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Il pretesto climatico: 3. L’ecologia finanziaria (1997-2010) – di Thierry Meyssan

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Thierry Meyssan Voltairenet 3 giugno 2010
Traduzione di Matteo Sardini
 
Dopo essere servita a Henry Kissinger ed a Margaret Thatcher, la retorica ambientale è stata recuperata da Al Gore. Non si tratta di distogliere l’attenzione dalle guerre dell’impero US, né di restaurare la grandezza dell’impero britannico, ma di salvare il capitalismo anglosassone. In questa terza ed ultima parte dei suo studio sul discorso ecologista, Thierry Meyssan analizza la drammaturgia preparatoria del vertice della Terra del 2012 e la ribellione di Cochabamba.

Il protocollo di Kyoto
Si ricorda che nel 1988 Margaret Thatcher aveva incitato il G7 a finanziare un Gruppo Intergovernativo sul mutamento climatico (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change in inglese) sotto gli auspici del PNUA e dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale. Nel suo primo rapporto, nel 1990, la IPCC considerava come «poco probabile» un aumento incondizionato dell’effetto serra «nei prossimi decenni o più». Nel 1995, un secondo rapporto di questo organo politico riprende nuovamente l’ideologia del vertice di Rio e «suggerisce un’influenza rilevabile dell’attività umana sul clima planetario»[i]. Seguono con cadenza annuale delle conferenze dell’ONU sul cambiamento climatico. Quella di Kyoto (Giappone), nel dicembre 1997, elabora un Protocollo tramite il quale gli Stati firmatari s’impegnano volontariamente a ridurre le loro emissioni di gas ad effetto serra; principalmente il diossido di carbonio (CO2), ma anche altri cinque gas: il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O), l’esafloruro di zolfo (SF6), i fluorocarburi (FC) e gli idroclorofluorocarburi.
Anche per gli Stati che non credono ad un’influenza significativa dell’attività umana sul clima, questo Protocollo è una buona cosa poiché li spinge ad un miglior utilizzo delle risorse energetiche non rinnovabili. Tuttavia, sembra ben difficile agli Stati in via di sviluppo modernizzare le loro industrie affinché consumino meno energia e siano meno inquinanti. Prendendo atto che questi Stati, non avendo che un’industria embrionale, rilasciano pochi gas serra mentre hanno bisogno di aiuto finanziario dotarsi di industrie econome e pulite, il Protocollo istituisce un Fondo di adattamento gestito dalla Banca Mondiale ed un sistema di permessi negoziabili. Ogni Stato riceve dei permessi di rilascio di gas serra che esso ripartisce tra le industrie. Gli Stati in via di sviluppo, che non utilizzano la totalità dei loro permessi, possono rivenderli agli Stati sviluppati che inquinano più di quanto concesso. Con le entrate della rivendita, essi possono finanziare il loro adattamento industriale. L’idea sembra virtuosa, ma il diavolo si nasconde nei dettagli: la creazione di un mercato dei permessi negoziabili apre la strada ad una finanziarizzazione supplementare dell’economia e, partendo qui, a delle nuove possibilità per proseguire col saccheggio dei paesi poveri. In tutta ipocrisia, Bill Clinton firma il Protocollo di Kyoto, ma dà istruzioni ai suoi parlamentari di non ratificarlo. Il Senato statunitense lo respinge all’unanimità. Durante il periodo della ratifica del Protocollo, gli Stati Uniti si impegnano nell’organizzare il mercato dei permessi negoziabili, sebbene essi non abbiano l’intenzione di sottostare alle esigenze comuni se non il più tardi possibile.
Alcuni studi preparatori sono sovvenzionati da un’associazione caritatevole, la Joyce Foundation. Essi sono diretti da Richard L. Sandor, un economista repubblicano che ha condotto un doppia carriera di trader (Kidder Peabody, IndoSuez, Drexel Burnham Lambert) e di accademico (Berkeley, Stanford, Northwestern, Columbia). In definitiva, una holding – la Climate Exchange, viene creata sotto forma di una società di diritto britannico di tipo Public Limited Company (ovverosia, le sue quote sono state vendute in occasione di un appello pubblico e la responsabilità dei suoi azionari è limitata agli apporti). Il suo statuto è redatto da un amministratore della Joyce Foundation, un giurista allora totalmente sconosciuto al grande pubblico, Barack Obama. L’appello pubblico agli investitori viene lanciato dall’ex vice-presidente degli Stati Uniti, Al Gore, e da David Blood (ex direttore della banca Goldman Sachs). Al termine dell’operazione, Gore e Blood creano a Londra un fondo di investimento ecologico, Generation Investment Management (GIM). A tal fine, si associano con Peter Harris (ex direttore di gabinetto di Al Gore), Mark Ferguson e Peter Knight (due ex assistenti di Blood presso la Goldman Sachs) ed infine con Henry Paulson (all’epoca direttore generale di Goldman Sachs, ma che si ritirerà quando diverrà il segretario al Tesoro dell’amministrazione Bush). Il Climate Exchange Plc apre alle Borse di Chigago (Stati Uniti) e Londra (Regno Unito), così come delle filiali a Montreal (Canada), Tianjin (Cina) e Sydney (Australia).
Accumulando le azioni bloccate in occasione della creazione della holding con quelle che ha acquisito dopo l’appello pubblico, Richard Sandor detiene quasi il quinto delle azioni. Il resto è principalmente diviso tra mega fondi speculativi: Invesco, BlackRock, Intercontinental Exchange (di cui Sandor è anche amministratore), General Investment Management e DWP Bank. La capitalizzazione borsistica ammonta oggi a più di 400 milioni di sterline. I dividendi versati agli azionisti nel corso dell’anno 2008 ammontano a 6.3 milioni di sterline. Ingenuamente, i membri dell’Unione Europea sono i primi ad aderire alla teoria dell’origine umana del riscaldamento climatico e a ratificare il Protocollo. Ma, affinché entri in vigore, hanno bisogno della Russia. Quest’ultima non ha nulla da temere in quanto il tetto di emissioni assegnatole non le è vincolante, visto il suo arretramento industriale dopo la dissoluzione dell’URSS. Essa si fa tuttavia pregare, per poter chiedere in cambio l’appoggio dell’Unione Europea per la sua adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio. Alla fine, il Protocollo entra in vigore nel 2005.

