In questa gerarchia, che potrebbe essere prolungata da entrambi i lati, quella globalità individuale (cellula, organo, uomo) è sempre in conflitto tra vita personale e subordinazione agli interessi dell’unità superiore. Ogni struttura complessa (umanità, stato, organo) fa in modo che possibilmente tutte le parti siano subordinate all’idea comune e la servano. Ogni sistema di norma tollera la fuoriuscita di alcuni (pochi) membri senza essere messo in pericolo come globalità. C’è però un limite superando il quale la totalità viene minacciata nella sua esistenza.
Il cancro non è un evento isolato che si presenta soltanto nelle forme patologiche note a tutti e che da lui prendono il nome: nel cancro troviamo un processo intelligente e molto differenziato, che occupa l’uomo su tutti i piani.
In quasi tutte le altre malattie, il corpo cerca di fronteggiare con mezzi adatti le difficoltà che minacciano una funzione. Nel caso del cancro ci troviamo però di fronte a qualcosa di fondamentalmente diverso: il corpo assiste al progressivo cambiamento del comportamento delle proprie cellule, le quali iniziano un processo di divisione che in sé non porta ad alcuna fine, ma che trova una fine nell’esaurimento del terreno di coltura. La cellula cancerosa non è, come un virus o un batterio, qualcosa che viene da fuori, ma è una cellula che finora ha messo tutta la sua attività al servizio dell’organo e quindi dell’intero organismo, in modo da aiutarlo nella sua sopravvivenza. Poi di colpo questa cellula ha cambiato i suoi intendimenti e abbandonato l’identificazione comune. Comincia a perseguire scopi propri e a realizzarli senza preoccuparsi d’altro. Pone fine alla sua normale attività di servizio specifico ad un organo e mette in prima linea la propria moltiplicazione. Non si comporta più come membro di un essere vivente dalle molte cellule, ma regredisce al livello precedente di esistenza. Prende le distanze dalle cellule, sue simili e si diffonde rapidamente e senza riguardo alcuno con una caotica moltiplicazione, trascurando tutti i confini morfologici (infiltrazione) ed edificando ovunque basi proprie (metastasi).
Dunque, perché mai la brava cellula agisce in questo modo?
Come membro obbediente di un organismo pluricellulare, non doveva far altro che eseguire un’attività prescritta e ben definita, utile alla sopravvivenza dell’organismo stesso. Era una cellula come tante altre, che doveva svolgere un compito poco attraente per conto di “un altro”. E per molto tempo l’ha fatto. Tuttavia, ad un certo punto l’organismo ha perso le sue attrattive come spazio nell’ambito del quale compiere la propria evoluzione. Un organismo unicellulare è libero e indipendente, può fare quello che vuole, può anche rendersi importante attraverso un interminabile meccanismo di riproduzione e moltiplicazione. Come organismo multicellulare la cellula è divenuta mortale e non più libera. C’è da stupirsi che rimpianga la precedente libertà e desideri tornare alla sua esistenza di organismo unicellulare per realizzare personalmente la propria immortalità? Essa sottopone allora la comunità ai propri interessi e comincia a realizzare la propria libertà con un comportamento totalmente privo di riguardo.
Una mossa di successo, il cui errore diviene evidente solo molto tardi, quando si nota che il sacrificio dell’altro ed il suo utilizzo come terreno di coltura porta con sé anche la propria fine. Il comportamento della cellula cancerogena è coronato da successo finché la persona funge da nutrimento, la sua fine significa anche la fine dell’evoluzione del cancro stesso.
Così, ci si libera della vecchia comunità e ci si accorge troppo tardi che se ne ha ancora bisogno. La persona non è entusiasta di offrire la propria vita per la vita della cellula cancerogena, però neppure la cellula cancerogena era entusiasta di offrire la sua vita per l’uomo. Essa ha argomenti altrettanto buoni dell’uomo, solo la loro ottica è opposta. Entrambi vogliono vivere e concretizzare i loro interessi e le loro idee di libertà. È l’antico conflitto della natura: divorare o essere divorati. L’uomo si rende conto della prepotenza e anche della miopia delle cellule cancerogene: si rende però anche conto del fatto che noi uomini cerchiamo di assicurarci la sopravvivenza agendo esattamente come le cellule cancerogene?
Questa è la chiave delle malattie cancerogene. Il cancro è espressione del nostro tempo e delle nostre concezioni collettive del mondo. Noi sperimentiamo in noi sotto forma di cancro ciò che noi stessi viviamo. La nostra epoca è caratterizzata da irriguardosa espansione e realizzazione dei propri interessi. Nella vita politica, economica, religiosa e privata la gente cerca di dilatare oltre ogni limite i propri fini e i propri interessi senza riguardo per nessuno, cerca di creare ovunque basi per i propri tornaconti e vuol far valere soltanto le proprie idee e le proprie mete, mettendo tutti al servizio del proprio personale vantaggio.
