pompeusement que bêtement NOS AÏEUX.

Il Centenario dell’umiliazione e della decadenza può essere quello definitivo della razza nera, per quella parte che si trova ad Hayti ovviamente. Io vi scongiuro di non profanare i nomi di coloro che chiamiamo così pomposamente quanto semplicisticamente i nostri antenati.

È proprio questa ultima frase, così accorata, che ci permette di tornare indietro nel tempo per cercare quelle radici e quegli antenati cui sta accennando Bobo Rosalvo, coscienza perfetta di quel popolo che oggi soffre sciagure immani.

Torniamo dunque in quei tragici decenni del 1600 di questa nostra era accecata dall’egoismo senza confini e senza freni. Decenni tragici solo per i nativi e per i deportati neri.

Fu per rendere più difficili le scorribande dei bucanieri (la Francia e l’Inghilterra ne sapevano qualcosa) che venne deciso lo spopolamento della parte nord-ovest di Hispaniola che fronteggiava la Tortuga, asilo dei pirati. Infatti dall’isola della Tortuga (tartaruga) partivano i filibustieri in cerca delle navi spagnole che dopo aver fatto tappa a Cartagena portavano in Europa oro, gioielli, spezie pregiate sottratte alle terre “americane”.

La data nera dei neri di Hayti è quel 20 settembre del 1697, quando, a seguito del trattato di pace di Rijswijk, la Spagna cedeva alla Francia di Luigi XIV tutta la parte occidentale dell’isola Hispaniola anche chiamata Hayti. L’esercito francese era già presente nelle terre chiamate Indie occidentali (il 3 maggio di quell’anno avevano occupato in Colombia la città di Cartagena, fondata dagli spagnoli nel 1533). Dunque fu garantita la protezione ai coloni francesi che si imbarcarono per raggiungere le terre spopolate di Hispaniola. Col tempo, i francesi si sarebbero contesi con gli spagnoli il controllo dell’isola.

Proprio i francesi contribuirono non poco a riempire l’isola di schiavi africani. Del resto seguivano le secolari orme degli spagnoli che deportarono schiavi neri dall’Africa (spagnola e portoghese) già dal 1502. In quegli anni era governatore dell’isola (lo rimarrà fino al 1509) Nicola di Ovando, commendatore di Larez dell’ordine di Alcantara; così viene chiamato dal Francesco Tarducci nella “Vita di Cristoforo Colombo”, e così, sempre il Tarducci, lo rappresenta:

ed è facile scoprire che la sua decantata umiltà serve di velo a uno smodato desiderio di dominare. Certo è che gli Indiani con tutta la sua abilità di governare ebbero a piangere sotto di lui lagrime di sangue…,

…così, invece, parla del trattamento dei nativi sotto l’ammiraglio Francesco di Bobadilla nominato Commissario del “possedimento” spagnolo nel 1500, del quale doveva prendere il posto proprio Nicola di Ovando appunto nominato Governatore dell’isola.

…Della quale oppressione sui miseri selvaggi il Las Casas, che ne fu testimonio oculare, ci ha lasciato nella sua storia un quadro che fa raccapriccio. Deboli di complessione, e abituati a trascorrere la più parte del loro tempo liberi e tranquilli fra le delizie della loro isola, quegli infelici, trascinati ora a smisurate fatiche, cadevano accasciati dall’impotenza di reggervi, e più che al peso delle fatiche cadevano vinti sotto il peso delle pene atrocissime, a cui per un nonnulla erano condannati.

…Las Casas afferma di aver veduto egli stesso le spalle di quei disgraziati che portavano le lettighe, tutte lacerate e sanguinolenti dopo un lungo cammino. E quando codesti nuovi gentiluomini arrivavano in una borgata o villaggio indiano, s’impossessavano di tutte le provvigioni degli abitanti, non secondo il bisogno, ma come loro dettava il capriccio o il mal animo, e costringevano il Cacico e i suoi sudditi a danzare davanti a loro per divertirli. E gli stessi piaceri non erano scompagnati da crudeltà, perché parlavano coi Naturali sempre in termini alteri, e alla menoma offesa, o al più lieve movimento di sdegno, li condannavano alla sferza, ai colpi di bastone, ed anco alla morte.

I nativi alla fine del secondo decennio del 1500 saranno ridotti ad un numero prossimo all’annientamento a causa delle crudeltà dei coloni spagnoli che giunsero perfino a bruciarli su graticole a fuoco lento solo per divertimento. Può quindi comprendersi quanto sia stato utile l’intervento dei Reali di Spagna, che, in quel 1502,

…pubblicavano un decreto con cui si dava l’autorizzazione (al Governatore Nicola di Ovando) di condurre alla colonia gli schiavi negri nati in mezzo ai cristiani; cioè quelli che erano nati in Ispagna dagli Indigeni delle coste Africane, che Spagnuoli e Portoghesi avevano tratti schiavi in Europa.

Se io vi invitassi a rileggere attentamente le frasi su riportate, credo che il significato di queste stesse frasi si trasformerebbe in una perfetta bussola orientatrice nella lettura di questo articolo.

Il missionario domenicano (apostolo delle Indie, prete dal 1507 e domenicano dal 1522) Bartolomeo de Las Casas (1474-1566) (che poi sarà vescovo di Chiapas dal 1539), tuonava contro il genocidio dei nativi in atto nell’isola e predicava che fosse abolita la schiavitù e invece si operasse per la loro conversione al cattolicesimo. Suo padre Francisco e suo zio avevano accompagnato Colombo nel suo secondo viaggio nel Nuovo Mondo nel 1493. Aveva 18 anni quando giunse nel 1502 a Hispaniola al seguito dell’appena nominato governatore dell’isola Nicolàs Ovando cui prima abbiamo accennato. Conosceva bene quindi gli argomenti di cui scriveva. Nei suoi scritti (è lui, appunto, il Las Casas nominato nella documentazione prima riportata) ha lasciato testimonianze tremende sulle violenze che dovettero subire i nativi. Ne accenno perché non credo che in quegli anni ci sia stato qualcun altro che abbia avuto la visione lucidissima dei crimini contro l’umanità di cui si stava rendendo responsabile l’Europa nel Nuovo Mondo; ne accenno anche perché fra i suoi scritti ebbe vasta eco in Europa la Brevissima relaciòn de la destruyciòn de las Indias, in questa opera nella quale viene, con coraggio incredibile, denunciata l’opera di sistematico genocidio delle popolazioni indigene da parte di vigliacchi conquistadores, viene anche esposta la teoria del buon selvaggio da cui prendeva origine il movimento del ritorno alla natura di Rousseau. Ma il sogno naturalista non riuscirà mai a cancellare dalla coscienza occidentale il marchio di infamia che accompagna l’occupazione del cosiddetto Nuovo Mondo; è un marchio indelebile e connotante l’intera società che su quelle terre ha costruito il tragico presente che coinvolge e coinvolgerà il mondo intero; semplicemente perché, così almeno oggi appare, ormai ha accettato di mostruosizzarsi in questa economia globale.

Quello che lascia allibiti è che le predicazioni e gli scritti del missionario domenicano furono presi a pretesto per portare un gran numero di schiavi africani sia sull’isola Hispaniola che sul resto del cosiddetto Nuovo Mondo. Gli schiavi, sia nativi che africani, erano moneta sonante e gli affaristi francesi ne importarono quasi mezzo milione in 10 decenni. (Ti lascio uno schiavo locale perché diventi cristiano e ne porto duecento dall’Africa, era l’adesione cristianissima degli affaristi europei alle richieste del domenicano denunciatore di crimini umani) Era sulla durissima e ferocemente controllatissima vita degli schiavi che si reggeva lo splendore di quelle terre d’oltre mare dove risiedevano viceré e funzionari e da cui giungevano in Europa ricchezze, cibo e leccornie esotiche.

La ricchezza proveniente da questa isola venne costruita sullo sfruttamento intensivo delle sue foreste naturali che sono state ridotte ai minimi termini esponendo quei territori alle inondazioni, sulla coltivazione della canna da zucchero e poi del caffè (1726) e sulla mano d’opera “gratuita” degli schiavi importati. Basti ricordare che alla fine del 1700 un quarto dello zucchero mondiale veniva da questa isola. Non appare dunque incomprensibile che a distanza di due secoli dalla occupazione militare di Cristoforo Colombo l’isola si ritrovasse contesa e alternativamente divisa fra spagnoli e francesi. La parte est che si trovò sotto controllo francese prese il nome di Saint Domingue, la parte ovest mantenne il nome di Hispaniola.