2002: il quarto «vertice della Terra» a Johannesburg e il richiamo delle priorità di Jacques Chirac
Il vertice decennale di Johannesburg (Africa del Sud) non interessa gli Stati Uniti più di quello di Nairobi. La loro agenda del momento è orientata esclusivamente verso la guerra globale al terrorismo. Le questioni ambientali devono attendere. George W. Bush evita la trasferta e invia il segretario di Stato Colin Powell a pronunciare un breve discorso, mentre l’equipaggio impaziente del suo aereo accende i motori. La conferenza abbandona lo stile kermesse internazionale di Rio e si concentra su dei temi precisi: l’accesso all’acqua e alla sanità, l’esaurimento in arrivo ed il prezzo delle energie non rinnovabili, l’ecologia dell’agricoltura, la diversità delle specie animali. Il clima non è che una questione tra molte altre. Il vertice diventa subito teatro di uno scontro quando il presidente francese Jacques Chirac esclama: «La nostra casa brucia e noi guardiamo altrove. La natura, mutilata, troppo sfruttata, non pare più ricostituirsi e noi ci rifiutiamo di ammetterlo. L’umanità soffre. Soffre di cattivo sviluppo, al Nord come al Sud, e noi restiamo indifferenti» [ii]. Il suo discorso suona come una requisitoria contro gli Stati Uniti. No, la caccia a Osama Bin Laden non è la priorità, ma è lo sviluppo dei paesi poveri e l’accesso da parte di tutti ai beni essenziali.
Furiosi, gli alti funzionari della delegazione americana sabotano i negoziati. Mentre sta istallando il centro di tortura di Guantanamo e le prigioni segrete in 66 paesi, l’amministrazione Bush si erge ad esempio morale e condiziona tutti gli impegni da parte sua a delle concessioni degli Stati del sud in materia di diritti dell’uomo e di lotta contro il terrorismo. Nessun importante documento finale viene adottato.

