A sinistra: Fabrizio Saccomanni. © LaPresse. Fonte immagine: lapresse.it
Enrico Mattei si starà rivoltando nella tomba per il disgusto. E con lui tutti coloro che crearono il sistema dell’industria pubblica italiana. Il governo in carica è infatti intenzionato a vendere le quote azionarie, o una parte di esse, in mano allo Stato, attraverso il Tesoro, di aziende come Eni, Enel e Finmeccanica. Lo ha detto il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ex direttore generale della Banca d’Italia, che non ha escluso tale scelta, che ha l’obiettivo di ridurre il debito pubblico. Il governo, ha precisato il ministro, intende valorizzare i propri asset (in italiano le attività patrimoniali) e quindi non esclude in futuro un piano di valorizzazioni che include le partecipazioni azionarie delle quale è in possesso. Certo, ha ammesso, queste società producono profitti e danno dividendi al Tesoro, e quindi bisognerà pensarci bene. Ma la strada che verrà seguita è quella. Così, entro la fine dell’anno si dovrebbe avere un quadro più chiaro della situazione. L’annuncio di Saccomanni comunque non è arrivato come un fulmine a ciel sereno. Da anni si parla di tale svolta alla quale guardano con interesse sia i concorrenti internazionali che talune banche d’affari anglo-americane (la solita Goldman Sachs?) che spasimano all’idea di essere scelte dal Tesoro come “advisor”, ossia come coloro che dovranno collocare i titoli in vendita presso gli investitori che, nel caso di Eni ed Enel, non mancheranno davvero. Nel caso di Finmeccanica, che negli ultimi tempi ha affrontato non pochi problemi, il discorso è leggermente diverso, ma i compratori non mancheranno davvero perché si tratta di una società sana e che con le sue controllate si trova all’avanguardia tecnologica. Attualmente Eni è controllata per il 3,93% dal Tesoro e per il 26,37% dalla Cassa Depositi e Prestiti, la quale a sua volta è controllata al 70% dal Tesoro. L’Enel a sua volta è controllato dal Tesoro per una quota azionaria del 31,24%. Infine il Tesoro ha una quota del 30,2% in Finmeccanica. In tutti e tre i casi, si tratta di quote azionarie minoritarie ma che, in applicazione del principio dell’interesse nazionale, trattandosi di imprese strategiche, e grazie al principio della “Golden Share”, consente al governo, con una quota superiore al 30%, di indirizzarne la gestione e le scelte sul mercato internazionale. Non si tratta di una cosa da poco, considerato che aziende del genere permettono al’Italia di avere e gestire una politica estera autonoma in campo energetico, nonostante i lacci e i lacciuoli esercitati dai nostri legami e dalle alleanze internazionali, vedi in primo luogo quelle militari come la Nato. E questo è tanto più vero per una società come l’Eni che, fin dai tempi di Mattei, ha funzionato come una seconda Farnesina, sicuramente molto più efficiente dell’originale. Se oggi, in molti Paesi produttori di gas e di petrolio viviamo e prosperiamo di una rendita di immagine, lo dobbiamo all’opera e all’approccio non colonialista di Enrico Mattei che pagò con la vita la volontà di sottrarre l’Italia ai condizionamenti atlantici. Poi, con il suo successore, Eugenio Cefis, l’indirizzo più “mediterraneo” dell’Eni subì un ridimensionamento che però non impedì al gruppo e ai nostri servizi segreti di sostenere il golpe di Gheddafi in Libia nel 1969. La stessa vicenda del dissidente kazako e della sua famiglia è strettamente legata allo sfruttamento del giacimento di Kashagan sulle coste kazake del Mar Caspio da parte del consorzio internazionale nel quale l’Eni è presente con una quota del 16%. Le mezze scuse e reticenze all’insegna del “non so, non me ne sono accorto”, oltre all’indignazione che devono suscitare, sono la dimostrazione che destra e sinistra in Italia sono concordi nel difendere gli interessi dell’Eni, e dell’Italia, ed evitare ritorsioni su Kashagan da parte di Nazarbajev, il padre-padrone del Kazakistan. Si tratta di pura real politik. Del resto in passato abbiamo fatto di peggio. Abbiamo fatto fuggire in America senza appenderli per i piedi i piloti Usa responsabili della strage del Cermis. E le nostre barbe finte hanno più volte fornito, negli anni settanta e ottanta, ai killer di Gheddafi gli indirizzi dei dissidenti libici residenti in Italia. Peraltro c’è da tenere conto che il principio della “golden share” per come viene applicato in Italia è stato contestato dai tecnocrati della Commissione europea come contrario alla libera concorrenza e alla “contendibilità” delle aziende. Affermazione che in soldoni significa che lo Stato non dovrebbe essere azionista di aziende industriali e non gli dovrebbe essere consentito di indirizzarne la