In quella nera Hispaniola (tutta francese dal 1697), la Francia, ancora senza rivoluzione illuminata, coltivava gli schiavi africani ai quali aveva affidato le piante di caffè importate nell’isola nel 1726. Appena (si fa per dire) un secolo dopo, nel 1794, proprio a ridosso di quel 1789 che era destinato a rivoluzionare e a insanguinare la Francia e l’Europa, i neri, dell’ormai nera e mulatta Hispaniola, capeggiati da Pierre Dominique Toussaint Louverture (ben spinto dagli inglesi) si ribellarono e vollero l’indipendenza per tutta l’isola. L’assemblea nazionale della Francia rivoluzionaria dopo qualche titubanza, saputo che i coloni francesi schiavisti stavano per consegnare l’isola alle truppe inglesi decretò che tutti gli schiavi di Hispaniola fossero liberi e godessero dei diritti politici degli altri cittadini francesi presenti nell’isola. Questa decisione convinse i non più schiavi a combattere con gli emissari della Francia rivoluzionaria e a liberare l’isola.

Furono i 22mila soldati inviati da Napoleone nel 1802, approfittando della ennesima sanguinosa guerra civile, a riportare sotto il controllo francese l’isola (deportando lo stesso Toussaint in Francia) e fu ristabilita la legalità della schiavitù. Lo scontro fu durissimo e durò fino al 1803 quando i ribelli liberarono l’isola. Cacciato l’esercito invasore, si scatenò ancora una guerra civile tra fazioni. Ebbe il sopravvento la fazione di J.J. Dessalines che dimostrando di aver capito il senso della vita, nel 1804, non solo proclamò l’indipendenza dell’isola – finalmente chiamata, nella lingua nativa dei Tainos, Hayiti –, ma si autonominò imperatore (e non fu l’unico, altri due si sarebbero nel vicino futuro gonfiati di mire regie e imperiali). Morto (presto) l’imperatore, dal 1807 l’isola vide alterne vicende in cui le due parti orientale ed occidentale si riunivano poi si distaccavano. Dopo che Santo Domingo, nel 1809, era tornato sotto il dominio spagnolo, la questione dell’indipendenza dell’intera isola era tornata in alto mare. Dal 1822 al 1843 le due rissose parti si riunirono e fu in quel ventennale periodo che, nel 1825, la Francia di Re Carlo X riconobbe l’indipendenza di Hayiti. La Francia della restaurazione era lontana dagli ideali di fraternità e pretese come “compenso” 150 milioni di franchi in oro. Re Carlo X voleva semplicemente il controvalore di dieci anni di esportazioni a cui la Francia doveva “rinunciare” per via del riconoscimento definitivo dell’indipendenza di Hayiti.

Il presidente di allora il mulatto Jean Pierre Boyer, per “pagare la libertà della sua gente”, chiese un prestito alle banche francesi alle quali non parve vero di poter “dividere il peso del prestito” con banche inglesi, tedesche e statunitensi. Fu quel prestito trasformato e ingigantito dagli “interessi bancari” a mettere in ginocchio per sempre l’economia haitiana che dalle mani dagli schiavi liberatisi tornò agli schiavisti, che oggi si chiamano imprenditori stranieri, attraverso i banchieri.

Come sarà stato diviso questo debito dai separatisti orientali di Santo Domingo che nel 1844 si dichiarò indipendente? (E… NON POTREBBE ESSERE QUESTO IL VERO MOTIVO PER CUI ANCORA OGGI L’ISOLA DI HAYITI – in questo nome è compresa anche Santo Domingo perché è con questo nome che nel 1825 ottenne l’indebitante indipendenza – NON POSSIEDE LA SUA ECONOMIA ED È IL PAESE PIÙ POVERO DEL MONDO?)

Il vero, gigantesco, problema di questa isola è da sempre l’economia. È l’economia la vera micidiale, infallibile arma di invasione di questa isola che era la perla dei Caraibi.

Quando Santo Domingo offrì alla Spagna di tornare sotto il suo dominio nel 1861, dopo decenni di unificazioni e divisioni con l’occidentale Hayti, durò pochi anni perché nel 1865 si riprese la sua indipendenza, non fu certo per motivi diversi da quelli economici. E ancora perché il protettorato di un paese economicamente forte era considerato “necessario” per affrontare il futuro, ancora Santo Domingo nel 1869 ratificava il trattato di annessione agli Stati Uniti d’America dopo laboriose trattative. Ma, il Senato statunitense, evidentemente avendo presente la storia caotica del miscuglio di popoli di quell’isola, non approvò l’annessione di Santo Domingo alla federazione degli Stati Uniti.

Eppure, l’interesse degli Stati Uniti a vigilare sull’isola bipolare si mostrò in molte occasioni; e tutte furono occasioni economiche, appunto. Infatti quali altre motivazioni se non il debito pubblico haitiano spinsero gli Stati Uniti, nel 1915, ad occupare militarmente Hayti che “sotto pressione” “accettò” il protettorato decennale colonialmente offerto dall’ingombrante vicino. Un protettorato che provocò le proteste dei paesi latino-americani, ma che fu ulteriormente, “autonomamente”, prorogato per altri dieci anni, nel 1925. Le rivolte contro l’imposizione del protettorato (naturalmente militarizzato), furono molte e costarono più di 10mila morti fra i contadini haitiani.

Per comprendere dove stava la vera questione del problema basta informare che nel 1922 la Banca Nazionale di Hayti cambiò sede: fu graziosamente accolta nelle capienti stanze della National City Bank di New York. Fu così facilitato il gravoso impegno di versare da una cassa all’altra circa 40 milioni di dollari. Era la cifra che serviva agli Stati Uniti per indennizzare la Francia che da quel lontano 1825 ancora piangeva il mancato introito e imponeva la presenza di “controllori d’affari” nel Paese caraibico. Nel 1934 il presidente USA Roosevelt comunicava ad Hayti che le sarebbe stata restituita l’autonomia fiscale, quindi nell’agosto di quello stesso anno furono ritirate le truppe.

Né andò meglio alla confinante Santo Domingo che per pagare la sua parte di quell’antico debito dal 1916 al 1924 dovette cedere agli Stati Uniti la riscossione dei diritti doganali.

Quella terra, dall’altra parte del mondo, da quando è stata chiamata Hispaniola, è una terra senza pace. Una terra senza pace anche oggi che si trova divisa fra due stati; ad est la Repubblica Dominicana (ha una superficie di circa 48.500 Km² e poco meno di 9 milioni di abitanti e la sua capitale (in origine si chiamava Nueva Isabella, il nome della regina; le fu cambiato nome in Santo Domingo de Guzman nel 1502, dopo essere stata distrutta da un uragano e poi ricostruita) ha l’onore di essere la più antica città fondata dagli europei nel continente americano (visto che è stata fondata nel 1496 dal fratello di Cristoforo, Bartolomeo Colombo) e ad ovest di minore superficie (27.750 Km² e poco più di 9 milioni di abitanti triplicati rispetto al 1941), la Repubblica (di volta in volta personale) di Haiti.

Haiti, una terra abituata agli sconvolgimenti naturali (nel 2008 gli uragani hanno fatto centinaia di vittime) e da quel 1492 non si è ancora abituata agli sconvolgimenti dagli uomini. Il numero incredibile di colpi di stato, che ha sistematicamente subito la Haitiana (solo eufemisticamente chiamata) Repubblica, richiamano gli scontri tribali africani che martoriano tutt’ora l’Africa divisa e quindi occupata e sfruttata senza ritegno dai portatori delle economie illuminate degli altri continenti e delle altre religioni e culture.