Copenaghen, aspettando il vertice della Terra del 2012
È nel 2012 che dovrebbe tenersi il quinto vertice della Terra e la revisione del Protocollo di Kyoto. Tuttavia Washington e Londra hanno deciso di trasformare la XV conferenza sui cambiamenti climatici in un grande appuntamento intermediario. La nuova politica anglosassone intende utilizzare il riscaldamento climatico per far avanzare i suoi due maggiori obiettivi: salvare il capitalismo e appropriarsi della facoltà dell’ONU a scrivere il diritto internazionale.
Bisogna constatare che l’economia statunitense è in panne e non sembra uscire dalla sua crisi interna. Gli statunitensi non producono più grandi cose, eccetto le armi, mentre i beni che consumano vengono fabbricati da un Cina sempre più prospera. La prima soluzione risiede in un cambiamento del capitalismo. È giunto il tempo di rilanciare la speculazione orientandola verso i permessi di inquinare negoziabili, di rilanciare il consumo coi prodotti ecologici e di rilanciare il lavoro con i lavoro verdi [iii]. D’altra parte, incontrando la globalizzazione forzata sempre più resistenze, conviene farla accettare presentandola in altro modo. Si dirà che le tematiche ambientali necessitano di un governo globale, e che gli Stati Uniti devono assumerne il comando. Perciò, bisogna prima di tutto dimostrare l’inefficacia dell’ONU in materia.
La conferenza di Copenaghen è stata preceduta da una lunga a potente campagna di propaganda. A cominciare dal film di Al Gore, An Inconvenient Truth, presentato al Festival di Cannes 2006, e che gli è valso il premio Nobel per la pace nel 2007. L’ex vice presidente degli Stati Uniti, di cui si è dimenticato il doppio gioco in merito al Protocollo di Kyoto, si presenta come un convinto militante. Per difendere la sua nobile causa, egli vi consacrerebbe volentieri il suo tempo libero. In realtà, ha realizzato questo documentario ed intrapreso una tournée promozionale in qualità di consigliere pagato dalla Corona britannica, vero committente dell’operazione. Al Gore è uno specialista della manipolazione delle masse. È lui che aveva architettato, alla fine del XX secolo, la grande angoscia millenarista del «millennium bug». Aveva all’epoca stimolato la creazione di un gruppo di esperti dell’ONU, l’IY2KCC – in tutti i punti comparabile al IPCC – per dare l’apparenza di un consenso scientifico attorno ad un problema minore gonfiato ad arte [iv]. Al film di Al Gore si aggiungono altri documentari e fiction. Così, il film Home del fotografo francese Yann Arthus-Bertrand, è diffuso a livello mondiale dal PNUA, il 5 giugno 2009. O ancora, il film hollywoodiano del tedesco Roland Emmerich, 2012, in cui mette in scena l’affondamento della crosta terrestre sotto le acque ed il salvataggio dei capitalisti più ricchi grazie a due moderne arche di Noè, mentre i poveri vengono inghiottiti dai flutti.
In teoria la conferenza di Copenaghen doveva regolare la questione dei gas serra determinando dei tetti d’emissione e degli aiuti ai paesi in via di sviluppo. In realtà, Londra e Washington intendevano spingere gli europei a abbassare essi stessi i limiti fissati dal Protocollo di Kyoto – per aumentare il volume dei permessi negoziabili e quindi la speculazione borsistica – e far fallire la conferenza per preparare l’opinione pubblica mondiale ad una soluzione non di competenza ONU. Molto a suo agio in questa mascherata, il presidente russo Dmitry Medvedev ha preparato un bluff che può costare caro al suo paese. Ha deciso di prendere un radicale e spontaneo impegno. Annuncia agli europei dell’ovest che Mosca si allinea alle loro esigenze e ridurrà le sue emissioni di gas serra dal 20 al 25% rispetto al 1990 entro il 2020. Meglio di così? Impossibile! A parte il fatto che essendo le emissioni russe ridotte del 34% tra il 1990 e il 2007 a causa del crollo industriale dell’era Eltsine, il presunto impegno del Cremlino per la riduzione gli lascia la possibilità di un incremento che va dal 9 al 14%!
Senza sorpresa, gli anglosassoni fanno avanzare le loro pedine appoggiandosi sul presidente francese Nicolas Sarkozy, contentissimo di vedersi affidare il ruolo di deus ex machina. Arrivando a riunione in corso, denuncia la mancanza di volontà dei suoi omologhi e convoca una riunione improvvisata con qualche capo di Stato e di governo [v]. Senza traduttori, seduti su scomode sedie, alcuni grandi del mondo si prestano al gioco. Su un angolo del tavolo in fòrmica, buttano giù buone intenzioni che vengono presentate come panacea di tutti i mali. Il «pianeta » è salvo, ognuno può tornare a casa propria. In realtà, questa messa in scena mira unicamente a preparare l’opinione pubblica mondiale alle decisioni che bisognerà imporre al «vertice della Terra» del 2012.
Completamente fuori dal coro, il presidente venezuelano Hugo Chàvez ripone in causa la problematica del vertice senza quindi scoraggiare le associazioni ecologiste che manifestano davanti il centro in cui si tiene la conferenza. Stigmatizza la ricetta sarkoziana che consiste nello stendere una dichiarazione finale tra Stati autoproclamatisi «responsabili», per poi ad imporla alla comunità internazionale. Denuncia una mascherata che permette ad un capitalismo senza coscienza di occultare le sue responsabilità e di rifarsi una verginità [vi]. Riprende a sua volta uno slogan scandito dai manifestanti all’esterno: «Non cambiate il clima, cambiate il sistema!».