Tutti noi ragioniamo come le cellule cancerogene. La nostra crescita è così veloce che non riusciamo quasi a rifornirci di materia prima come nutrimento. I nostri sistemi di comunicazione raggiungono ogni angolo del mondo, però la comunicazione col nostro vicino o col nostro compagno di vita è ancora assai carente. L’uomo ha tempo libero, ma non sa come utilizzarlo. Produciamo e distruggiamo prodotti alimentari per poter manipolare i prezzi. Possiamo viaggiare comodamente per tutto il mondo, ma non conosciamo noi stessi. La filosofia del nostro tempo non conosce altra meta che la crescita ed il progresso.
E che scopo ha il progresso? Un progresso ancora maggiore! L’umanità si è imbarcata in un viaggio senza meta. Deve quindi porsi sempre nuove mete, per non cadere nella disperazione. La cecità e la miopia dell’uomo del nostro tempo è pari a quella delle cellule cancerogene. Per portare ancora avanti l’espansione economica, si è utilizzato il mondo per decenni, lo si è usato come terreno di coltura, per constatare oggi “con stupore” che la morte di questo terreno significa la morte anche per noi. La gente considera il mondo intero come il proprio terreno di coltura: piante, animali, materie prime. Tutto esiste solo perché noi possiamo espanderci senza limiti sulla terra.
Chi si comporta così, dove trova il coraggio e la sfacciataggine di lamentarsi del cancro? Esso è semplicemente il nostro specchio, ci mostra il nostro comportamento, i nostri argomenti e anche la fine della nostra strada.
Il cancro non ha bisogno di essere vinto, esso deve soltanto essere capito, così che poi possiamo capire anche noi stessi. Ma gli uomini vogliono sempre distruggere gli specchi se il loro viso non pare loro piacevole a vedersi. La gente ha il cancro perché essa stessa è cancro!
Il cancro è quindi la nostra grande chance di scoprire finalmente i nostri errori di pensiero e di azione. Il cancro si pone di fronte ai due poli “Io o la Comunità”, vede soltanto questo aut-aut e decide alla fine per la propria sopravvivenza, accorgendosi troppo tardi che essa non è possibile senza quella del terreno che lo nutre. Gli manca la consapevolezza di un’unità più grande, capace di tutto abbracciare. Vede l’unità soltanto nei suoi limitati confini. Questo malinteso dell’unità è proprio anche dell’uomo. Anche lui si chiude nella propria coscienza, ed in questo modo sorge la spaccatura tra Io e Tu. Si pensa per “unità”, senza rendersi conto della insensatezza di un simile modo di pensare. L’unità è la somma di tutto ciò che è, e non conosce nulla al di fuori di se stessa.
Più un’Ego si chiude, più perde il senso del tutto, di ciò di cui esso è soltanto una parte. Nell’Ego sorge l’illusione di poter fare qualcosa “da solo”. In realtà però non esiste possibilità di separazione vera dal resto dell’universo, solo il nostro Io può immaginare che esista. Via via che l’Io si incapsula, l’uomo perde la “religio”, l’unione con l’origine della sua esistenza. L’Ego cerca ora di soddisfare le proprie esigenze e ci indica la via. L’Io apprezza tutto ciò che è utile ad un ulteriore isolamento, perché più i confini vengono tracciati più l’Io prende coscienza di se stesso. Ha paura soltanto di essere solo, perché questo significherebbe la sua morte. L’Io difende la sua esistenza con molta tenacia, intelligenza e buoni argomenti, e pone al proprio servizio le più sacre teorie e le più nobili intenzioni: la cosa fondamentale è poter sopravvivere.
Si creano così anche mete che non esistono. Porsi come meta il progresso è assurdo, in quanto il progresso non ha fine. Un’autentica meta può consistere soltanto nella trasformazione della situazione attuale, non nella sua semplice prosecuzione. Se però la meta si chiama “unità”, può essere raggiunta solo se si sacrifica l’Io, perché fintanto che c’è un Io, c’è un Tu e noi restiamo quindi nella polarità che ci divide tutti. La “rinascita nello spirito” presuppone sempre una morte, e questa morte riguarda l’Io.
Fintanto che il nostro Io tende alla vita eterna, falliremo esattamente come le cellule cancerogene. La cellula cancerogena si distingue dalla cellula del corpo per la sopravvalutazione del proprio Io. Nella cellula il nucleo cellulare corrisponde al cervello della cellula stessa. Nella cellula cancerogena il nucleo acquista costantemente importanza ed aumenta anche il suo peso ( il cancro viene diagnosticato anche in base alla trasformazione morfologica del nucleo cellulare). Questo cambiamento del nucleo corrisponde alla sopravvalutazione del pensiero cerebrale egocentrico, di cui anche il nostro tempo è affetto. La cellula cancerogena cerca la propria vita eterna nell’espansione materiale. Sia il cancro che l’uomo non capiscono che stanno cercando nella materia qualcosa che lì non si trova, cioè la vita. Si confonde contenuto e forma e si cerca di trovare il desiderato contenuto moltiplicando la forma. Ma già Gesù insegnava: “Chi vuole conservare la propria vita, la perderà”.