È il 12 gennaio 2010, in Italia sono le 22:53, ad Haiti sono le 16:53, la capitale Port au Prince è sconvolta e totalmente devastata da una serie di scosse di terremoto, la prima di magnitudo 7.0 della scala Richter. Le auto sulle strade saltellavano per lunghissimi minuti come giocattoli e se il palazzo presidenziale, i palazzi ministeriali, la sede della missione ONU, la Cattedrale, le scuole, gli ospedali e il resto dei palazzi del potere sono crollati, immaginate cosa sia stato del grandissimo numero delle abitazioni costruite chissà come e anche in modo abusivo. L’intera capitale di Haiti, con la sua altissima densità di popolazione residente (oltre 2,3 milioni di abitanti in città, altri 1,7 milioni nei sobborghi, dove al massimo le case dei poveri hanno visto crollare lamiere e cartoni), non ha retto al tremendo gigantesco sussulto ripetuto della terra fratturata da una faglia che potrebbe essere lunga 50 chilometri. Port au Prince, colpita nelle sue profonde viscere, ha vissuto una tragedia tremenda se nella sola capitale i rilievi satellitari hanno mostrato più di 4 mila edifici distrutti, la metà dei quali erano abitazioni.

L’epicentro del sisma viene identificato fra i 15 e i 16 chilometri a sud-ovest dalla capitale, sulla terraferma dove si trovano le aree rurali a corona della capitale e dove si trovano città costiere alcune delle quali rase al suolo. La profondità dell’epicentro viene registrato fra i 10 e i 15 km, una profondità molto vicina alla superficie terrestre, da qui la gravità dei danni prodotti.

È veramente un disastro, e purtroppo non senza precedenti, perché è l’ennesimo in questa area del mondo. Tutta l’area caraibica è soggetta ad attività sismica per la sua stessa conformazione geologica e vulcanica; ma al disotto della città di Port au Prince non si era storicamente mai scatenato un terremoto, e soprattutto di questa violenza.

Rispetto al terremoto del 1984, questo è stato sei volte più distruttivo. Non è solo Port au Prince ad aver subito questo livello di distruzione. Vicino all’epicentro del sisma si trova o meglio si trovava Léogâne una città di 134 mila abitanti che è stata quasi completamente rasa al suolo, come i villaggi di Grand Goâve e Carrefour rispettivamente di 5 mila e di 442 mila abitanti che hanno pagato cara la loro vicinanza all’epicentro del sisma. La stessa sorte devastatrice, che non ha raggiunto i disastrosi livelli dei villaggi intorno alla capitale, è toccata alla città portuale di Jacmel di circa 50 mila abitanti che si trova a sud della capitale, si affaccia infatti sul mar dei Caraibi mentre Port au Prince si affaccia sulla baia del golfo di La Gonâve, così chiamato dal nome della lunga isola di Gonâve che la occupa.

Questa è la terra che si è scrollata di dosso almeno 230mila esseri umani, anche se tutt’ora vi è chi teme che il vero numero sia più vicino a quel mezzo milione di vittime che rimbalzava nel mondo mediatico mondiale nelle primissime ore di quel tremendo giorno. La notizia lanciata dall’Associated Press riportava le dichiarazioni del senatore dell’opposizione haitiano Youri Latortue il quale basava quel tremendo numero sulla quantità degli edifici distrutti dalla sequenza dei terremoti.

A distanza di più di un mese dal disastroso sisma il numero di morti è lontano dall’essere stato indicato con precisione. Il ministro per la comunicazione Marie-Laurence Jocelyn Lassegue il 24 gennaio 2010 rendeva noto che, secondo un rapporto della Commissione sanitaria nazionale, il numero dei morti accertati giungerà al numero di 150mila ma sotto le macerie potrebbero ancora trovarsi 200mila cadaveri. Un numero enorme che crea come è intuibile anche problemi di sanità pubblica. È evincibile che la drammaticità della situazione viene potenziata anche dalla difficoltà di stabilire l’esatto numero dei morti.

Testimoni raccontano che mentre ancora tremava la terra dopo la prima tremenda scossa, che aveva aperto la terra nelle viscere di Port au Prince, onde di mare immense colpivano come magli le strade e le spiagge strappando cose e persone e trascinandole in mare. Ancora il mare nei giorni seguenti, come spazzino pietoso, si è portato via dalle coste un numero imprecisato di cadaveri.

Ancora testimoni raccontano di fosse comuni, dove venivano sepolti i cadaveri senza nome; raccontano di cataste di cadaveri bruciati, perché ormai in decomposizione, e perché non se ne occupava nessuno.

Nei bilanci, tragicamente contradditori, che sono stati fatti dalle autorità haitiane si fa riferimento anche alla mancata comunicazione da parte dei familiari dell’avvenuta sepoltura dei loro congiunti.

Se il mare, il fuoco potessero rivelare di quanti corpi morti si sono occupati, e a questa rivelazione potessimo aggiungere il numero indefinito dei morti sotterrati nelle fosse comuni e quelli ufficialmente sepolti nei cimiteri, forse potremmo tragicamente scoprire che potrebbe aver avuto ragione il senatore haitiano Youri Latortue.

Quanto al numero gigantesco di feriti, che secondo le ultime stime si è stabilizzato su 300mila, fra cui moltissimi bambini, bastano le immagini riportate dai giornali o circolanti nel web per comprendere quanto sia stata e sia drammatica l’organizzazione dei soccorsi.

Mani, braccia, gambe amputate a uomini donne e bambini. Tanti bambini ormai invalidi che non sanno ancora quale futuro di disperazione li aspetta. Occhi sgranati che cercano un sorriso e tu ci vedi nello sfondo navi che, nei secoli della ubriacatura coloniale, dopo aver costeggiato l’Africa, si sono dirette verso quest’isola, scaricando merce umana con il timbro bruciante e indelebile sulla carne violata da una umanità malata.

Notate forse una ressa, intorno a quei letti dove occhi sgranati ti strappano un sorriso amicale, consolante (come sa esserlo lo Spirito che è Santo); e nessuno si rende conto che sono proprio loro che fingono di essere compassionevoli e invece sono pronti al tradimento ad impedire che sia presente lo Spirito capace lui si di essere compassionevole e insieme miracolosamente curante, riparante?

Notate una ressa di cercatori di bambini orfani e mutilati da consegnare ad una Europa moribonda a cui non servirà essere assetata di bambini da adottare? Che peccati antichi volete scontare, signori adottanti nostrani?

E mentre questo pensiero ti porta sui cieli di questo povero paese, vedi, tragedia nella tragedia, l’emergenza sociale che nel futuro più che prossimo sarà provocata dal numero enorme di persone, bambini compresi, che hanno subito amputazioni. Non riescono neanche ad immaginare, coloro che non sanno spostarsi nel tempo e nello spazio attraverso la compassione, quanto sia immane questa tragedia umanitaria. Con l’accumulo dei disastri, naturali e umani, la povertà indotta di queste genti diverrà una voragine infinita.

I già poveri e gli ormai senza nulla, bambini, donne, giovani e anziani, che sono scampati alla morte, e sono stati calcolati in almeno due milioni, si sono accampati dove hanno potuto e hanno cercato acqua e cibo dove e come hanno potuto.

Chiamare saccheggiatori i disperati affamati, chiamare saccheggiatori i cercatori di candele, perché non c’è luce elettrica fra i disperati, è semplicemente ridicolo, è ridicolo anche se quelle candele verranno rivendute ad altri disperati.

Certo questo non significa far partire una ovazione incoraggiatrice verso le migliaia di persone che sia pur disperate hanno invaso un centro commerciale, portando via tutto quello che potevano.

Né, pur avendo la comprensione per chi, affamato e assetato e non ha avuto altro mezzo per rifocillarsi può essere considerato accettabile che si possa rubare fra le macerie delle case distrutte dal terremoto.

Se poi oltre al cibo e alle candele vengono rubati anche accessori di elettronica o benzina, coloro che cercano di giudicare debbono prima sapere in quale mondo economico loro stessi vivono, e in quale mondo economico pretenderebbero che vivessero i disperati della terra.

Sono figli del vostro mondo economico quei disperati che armati di mazze coltelli, perfino anche semplici pietre hanno assaltato negozi sventrati dal sisma portando via quello che, prima del sisma, era loro permesso solo di vedere in vetrina: giocattoli, borse, vestiario, e quanto fosse rappresentativo di uno status sociale negato.

In una città che appare senza controllo e quindi senza legge non è meravigliante vedere gruppi di uomini armati magari di machete, brandita come la loro legge, pronti a prendere quello che serve e contenderselo con altri gruppi.

Gruppi armati di pistole e fucili mitragliatori sono stati visti girare per la città disastrata in moto. Sono le armi che i detenuti, “salvati” dal sisma, hanno rubato nel carcere raso al suolo dal terremoto.