Cochabamba, l’anti-Copenaghen
Il suo omologo boliviano Evo Morales trae delle conclusioni del vertice di Copenaghen. È chiaro a suo avviso che le grandi potenze giocano con l’ambiente. Su questo tema, come su ben altri, intendono fare i loro affari tra loro a scapito del terzo mondo. Tuttavia, la presenza di una folla di militanti delle associazioni all’esterno della conferenza lascia sperare in una volontà planetaria ben diversa.
Il presidente Morales convoca allora una «Conferenza Mondiale dei Popoli sul cambiamento climatico e i diritti della Terra Madre». Si tiene quattro mesi dopo a Cochabamba (Bolivia). Superando tutte le previsioni, più di 30 000 persone vi partecipano e 348 governi vi si fanno rappresentare. Il suo ambiente ricorda allo stesso tempo il vertice della Terra di Rio e i forum sociali mondiali. Ma ciò che è in gioco è differente. A Rio, il gabinetto delle relazioni pubbliche Burson-Marsteller aveva valorizzato alcune associazioni per legittimare le decisioni prese a porte chiuse. A Cochabamba, è il contrario: le associazioni che sono state escluse dalla conferenza di Copenaghen sono divenute decidenti. Il confronto coi forum sociali non funziona più: essi intendono contestare il Forum economico di Davos e si sono esiliati all’altro capo del mondo per evitare gli scontri che si sono visti in Svizzera. Questa volta, è l’ONU che si contesta. Evo Morales ha preso atto del fiasco di Copenaghen e della volontà delle grandi potenze di passare oltre le assemblee generali. Egli si appoggia sulla società civile contro i governi occidentali.
Evo Morales ed il suo ministro degli affari esteri David Choquehuanca affrontano le tematiche ambientali a partire dalla loro cultura di indiani aymara [vii]. Mentre gli occidentali dicono di sapere quanto occorre limitare le emissioni di gas serra per non perturbare più il clima, essi affermano che non si più continuare con tali emissioni quando esse sono ritenute pericolose, che sia vero o falso. Rompendo con la logica dominante, rigettano il principio dei permessi negoziabili. Per loro, non si dovrebbe permettere, e ancor meno vendere, ciò che è considerato disastroso. A partire da ciò, essi presentano un completo cambiamento di paradigma. Gli Stati sviluppati, i loro eserciti e le loro imprese multinazionali, hanno ferito la terra adottiva, mettendo in pericolo tutta l’umanità, mentre i popoli autoctoni hanno dato prova della loro capacità a preservare la Terra Madre. La soluzione è dunque politica: la gestione dei grandi spazi deve essere restituita ai popoli autoctoni, mentre le multinazionali devono rispondere dei danni che hanno commesso di fronte ad un tribunale internazionale.
La Conferenza dei Popoli chiama all’organizzazione di un referendum mondiale per istituire una Giustizia climatica ed ambientale, e per abolire il sistema capitalista. Secondo un metodo già applicato a numerosi vertici internazionali che sfuggono al controllo degli anglosassoni, una campagna mediatica viene immediatamente lanciata da Washington per soffocare il messaggio. Si sviluppa una polemica sui propositi deviati del presidente Morales [viii]. Comunque sia, l’ideologia occidentale verde non ottiene più l’unanimità.