gestione. La Commissione si è spinta addirittura più in là sostenendo che non va nemmeno bene il principio della “domiciliazione”, ossia del fatto che una azienda tipo Eni o Enel debba avere per forza di cose la sede legale e operativa in Italia. Questo non è legale, hanno tuonato i banditi di Bruxelles. La sede legale deve poter essere collocata anche all’estero. Da questa impostazione deriverebbe che l’Eni potrebbe benissimo divenire una controllata dell’americana Exxon e la sua sede essere spostata oltre oceano. Sarebbe semplicemente l’anticamera di una fusione per incorporazione. Questo del resto è l’obiettivo al quale puntano sia la concorrenza anglo-americana sia i nemici in senso stretto dell’Italia che da tempo, in Borsa come nelle sedi istituzionali, puntano ad uno spezzatino da fare con le controllate dell’Eni. Per la Snam Rete Gas, all’inizio di questo anno è stato avviato lo scorporo dalla casa madre. Poi si continuerà con le altre dissolvendo quella che era l’unica azienda del settore presente nell’intera filiera produttiva, sia per il petrolio che per il gas. L’Eni sta pagando in questo modo la sua scelta di siglare alla fine del 2011 un accordo con Russia e Libia grazie al quale Mosca rimetteva piede nel Mediterraneo. Una svolta che non è piaciuta agli “atlantici” che hanno avviato le grandi manovre per abbattere Gheddafi. Meno che mai erano piaciuti gli accordi di fornitura di gas tra Eni e la russa Gazprom da qui fino al 2040. Un accordo che è andato di pari passo per la realizzazione del gasdotto South Stream, al quale partecipano pure i tedeschi e che ha dimostrato tutta la aleatorietà del Nabucco, il gasdotto pensato dagli “atlantici” , in particolare dagli Usa, per accerchiare da Sud la Russia. Un progetto che è naufragato su se stesso, perché sarebbe servito soltanto a portare in Europa il gas dell’Azerbaijan. Sempre sui legami con la Russia si giocano i destini dell’Enel che grazie anche ai buoni uffici di Putin ha potuto acquisire aziende locali di una certa dimensione che hanno permesso al gruppo italiano di divenire una delle realtà più importanti in loco, oltre a garantire non pochi profitti. Quanto a Finmeccanica, negli ultimi anni ha incontrato non poche difficoltà, anche a causa di presunti giri di tangenti che sarebbero state pagate a ministri di Paesi esteri. Ma in ogni caso si tratta di un gruppo sostanzialmente sano e che avrebbe bisogno soltanto di una classe politica adeguata e disposta a sostenerlo e farlo crescere ancora. In ogni caso, se il Tesoro, indirettamente o direttamente, scendesse sotto la quota del 30%, il principio della “Golden Share” verrebbe meno e ad esempio l’Eni diverrebbe “contendibile”. Potrebbe insomma diventare una società straniera. All’ultima assemblea dei soci in primavera, per la prima volta le quote dei soci stranieri sono risultate superiori a quelle del Tesoro. Quindi prepariamoci al peggio. Detto e ricordato tutto questo, resta curiosa anzi incomprensibile la circostanza che Saccomanni abbia fatto la sua dichiarazione proprio da Mosca. Come a voler mettere avanti le mani e avvertire che un’epoca sta per finire ed una diametralmente opposta sta per iniziare. La dichiarazione ha fatto il giro del mondo e molti osservatori l’hanno letta in tal senso. Come l’avvio dell’ultima e definitiva fase del processo delle privatizzazioni delle nostre imprese pubbliche. Quello che venne suggerito con la Crociera del Britannia del 2 giugno 1992. Quello che venne minacciosamente ribadito con la speculazione contro la lira da parte dei mercati anglofoni nell’autunno del 1992 e che provocò una svalutazione del 30% e che rese più convenienti alcune piccole aziende pubbliche che vennero da lì a poco messe in vendita. Si trattò di un semplice antipasto. Una maniera per sondare il terreno. Poi, immancabilmente seguirono con i governi Prodi, D’Alema e Amato le privatizzazioni di Telecom, Eni ed Enel che ci hanno portato al disastro attuale. Ora c’è Saccomanni e il governo di cui fa parte che vogliono completare la svendita industriale del nostro Paese. Con la Fiat che da anni ha già deciso di lasciare l’Italia e di andare a produrre auto all’estero, dove gli operai sono pagati di meno, il nostro Paese è destinato a trasformarsi in un semplice mercato di sbocco per i prodotti di altri Paesi. Duro il giudizio di Beppe Grillo che dopo aver parlato di “saccodanni collaterali”, ha inveito a suo modo, affermando giustamente che l’Italia è alla canna del gas e chi l’ha ridotta in questa condizione, invece di andarsene con passo rapido e veloce in qualche Paese senza estradizione, si prepara a svendere l’argenteria per guadagnare tempo.
Articolo di Marco Angelotti
Fonte: rinascita.eu