In queste condizioni è naturale che il governo si renda legalmente visibile emanando leggi di emergenza, anti-caos, che permettano l’utilizzo dei militari (il segretario di Stato Hillary Clinton, che caldeggia l’imposizione del coprifuoco, si è dichiarato pronto a dislocare i militari statunitensi già presenti nell’isola). Del resto il Segretario di Stato USA ha ben presente lo stato delle cose se nell’aereo della Guardia Costiera che la portava ad Haiti erano stipati, per il personale dell’ambasciata USA scorte di acqua, di sapone, di carta igienica, spazzolini da denti ed altri beni di prima necessità. Se queste cose mancano all’ambasciata USA a Port au Prince è immaginabile cosa possa mancare alla popolazione stremata dal sisma?

Quello che preoccupa le autorità locali ed internazionali è il traffico di bambini che si è subito attivato come purtroppo accade ogni volta che un paese povero è colpita da una catastrofe.

Nel mondo, mai limpido, delle adozioni internazionali illegali si annidano i trafficanti di organi. Dopo la catastrofe haitiana si sono scatenati i cercatori di bambini e ne sono scomparsi anche dagli ospedali. Il contrasto dell’UNICEF è impari rispetto agli organizzatori di questo inumano traffico che sanno muoversi proprio nel caos indotto dalle tragedie.

Emblematico è il caso dei dieci cittadini statunitensi arrestati mentre cercavano di attraversare la frontiera con la Repubblica dominicana con 33 bambini di età compresa fra i 2 mesi e i 14 anni. Laura Sillsby, la responsabile di un gruppo religioso battista dell’Idaho, aveva affermato che il governo della Repubblica dominicana li aveva autorizzati a portare i bambini a Cabarete presso un albergo provvisoriamente trasformato in orfanotrofio. Solo che i bambini non sono risultati orfani; alcuni di loro sono stati in grado di fornire il numero di telefono della loro casa e alcuni genitori hanno chiesto la restituzione dei loro figli…

Alla fine sono stati rilasciati perché i bambini erano stati loro affidati da un pastore battista di Port au Prince, al quale i genitori dei bambini, una volta rintracciati, hanno affermato di averli a loro volta a lui affidati.

Se così fosse stato, perché quel doppio affidamento non era stato mostrato all’atto dell’arresto? Lo stato di povertà dei genitori dei piccoli coinvolti in questa bruttissima vicenda getta molte ombre su tutta la storia e soprattutto sul suo finale.

Per settimane il caos nell’organizzazione dei soccorsi è stato il vero coordinatore generale nella martoriata Haiti, e questo nonostante l’invio di 10mila soldati da parte del presidente Obama.

Il motivo dell’invio di un numero così consistente di soldati deriva dal fatto che gli USA ritengono che il governo haitiano non abbia le capacità di affrontare questa catastrofe, ritiene che abbia necessità di aiuto per affrontare anche la necessaria ricostruzione (in Italia ne sappiamo qualcosa circa gli aiuti “pelosini” circa la ricostruzione). Per risolvere la situazione di caos prodottasi nell’aeroporto della capitale, la 82ma Divisione Aviotrasportata ne ha assunto il controllo; anche per organizzare l’arrivo dei soldati statunitensi. Davanti alle coste haitiane ha gettato le ancore una portaerei nucleare: la Carl Vinson che appare come una città galleggiante, dotata anche di un ospedale. È stata anche inviata la nave ospedale Confort con 500 unità di personale sanitario.

Una presenza così massiccia dei militari statunitensi appariva allora eccessiva ad alcuni osservatori stranieri, tanto più ora che il numero dei militari è ulteriormente aumentato; soprattutto perché dal 2004 ad Haiti è presente una Missione internazionale dell’ONU con il compito di stabilizzare il paese.

Il 2004 infatti fu un anno drammatico per Hayti. Il presidente Aristide fu salvato da una folla aggressiva e portato all’estero dalle truppe USAensi; anche se Aristide invece afferma che fu portato via con la forza.

La Missione ha a disposizione 9mila uomini di cui 7mila militari e 2mila poliziotti oltre a volontari ONU e può contare su altre 2mila persone fra personale civile internazionale e locale e volontari ONU.

La Missione è stata voluta dai paesi latino-americani per aiutare Haiti dopo l’allontanamento del presidente Jean Bertrand Aristide.

Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, che aveva prorogato di un anno la Missione nel 2009, ora ha affidato la preparazione della conferenza internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo di Haiti, agli Stati Uniti e alla Francia. La conferenza è prevista per il prossimo mese di marzo.

La sede dell’ONU è stata duramente colpita dal sisma, come molti palazzi governativi della capitale, fra il personale delle Nazioni Unite vi sono state gravi perdite.

L’implementazione del personale dell’ONU sarebbe stata la scelta tattica e strategica più opportuna. Infatti già è in atto l’implementazione del personale delle Nazioni Unite.

Non deve apparire strano se l’arrivo, deciso unilateralmente, di 12.500 militari statunitensi sull’isola disastrata, (ma circolano notizie che il loro numero sia in realtà molto più grande) sia destinato a generare dubbi e a risvegliare il ricordo degli avvenimenti che proprio su quell’isola hanno avuto come attori principali le truppe statunitensi.

14 gennaio 2010, da Washington al portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs, in un incontro con gli organi di informazione, è stato chiesto se gli USA non siano in questo momento di fatto responsabili di Haiti, ha risposto che Haiti è governato dal suo governo sovrano, ha aggiunto anche che: Deve essere ben chiaro che è il governo haitiano che ha il controllo di Haiti. Sui motivi che hanno spinto gli USA a questa operazione militare che sarà destinata ad aprire polemiche il portavoce Gibbs ha così risposto: il presidente Obama ha comunque sottolineato la necessità di mostrare la leadership degli Stati Uniti nel rispondere ad un disastro avvenuto così vicino a noi.

Nella stessa giornata il Dipartimento di Stato USA, rispondendo agli allarmi provenienti da più parti in ambito internazionale, ha tenuto a sottolineare che l’impegno e la presenza americana ad Haiti non significano per alcun motivo che gli Stati Uniti vogliano temporaneamente assumere il controllo del Paese.

Nella stessa giornata anche il portavoce del ministero degli esteri, Charles Luoma-Overstreet, ha sentito la necessità di dichiarare che non vi può essere alcun dubbio che: il presidente René Preval è a tutti gli effetti il presidente in carica… Quello in corso ad Haiti è uno sforzo multilaterale internazionale per cercare di portare soccorso ad un Paese che è stato colpito in profondità. (lanci Ansa pari data)

Il 15 gennaio 2010 il Pentagono comunica di aver nominato il generale P.K. Keen, vice direttore del Southern Command, comandante della task force congiunta dedicata a Haiti di cui fanno parte tra l’altro oltre duemila Marines di Camp Lejeune. Il generale a tre stelle dovrà coordinare quella che si prospetta come la più grande e difficile operazione umanitaria degli Stati Uniti negli ultimi anni.

Il Wall Street Journal scrive che il generale si trova già ad Haiti e dovrà coordinare la mezza dozzina di navi e i circa ottomila militari USA coinvolti per terra o per mare nei soccorsi. E il giornale riporta una dichiarazione del Dipartimento di Stato, a tre giorni dalla catastrofe, che va registrata e noi la registreremo, la dichiarazione è la seguente: Il generale prenderà ordini da Kenneth Martin, l’ambasciatore americano a Port au Prince… Le truppe Usa opereranno in stretta collaborazione con la presenza Onu nel paese, forte di circa novemila uomini, ma resteranno unicamente sotto il comando americano.

Se già dal secondo giorno dopo il disastro, alla richiesta di chiarimenti circa le modalità della presenza militare USA ad Haiti, queste sono le reazioni impacciate della Casa Bianca, del dipartimento di Stato e del ministero degli Esteri; se già dal terzo giorno inizia quel corposo dispiegamento di forze militari sul territorio haitiano che saranno sotto il comando dell’ambasciatore USA a Port au Prince e che non verranno coordinate dall’ONU, ma “collaboreranno” con l’ONU, chiunque abbia dimestichezza con il mondo diplomatico sente puzza di bruciato. Poi magari, essendo un diplomatico, non fa polvere, ma qualche indagine per conto suo certamente la farà.

Il 18 gennaio 2010 il presidente del Venezuela Hugo Chavez nel corso del suo programma radiotelevisivo Alò Presidente, che va in onda la domenica, ha accusato gli Stati Uniti di approfittare della catastrofe per occupare Haiti.