Il cammino è pertanto inverso: rinunciare all’aspetto formale per trovare il contenuto, ovvero l’Io deve morire, per poter rinascere in se stesso. Sia ben chiaro, il Sé non è se stessi, ma il Sé: il centro che si trova ovunque. Il Sé non ha natura sua propria e particolare, perché comprende tutto ciò che è. Qui finalmente cade la domanda: “Io o gli Altri?”. Il Sé non conosce gli altri, perché è UNICO. Una simile meta risulta giustamente pericolosa per l’Ego, e anche poco attraente. Per questo non dovremmo meravigliarci del fatto che l’Io cerchi in tutti i modi di sostituire la meta dell’unione con quella di un Ego grande, forte, saggio ed illuminato. Ma l’Io, col quale la maggior parte di noi si identifica, non potrà mai essere illuminato o redento.
Non possiamo redimere il nostro Io, noi possiamo soltanto liberarci dall’Io, e in questo modo saremo redenti. La paura che nasce a questo punto di non esistere più conferma soltanto fino a che punto noi ci identifichiamo col nostro Io e quanto poco sappiamo del nostro Sé. Proprio qui, invece, si innesta la possibilità di risolvere il problema del cancro. Solo se impariamo a mettere poco per volta in discussione la fissità del nostro Io ed i nostri confini, solo se impariamo ad aprirci, cominciamo a vivere una parte del tutto e anche ad assumerci la responsabilità del tutto. Capiamo allora che il bene del tutto ed il nostro bene sono la stessa cosa, perché noi in quanto parte siamo una cosa sola col tutto. Ogni cellula contiene infatti tutta l’informazione genetica dell’organismo, e dovrebbe solo capire che essa in realtà è il tutto! “Microcosmo=Macrocosmo”.
L’errore di pensiero consiste nella distinzione tra Io e Tu. Sorge così l’illusione che sia possibile sopravvivere particolarmente bene come Io, che si possa sacrificare il Tu ed utilizzarlo come terreno di coltura. In realtà non è possibile separare il destino di Io e Tu, della parte e del tutto. La vera medicina si chiama AMORE.
L’amore rende sani perché dilata i confini e fa entrare l’altro in modo da diventare una cosa sola. Chi ama, sente che la persona amata è se stesso. Questo non vale solo per gli uomini: chi ama un animale, non può considerarlo qualcosa di inferiore. Questo non è uno pseudoamore sentimentale, ma uno stato di coscienza che intuisce veramente qualcosa della comunità di tutto ciò che è.
Il cancro non testimonia di un amore vissuto, è amore pervertito:
• L’amore supera tutti i confini ed i limiti.
• Nell’amore gli opposti si uniscono e si fondono.
• L’amore è unione con tutto, si estende su tutto e non si ferma davanti a niente.
• L’amore non teme neppure la morte, perché l’amore è vita.
• Se questo amore non vive nella coscienza, corre il rischio di finire nella fisicità e di cercare qui di realizzare le proprie leggi sotto forma di cancro.
• Anche la cellula cancerogena supera tutti i confini e tutti i limiti. Il cancro elimina l’individualità dell’organo.
• Anche il cancro si espande su tutto e non si ferma davanti a niente (metastasi).
• Anche la cellula cancerogena non teme la morte.
Il cancro è amore su un piano sbagliato. Perfezione ed unione possono essere realizzate soltanto nella coscienza, non dentro la materia, perché la materia è l’ombra della coscienza. Nell’ambito del fuggevole mondo delle forme l’uomo non può realizzare ciò che appartiene ad un piano eterno. Nonostante ogni sforzo, il mondo non sarà mai sano, senza conflitti e senza problemi, senza tensioni e lotte. Non esisterà mai l’uomo sano, senza malattia e senza morte, e neppure l’amore che tutto abbraccia, perché il mondo delle forme vive dei suoi confini. Tuttavia le mete possono tutte essere realizzate se la coscienza è LIBERA. In questo mondo polare, l’amore porta ad imprigionare, nell’unità porta ad effondersi.
Il cancro è il sintomo dell’amore frainteso. Il cancro ha rispetto soltanto del VERO amore. Simbolo del vero amore è il CUORE: e il cuore è l’unico organo che non può essere aggredito dal cancro!
Tratto dal libro "Malattia e destino: il valore e il messaggio della malattia"
dei Dott. T.Dethlefsen e R.Dahlke (Edizioni Mediterranee)