Ho letto dell’arrivo di 3 mila militari americani, marines armati di tutto punto come se stessero in guerra, certo che non mancano i fucili lì, ma gli Usa dovrebbero invece mandare farmaci, carburante, ospedali da campo, è questo che serve.

Stanno occupando Haiti senza darlo a vedere, e per di più non è che vadano in giro a raccogliere cadaveri o a cercare feriti, io non ne ho visti.

Queste sono state alcune delle sue dichiarazioni che però, ha sottolineato, non vogliono misconoscere lo sforzo umanitario degli Stati Uniti ma solo mettere in discussione la loro presenza militare sull’isola. (lancio Ansa pari data)

Il 18 gennaio 2010, Alain Joyandet, segretario di stato francese alla cooperazione, di ritorno da una missione ad Haiti, è stato intervistato da radio Europe 1 ed ha ritenuto necessario fare dichiarazioni precise sulla presenza militare degli USA ad Haiti.

Il ruolo degli Stati Uniti, che di fatto garantiscono il coordinamento dei soccorsi ad Haiti e controllano l’aeroporto di Port-au-Prince, deve essere precisato dall’Onu, ha detto. Si tratta di aiutare Haiti, non di occuparla, si tratta di fare in modo che Haiti possa riprendere vita, ha ancora affermato. (lancio Ansa pari data)

Nella nottata del 18 gennaio 2010 il ministro della Difesa USA, Robert Gates, in volo verso l’India; evidentemente al corrente delle dichiarazioni francesi e venezuelane e comunque degli interrogativi provenienti dalla comunità internazionale, circa la corposa presenza militare statunitense sull’isola, ha ritenuto di dover rilasciare delle dichiarazioni.

Riferendosi alle regole di ingaggio delle migliaia di soldati americani coinvolti nei soccorsi, ha detto che i soldati USA ad Haiti pur non avendo compiti stretti di polizia, avranno comunque un ruolo nel mantenimento dell’ordine, “Fino a che non saremo in grado di avere ad Haiti ampie scorte di cibo e di acqua per la popolazione, la preoccupazione è che la disperazione si traduca in violenza. I militari statunitensi presenti ad Haiti hanno, come sempre in caso di dislocamento, l’autorità e il diritto di difendersi e quella di difendere i cittadini haitiani innocenti e membri della comunità internazionale in pericolo. Lavoreremo con l’Onu per assicurare che la situazione della sicurezza resti buona”. (lancio Ansa pari data)

Il 21 gennaio 2010, il Primo ministro haitiano Jean-Max Bellerive è stato intervistato dalla radio francese RTL relativamente al dispiegamento militare degli USA ad Haiti, dispiegamento che ha provocato le critiche di alcuni paesi, primi fra tutti, il Venezuela e la Bolivia.

Assicurando che i militari USA sono lì giunti su richiesta delle autorità haitiane, ha detto:

È chiaro che gli americani sono qui su nostra richiesta e che sono qui solo per assisterci nei nostri bisogni umanitari o di sicurezza, per esempio nel trasporto di fondi.

Concordando che anche altri paesi potrebbero mandare i loro eserciti, ha detto:

Tutti sono d’accordo nel dire che gli aiuti dei diversi eserciti, in un quadro controllato e concertato, e nell’ambito di un dialogo, sono i benvenuti ad Haiti.

Circa la quantità dei militari statunitensi che arriveranno nell’isola, ha informato che:

Gli Stati Uniti hanno previsto di inviare 4.000 soldati supplementari sull’isola, portando a 15.000 i loro effettivi che partecipano alle operazioni di soccorso.

Sempre nella stessa giornata il quotidiano francese Libération ha pubblicato le dichiarazioni rilasciate dal presidente haitiano René Preval sull’argomento della presenza militare statunitense.

Haiti non è sotto tutela, si è premurato di assicurare. Quanto ai compiti dei militari statunitensi ha precisato che: sono soldati del genio, ingegneri, medici e altri che possono garantire la protezione dei trasporti e dei lavori. Quanto alla visita del Segretario di stato USA ad Haiti, ha dichiarato: Hillary Clinton è venuta in settimana e mi ha chiesto se sarei stato d’accordo che i militari americani dei corpi speciali che ho elencato venissero ad aiutarci. Io le ho detto si. Relativamente alle critiche provenienti da diversi paesi, invece, ha detto: Non abbiamo problemi né blocchi ideologici al ricevere anche l’aiuto dei venezuelani, dei cubani o dei francesi. (lanci Ansa pari data)

Peccato che l’indomani lo stesso presidente René Preval ha dichiarato a Guido Bertolaso a capo del dipartimento della Protezione Civile in Italia: Qui non si capisce chi fa che cosa. Smentendo con questa sola frase le dichiarazioni del giorno precedente.

Bertolaso che si trovava ad Haiti per mettere la sua esperienza a disposizione di chi voleva organizzare un efficace coordinamento degli aiuti, sembrerebbe aver molto disturbato il manovratore, che stava facendo tutt’altro, se ha potuto mettere in discussione la capacità organizzativa di tutto il dispiegamento di forze militari statunitensi ad Haiti. Bertolaso è stato intervistato dalla giornalista Lucia Annunziata e nel corso della trasmissione “In mezzora”, ha dichiarato che la macchina dei soccorsi statunitense non raggiunge risultati perché ci sono troppe stellette. Il gigantesco impianto di aiuti dispiegato dagli USA appare scollegato dalla realtà e dal territorio, ha affermato durante la trasmissione. Ci sono troppe sfilate di fronte alle telecamere e pochi che si rimboccano le maniche ha detto, praticamente, Bertolaso, precisando che gli americani sono straordinari. Però, quando c’è da fronteggiare una situazione emergenziale, “tendono a confondere l’intervento militare con quello che deve essere un intervento di emergenza, che non può essere affidato alle forze armate. A loro manca una testa, una capacità di coordinamento che vada sopra quella che è l’organizzazione, la disciplina, le procedure militari. Insomma, alla macchina degli Stati Uniti manca un capo che sia un civile. E per chiudere questo ragionamento Bertolaso usa una definizione tranciante: nell’intervento Usa si sono affidati troppo alle stellette “quando invece” avrebbero avuto bisogno di un Obama dell’emergenza. (lancio Ansa del 24 gennaio 2010)

Logico che il Segretario di Stato USA non abbia gradito e che se ne sia lamentata molto in alto, perché sia la dichiarazione di René Preval a Guido Bertolaso che le stesse dichiarazioni di Bertolaso erano equivalenti al bimbo che, libero di esprimersi, gridava che il Re era nudo: tutti lo vedevano ma nessuno lo voleva dire.

Lascio che chi legge si faccia un’idea, la più possibile personale, sulla prontezza reattiva mediatica sia del Primo ministro che del presidente della Repubblica di Haiti. Vorrei solo sottolineare che la Repubblica di Haiti nel dicembre del 1941 dichiarava guerra alle nazioni dell’Asse: cioè dichiarava guerra alla Germania, al Giappone e all’Italia; ed è notorio, sperando che si noti la sottilità informativa, che Haiti è il paese più ricco del mondo e il più armato; tanto da ritenere che le cancellerie dei paesi dell’Asse in quel dicembre del 1941 siano state messe urgentemente all’erta per cercare di evitare lo scontro militare.

Con questo, fuori metafora, voglio dire che come, appena dopo le critiche, da molti paesi giunte per la dichiarata umanitaria occupazione militare di Haiti da parte degli USA, le due principali autorità haitiane si sono lanciate a giustificarla, senza essere state spinte a farlo; così specularmente è avvenuto che Haiti nel dicembre del 1941, senza essere stata spinta a farlo, ha dichiarato guerra all’Asse appena dopo che gli Stati Uniti, avendo “subito” l’attacco a Pearl Harbor, nell’Oceano Pacifico, da parte dei Giapponesi, “inaspettatamente”, si ritrovarono in guerra anche con le altre due potenze dell’Asse di cui il Giappone faceva parte.

Nella mattinata del 22 gennaio 2010, a Mosca, durante una conferenza stampa, un giornalista ha chiesto al ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov, cosa ne pensasse della presenza militare statunitense sull’isola di Haiti. Il ministro ha risposto così: “Parto dal presupposto che nessuno abuserà della situazione creatasi adesso per raggiungere qualche altro obiettivo che non sia la prestazione di aiuto al popolo haitiano” (lancio Ansa pari data)

Il 22 gennaio 2010 la stampa viene informata dall’ambasciatore USA presso il Palazzo di Vetro, Susan Rice, che fra l’ONU e gli USA è stato firmato un accordo finalizzato al coordinamento degli aiuti alla popolazione terremotata di Haiti. Questo documento, ha detto l’ambasciatore, formalizza i rapporti che Usa e Nazioni Unite hanno sul terreno e assicura che questa collaborazione continui nei giorni e nelle settimane a venire.sono le Nazioni Unite a coordinare la risposta internazionale al terremoto haitiano, inoltre Poiché nei giorni scorsi sia sull’isola di Haiti che al Palazzo di Vetro si erano verificate frizioni tra i militari statunitensi e i funzionari dell’ONU relative alle operazioni di soccorso spesso prive di organizzazione e senza linee guida precise, nell’accordo sottoscritto viene precisato che:

Anche al governo di Port-au-Prince, comunque, viene riconosciuta la responsabilità principale nei settori di soccorso, sicurezza e ricostruzione. Il documento sottoscritto ed è la chiave interpretativa (giornalistica) del cosiddetto accordo precisa che le operazioni militari degli Stati Uniti (che hanno mandato 13 mila soldati tra personale sbarcato a terra e sulle navi) e dell’Onu (che ha da poco autorizzato il dispiegamento complessivo di 12.651 uomini) rimangono distinte.

Nella mattinata del 24 gennaio 2010, Fidel Castro ha utilizzato il sito ufficiale di Cuba nel web, Cubadebate.cu, per criticare il dispiegamento di migliaia di marines e di truppe aviotrasportate della 82a divisione aviotrasportata statunitensi ad Haiti. Fidel Castro ha anche deplorato il silenzio dell’ONU sull’occupazione militare statunitense che ritiene sia destinata a complicare di più la situazione. Per di più, Fidel Castro si chiede come mai né gli USA né l’ONU abbiano ritenuto necessario fornire spiegazioni sull’incomprensibile presenza di militari statunitensi sull’isola.

Entro il 24 gennaio si ritiene che il numero dei militari USA presenti Haiti dovrebbe raggiungere il numero di 20mila. La Bolivia e il Venezuela hanno già aspramente criticato quanto sta avvenendo nel territorio haitiano. Quanto all’afflusso di militari di altri paesi nell’area (e qui Fidel Castro sembra essere al corrente delle dichiarazioni del presidente haitiano circa il via libera all’arrivo delle truppe di altri paesi, purché in un quadro controllato e concertato, e nell’ambito di un dialogo, come ha dichiarato il presidente haitiano René Preval al quotidiano francese Libération) il dirigente cubano ritiene che l’afflusso di altri soldati da parte di molti paesi non farà che rendere ancora più caotica la situazione. Bisogna esaminare la situazione e dare all’ONU il ruolo di gestione che gli spetta, ha detto ancora il dirigente cubano che ha anche lodato la condotta etica del suo paese che ha mandato ad Haiti medicine e non soldati ed ha aperto il suo spazio aereo all’aviazione statunitense per permettere un più rapido arrivo degli aiuti. (lancio Ansa pari data)

Il 27 gennaio 2010 sul quotidiano cileno El mercurio di Santiago del Cile è stata pubblicata un’intervista al decano degli ambasciatori a Port au Prince, l’ambasciatore cileno Marcel Young. In questa intervista l’ambasciatore si toglie qualche sassolino cileno dalla scarpa haitiana: Le truppe Usa hanno dimenticato che Haiti è un Paese sovrano ed hanno mostrato una aggressività non necessaria… Il loro arrivo è stato troppo imponente. Sebbene sia stato positivo quanto hanno fatto per ristabilire il traffico aereo, a livello di presenza militare la loro dimostrazione di forza è stata eccessiva. Quindi l’ambasciatore si lamenta: Stando ai si dice, le truppe Usa avrebbero deviato quattro voli con carichi di medicinali e beni umanitari e aggiunge: È un atteggiamento che ci preoccupa, poiché loro stessi hanno fissato i criteri. Tant’è che la Francia si è lamentata. Ma mi sembra che stanno cambiando tale modo di fare. (lancio Ansa pari data)

Ho voluto mettere a disposizione dei lettori un esempio di lanci di informazione Ansa dal 14 al 27 gennaio u.s. L’obiettivo è quello di rendere visibile l’incontestabile militarizzazione degli aiuti ad opera di un solo paese, gli Stati Uniti d’America del nord. Le polemiche sulla leadership degli aiuti ci informano che dietro la questione già drammatica che coinvolge almeno tre milioni di persone nell’intero territorio haitiano si intravede qualcosa d’altro che varrebbe la pena di cercare di approfondire.

Intanto cerchiamo di capire che cosa esattamente è accaduto ad Hayti alle 16:53 di quel tragico 12 gennaio 2010. Secondo il sismologo Antonio Piersanti, che lavora presso l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, il terremoto di Hayti, che ha avuto una magnitudo di 7.0 misurata sulla scala Richter, non è da considerarsi di per sé eccezionale; in quanto almeno una diecina di terremoti di questa magnitudo (7.0) sono registrati nel mondo ogni anno. La particolarità è da identificarsi nel fatto che l’energia che ha scatenato il terremoto si è generata al confine di due placche, quella caraibica e quella nordamericana. La rottura è avvenuta fra due aree di subduzione ravvicinate. Le aree, o zone, di subduzione sono quelle dove una delle due placche ravvicinate tende a scivolare sotto l’altra. Quando una delle due placche procede ad una velocità diversa dall’altra può provocare la rottura della crosta terrestre sovrastante. Ed è quello che è accaduto ad Hayti perché le placca caraibica “viaggia” ad una velocità di 20 millimetri all’anno mentre quella nordamericana viaggia ad una velocità di 7 millimetri all’anno. Il sistema di faglia che ha generato la rottura di vaste dimensioni, e quindi il terremoto, si trova proprio sotto l’area di crosta terrestre sulla quale è stata costruita la città di Port au Prince.

Questa rottura può essersi estesa fino a 50 chilometri.

La singolarità del terremoto che ha distrutto la capitale di Haiti deriva dalla circostanza che non è attribuibile allo stesso tipo di faglia che ha provocato i terremoti che hanno colpito Port au Prince nel 1751 e nel 1771, distruggendola completamente. I sismologi da tempo ci dicono che il fondo della baia di La Gonâve è collocato sul bordo della faglia caraibica.

Eppure il sismologo italiano ci informa che è una nuova faglia quella che ha provocato il terremoto che ha avuto conseguenze pesantemente distruttive avendo interessato un territorio che ha una densità altissima di popolazione, che vive in edifici costruiti con materiali di bassa qualità e quindi con basso grado di stabilità.

Dunque, un sismologo ci fa sapere che il terremoto che ha distrutto la città di Port au Prince è singolare e indica la formazione di una faglia nuova di zecca. E questa faglia nuova di zecca si va a formare, così sembrerebbe, lungo il fondale profondo della baia del golfo di Gonâve perfettamente longitudinale, nelle sue profondità, alla costa della baia per una ampiezza che collega Port au Prince, Léogâne e Grand Goâve, tutte e tre appunto duramente colpite dallo stesso terremoto, cioè dalla formazione della stessa nuova faglia. Lì sotto, dentro la baia, nelle profondità del mare, a picco sotto il limite della costa a sud, a 10 chilometri di profondità è accaduto qualcosa. Questo qualcosa si è riverberato sulla costa opposta della penisola che si prolunga verso ovest, sulla città portuale di Jacmel che si trova grosso modo alla stessa altezza di Léogâne. Se colleghiamo le città di Port au Prince, Léogâne, Grand Goâve e Jacmel con una linea costruiamo un quadrilatero. Fra Jacmel che si trova sulla costa caraibica e le altre tre città che si trovano all’interno della baia, nella sua parte sud, si trovano rilievi montuosi. L’ipocentro in un primo momento veniva indicato proprio sotto Jacmel, poi veniva indicato sotto Léogâne, poi ancora sotto Grand Goâve e infine è stato deciso che l’ipocentro si trovava proprio sotto l'area della capitale Haitiana.

Dal sito dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia veniamo informati che l’epicentro del terremoto che si è verificato nel distretto sismico della regione di Haiti ed è avvenuto ad una profondità di 10 chilometri, quindi è un evento molto vicino alla superficie e in grado di provocare gravi danni alle costruzioni. Esattamente dunque l’ipocentro si trova ad una profondità di 10 chilometri e a 15 km a sud-ovest di Port au Prince (che si trova in fondo alla baia di La Gonâve), a 140 km ad est di Les Cayes (che si trova sulla costa sud della penisola che si protende da Haiti verso l’isola Jamaica, di fronte all’isola Vache), a 145 km a ovest-nord-ovest del porto commerciale di Barahona (che si trova nella parte sud di Santo Domingo nella parte iniziale est della penisola che si appuntisce con capo Beata). Di fronte a Barahona si apre il mar dei Caraibi e dalla parte opposta si trova Las Salinas nella Baia Ocoa.

Se, come abbiamo fatto qualche riga fa, colleghiamo queste tre località avremo costruito un triangolo, se poi siamo in grado di misurare la lunghezza esatta dei lati che collegano questi tre punti, saremo anche in grado di definire la misura della piramide triangolare rovesciata che ci aiuterà a posizionare l’ipocentro.

Ora dobbiamo immaginare che al disotto del piano della cartina geografica, che il lettore dovrebbe avere o avrà appena possibile sott’occhio, identifichiamo il punto indicato dalle coordinate prima rilevate. Scopriremo che il vertice della piramide triangolare rovesciata, è il punto ipocentrale del terremoto (nella verticale esatta dell'epicentro); e quel punto è quello che ha avuto lo scatenamento della massima energia; quello cioè dove le due placche si sono scontrate, provocando una nuova faglia.

Questo significa che, se vogliamo comprendere qualcosa di questo avvenimento, non dobbiamo posizionarci nelle profondità marine della baia del Golfo di La Gonâve, ma nelle profondità marine di fronte alla costa sud della penisola, esattamente nell’area sottomarina che si trova fra Jacmel e Belle Anse.

Per adesso fermiamoci qui, anche perché il lettore si troverà in pieno affaticamento mentale, e riprendiamo la raccolta delle informazioni su questa drammatica vicenda.

Nelle prossime righe il lettore affaticato comprenderà il perché di questa dissertazione sulle coordinate ipocentriche del sisma.

Entra ancora in campo il presidente venezuelano Hugo Chavez, il quale secondo il quotidiano Russia Today ha dichiarato che la serie di terremoti che si sono verificati nell’area dei carabi, compreso quello che ha colpito Haiti, potrebbero essere stati provocati da esperimenti effettuati dagli Stati Uniti. Il Venezuela, la Bolivia e il Nicaragua avrebbero chiesto la convocazione urgente del consiglio di sicurezza, oltre che per quella che ritengono una occupazione militare di Haiti da parte degli USA, discutendo anche della possibilità che gli USA abbiano anche la responsabilità di aver provocato quello stesso terremoto.

Il Pentagono, il 26 aprile 2008, ha comunicato che dal 1 luglio di quello stesso anno sarebbe stata ricostituita la quarta flotta che era stata costituita nel 1943 per contrastare la minaccia dei sommergibili nazisti nel Sud America e nei Carabi, e quindi sciolta nel 1950. Il comando della flotta ricostituita, ha inoltre comunicato il Pentagono, sarebbe stato assegnato al contrammiraglio Joseph D. Kernan, che è a capo del comando della Guerra speciale navale. La flotta, che sarà costituita da una portaerei, un sommergibile e dieci navi, avrà la sua base nel porto di Mayport in Florida (non così distante da Haiti).

Questo quasi due anni fa. Non fa quindi meraviglia se veniamo a sapere che la flotta russa dal luglio 2008, riprendendo le esercitazioni della sua flotta, ha messo sotto osservazione le attività navali (sopra e sotto la superficie del mare) degli Stati Uniti nell’Atlantico centrale e meridionale.

Si rimane perplessi, ma attenti, se la tv venezuelana ViveTv, ci informa che, secondo un rapporto della Flotta russa del Nord, il terremoto che ha colpito la capitale di Haiti è il risultato di un test, da parte della U.S. Navy, della sua arma sismica”. Ancora secondo questo rapporto, gli Stati Uniti sarebbero a buon punto nelle loro ricerche sull’utilizzo militare delle armi sismiche che si basano, sempre secondo il rapporto, su generatori di impulsi (al plasma e a risonanza), utilizzati in concomitanza con bombe che scatenano potenti onde d’urto. Il terremoto di Haiti sarebbe un secondo esperimento effettuato dalla flotta USA e, sempre secondo il rapporto, gli effetti sul territorio sovrastante di Haiti sarebbero stati previsti, nel caso di un mancato controllo dell’intensità degli impulsi e delle esplosioni di bombe d’onda concomitanti. (Io che non sono anti nulla, per essenza costitutiva vitale, vorrei che questo fosse dimostrato non vero, perché se invece fosse dimostrato vero io porterei i responsabili di questa immondizia morale di fronte al consesso dei mondi) Il rapporto afferma inoltre che il sistema considerato ancora in fase sperimentale denominato Haarp (High Frequency Active Auroral Research Program) sia anche in grado di produrre cambiamenti localizzati del clima scatenando inondazioni e uragani, ma anche impedire le piogge fino alla siccità.

Se è vero come quanto viene dichiarato nel rapporto che quando nella stessa faglia la profondità ipocentrica dei terremoti è linearmente identica nella stessa faglia, significa che quei terremoti sono provocati da una proiezione lineare di frequenze indotte e questo è tanto più vero se i terremoti sono di tipo superficiale. Se dunque, nel caso e nella geoarea presi in osservazione, i terremoti provocati artificialmente si dipartono da una profondità di 10 km, allora va considerato che il terremoto che ha colpito l’Honduras il 28 maggio 2009 (magnitudo 7.1 scala Richter), ha avuto il suo scatenamento ipocentrale a 10 km di profondità come quello che ha colpito Haiti. E la circostanza dell’allineamento geografico fra la posizione dell’Honduras e l’orientamento leggermente obliquo verso sud della fascia terremotata rispetto a quello della lunga proboscide di Haiti, quasi volesse essere una freccia di 50 km indicante, dovrebbe dare qualche informazione in più circa la nuova faglia che ha scatenato il finimondo. (È come se, parafrasando un nostro adagio favolante chi fa questo, se veramente fa questo, dicesse a qualcun altro: allarga la faglia che stretta era, fate la vostra che ho fatto la mia)

Quanto alla presenza di unità navali statunitensi nei dintorni di Haiti, proprio nei giorni del terremoto, non dovrebbe di per sé essere considerato anomalo, vista la vicinanza alla Florida, a Cuba e al Canale di Panama. Quindi dovremmo avere altre circostanze considerabili anomale per inserire la presenza dei militari USAensi in un contesto non logico e quindi creante dubbi.

Ritengo che sia corretto non essere anti qualcuno per principio.

Sul sito francese della Réseau Voltaire International (http://www.voltairenet.org), un organo web di informazione non allineato, specializzato in relazioni internazionali, è apparso un articolo in data 22 gennaio 2010 dal titolo: Gli Stati Uniti hanno provocato il terremoto di Haiti? Che provocava molte polemiche. Thierry Meyssan, fondatore e presidente del sito e analista politico, rispondeva alle polemiche pubblicandolo: Haiti e l’arma sismica, nel quale viene ripreso l’argomento dell’esistenza o meno dell’arma sismica di cui abbiamo prima accennato. È un articolo del quale consiglio la lettura, anche perché il sito è multilingue e, se avete difficoltà con il francese, potete selezionare il testo in lingua italiana.

Le righe che seguono hanno come sfondo proprio il secondo articolo, mentre quelle precedenti hanno come sfondo il primo.

Lo studio sulle armi sismiche ha avuto inizio durante la seconda guerra mondiale in Nuova Zelanda. Si cercava il sistema per creare tsunami artificiali da utilizzare contro il Giappone. Alcuni esperimenti ebbero successo e quindi gli studi furono ripresi nel dopo guerra in funzione anti-sovietica. L’interesse militare di queste ricerche e delle prime realizzazioni fu consequenziale. Quindi non deve apparire strano che, in segreto, su questo tipo di arma che si mostrava in grado non solo di provocare terremoti ma anche di provocare modificazioni climatiche localizzate, si sia acceso l’interesse delle super potenze, e non solo. Il silenzio divenne uno strillo quando a New York il 18 dicembre 1976 veniva approvata la Convenzione sul divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente a fini militari ed ad altro scopo ostile. Ma il vero strillo lo facciamo noi oggi nel 2010, dopo tutto quanto è accaduto da allora quanto ad eventi disastrosi su scala planetaria, nel prendere conoscenza di parte della premessa e dell’articolo 1 della convenzione.

Gli Stati parti della presente Convenzione

riconoscendo che il progresso della scienza e della tecnica può aprire delle nuove possibilità per quanto riguarda la modificazione dell’ambiente,

… consci del fatto che l’utilizzazione delle tecniche di modifica dell’ambiente a fini pacifici potrebbe migliorare i rapporti fra l’uomo e la natura e contribuire a proteggere ed a migliorare l’ambiente per il bene delle generazioni presenti e future,

riconoscendo, tuttavia, che l’utilizzazione di tali tecniche a fini militari o ad ogni altro scopo ostile potrebbe avere degli effetti estremamente pregiudizievoli per il benessere dell’uomo,

desiderosi di vietare efficacemente l’utilizzazione di tecniche di modifica dell’ambiente a fini militari o ad ogni altro scopo ostile, al fine di eliminare i pericoli che tale utilizzazione presenta per l’umanità ed affermando la loro volontà di operare per la realizzazione di tale obiettivo,…

hanno convenuto quanto segue

art. 1 Ogni Stato parte della presente Convenzione si impegna a non utilizzare a fini militari o ad ogni altro scopo ostile, tecniche di modifica dell’ambiente che abbiano effetti diffusi, durevoli o gravi, in quanto mezzi che causano distruzioni, danni, pregiudizi ad ogni altro Stato parte.

Dunque è tutto vero. Le armi sismiche e quelle in grado di modificare l’ambiente non sono l’invenzione di qualche esaltato webviaggiatore. Non solo ma il dubbio che atrocemente paventa il vero che siano state utilizzate nei tempi recenti queste armi contro l’umanità, come se quella convenzione del 1976 non l’avesse firmata nessuno.

Quando l’Unione sovietica si è lacerata, molti risultati delle ricerche scientifiche in campo militare, presero la strada (ben retribuita) dei centri di ricerca USAensi. Anche la macchina chiamata Pamir percorse quella strada. Gli scienziati sovietici studiarono il modo di produrre piccoli terremoti perché scaricando l’energia accumulata ritenevano di poter evitare il prodursi di grandi terremoti. Come si fa con gli incendi di grandi dimensioni; si appiccano fuochi più piccoli che hanno lo scopo di impedire l’ulteriore estensione del grande incendio. Ecco perché l’esistenza di quel rapporto dell’esercito russo cui ha accennato la venezuelana ViveTv, è altamente credibile.

Qualcuno sta giocando con la Magneto Hydro Dinamica e con gli impulsi vibratori ad alta potenza e rischia di innescare un processo, inarrestabile, di veloce modificazione del clima. Qualcuno sta giocando all’apprendista stregone.

Se le operazioni umanitarie USA hanno richiesto di mettere in campo un così gran numero di militari (superando i 10mila) e tutti messi sotto il comando dell’ambasciatore USA a Port au Prince e non sotto il comando ONU; se l’ambasciata degli Stati Uniti nella capitale Haitiana è stata costruita con modernissimi sistemi antisismici; se il generale PK Keen della United States Southern Command (USSOUTHCOM) era ad Haiti per partecipare alla simulazione di una operazione umanitaria dopo un uragano, se il generale Keen e il suo gruppo militare di intervento erano già ad Haiti da qualche giorno prima che si scatenasse il terremoto, se mentre si scatenava il terremoto il generale Keen e i suoi uomini erano al sicuro in ambasciata; se in nessuna circostanza mediatica il generale Keen ha motivato la sua presenza ad Haiti, significa che i molti paesi che hanno espresso dubbi sulla presenza “tempestiva” ed “eccessiva” dei militari USAensi nell’isola non hanno parlato girando a vuoto.

Queste accuse agli USA, circa il grave disastro haitiano, – tralasciando il terremoto che si è scatenato nel Sichuan in territorio cinese, il 12 maggio 2008, memorizzato perché mezz’ora prima del terremoto il cielo di Sichuan appariva stranamente colorato –, mi riportano alla mente le stesse accuse che gli USA avevano ricevuto in occasione del disastroso Tsunami che aveva colpito il Golfo del Bengala, il 26 dicembre del 2004. L’Indonesia aveva rinunciato al conteggio preciso dei morti che, nell’ultimo giorno di quell’anno da ricordare, già assommavano a 100.000. Dovunque i morti venivano bruciati e spesso non venivano neanche identificati. La stessa sorte era stata riservata ai corpi degli occidentali. Di moltissimi di loro non si saprà più nulla. I morti ufficiali furono calcolati in circa 350mila.

Noi prevarremo” aveva dichiarato il Presidente degli Stati Uniti in una conferenza stampa improvvisata dopo quattro giorni dalla catastrofe asiatica. Dal suo ranch a Crawford nel Texas è stato costretto ad intervenire sia per una lapidaria accusa di disinteresse del Washington Post, che lo ha accusato di essere l’unico leader mondiale che se ne stava in vacanza mentre il mondo intero era in lutto, sia a causa di una precisa accusa di avarizia rivolta agli USA dal coordinatore ONU dei soccorsi Jan Egeland.

In quei giorni tremendi si erano viste famiglie asiatiche aiutare gli occidentali in difficoltà, dividendo con loro la loro povertà. Una risposta dignitosa e bellissima al turismo sessuale e pedofilo, che in quelle aree contribuisce, anche nel caldo sud-est della terra, a butterare le giovanissime anime asiatiche; un turismo crudele che è stato duramente colpito dalle onde rotanti. In quelle condizioni catastrofiche così simili a quelle della disperata Haiti, si sono dovute registrare le improvvide e pelose ricerche di adozioni da parte di un occidente che non è più in grado di sfornare bambini. E come possiamo minimizzare il rapimento di bambini da parte di criminali che lì, allora, come qui ad Haiti, approfittavano e approfittano delle tremende catastrofi per allestire supermercati privati di vendita di organi umani.

E l’India che assieme agli altri Paesi asiatici colpiti stava ricevendo massicci e pronti aiuti dalla Cina e dalla Russia, fece sapere di non gradire la presenza degli occidentali nel suo territorio. (Una delle aree colpite, a ridosso del Golfo del Bengala, è per l’India una vasta zona militare) E si sa che gli USA hanno sempre perfettamente connesso gli aiuti umanitari con lo spionaggio. (Comprensibile quindi) Un evento che ha innalzato un muro di dubbi sulla sua reale causa. Allora ci spiegarono, in modo affannoso, che il terremoto, a sua volta causa delle onde rotanti, è stato innescato da uno spostamento della faglia asiatica nel fondo del Golfo del Bengala. Ma allora perché le onde smosse da un sommovimento sottomarino non hanno assunto una forma circolare e sono invece state spinte in direzione ovest-nord-ovest, colpendo, per immediata contrapposizione, le retrostanti coste dell’Indonesia e non colpendo le coste occidentali dell’Australia che si trova a 4.000 chilometri dal punto di innesco di quello specifico Tsunami e colpendo invece le coste delle Maldive distanti 2.000 chilometri, e quelle della Somalia e del Kenia distanti 5.500 chilometri. Che cosa è veramente avvenuto nei fondali del Golfo del Bengala. Che cosa è veramente avvenuto nei fondali Caraibici, a sud di Haiti.

Come può un portatore di umanità, che si sia trovato di fronte alle immagini di morte e disperazione provenienti dalle terre che un tempo lontano erano un paradiso, non provare un senso di angoscia e nello stesso tempo di grande compassione. Come può un osservatore non registrare che, ancora una volta, la razza nera si trova fra gli ultimi del mondo. Riusciremo mai a colmare l’abisso di ingiustizia che è stato creato dagli uomini sulla terra?

Africa

cuore della Terra

cuore mio

se non avessi accettato

i costumi dei tuoi nemici

oggi

i tuoi uomini e le tue donne

sarebbero i migliori della Terra

ma non temere

anche per te

l'atteso giungerà

dove e quando

nessuno lo aspetterà

Africa

cuore della Terra

cuore mio

 

Alberto Roccatano

23 febbraio 2010

per www.nexusedizioni.it

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