L’albero che nasconde la foresta
Durante i 40 anni di discussione ONU circa l’ambiente, le cose non sono affatto migliorate, al contrario. Ma è stato realizzato un incredibile insieme di abili trucchi: la responsabilità degli Stati è stata dimenticata, quella delle multinazionali è stata occultata, mentre quelle degli individui è stata stigmatizzata. L’albero nasconde la foresta.
Nei vertici internazionali, nessuno tenta di valutare il costo energetico delle guerre in Afghanistan e in Iraq, includendo il ponte aereo quotidiano che permette di trasportare la logistica degli Stati Uniti sul campo di battaglia, compresa la razione per i soldati. Nessuno misura le superfici abitabili contaminate dalle munizioni all’uranio impoverito, dai Balcani alla Somalia, passando per il Grande Medio Oriente. Nessuno ricorda le superfici agricole distrutte dalle fumigazioni nell’ambito della guerra alle droghe, in America Latina o in Asia Centrale; né quelle rese sterili dallo spargimento dell’agente arancio, dalla giungla vietnamita ai palmeti iracheni. Fino alla conferenza di Cochabamba, la coscienza collettiva ha dimenticato l’evidenza che i maggiori colpi all’ambiente non sono la conseguenza di stili di vita specifici, né dell’industria civile, ma delle guerre intraprese per permettere alle multinazionali di sfruttare le risorse naturali, e lo sfruttamento senza scrupoli di tali risorse da queste multinazionali per alimentare gli eserciti imperiali. Ciò ci riporta al nostro punto di partenza, quando U Thant proclamava il « giorno della Terra » per protestare contro la guerra in Vietnam.

Note:

[i] Tutti i rapporti dell’IPCC sono disponibili in inglese, francese e spagnolo sul sito internet del Gruppo.
[ii] «Discours de Jacques Chirac au sommet mondial sur le développement durable de Johannesburg», 2 settembre 2002.
[iii] «La mue de la finance mondiale et la spéculation verte», di Jean-Michel Vernochet, Réseau Voltaire, 2 marzo 2010.
[iv] «Il n’y a pas de consensus scientifique à l’ONU», di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 17 dicembre 2009.
[v] «Intervention au sommet de Copenhague sur le climat», di Nicolas Sarkozy, Réseau Voltaire, 17 dicembre 2009.
[vi] «Intervention au sommet de Copenhague sur le climat», di Hugo Chávez Frías, Réseau Voltaire, 16 dicembre 2009.
[vii] Vedere la sua tribuna libera sul Los Angeles Times: «Combating climate change: lessons from the world’s indigenous peoples» (disponibile sul dito di Réseau Voltaire).
[viii] Evo Morales aveva denunciato le conseguenze sanitarie per gli uomini delle carni agli ormoni femminili. I suoi propositi sono interpretati come omofobi. Questa tecnica di screditamento è classica. Viene in mente pensando alla campagna mediatica contro Papa Giovanni Paolo II dopo il suo discorso alla Grande Moschea di Damasco o a quella contro il primo ministro malese in seguito al suo discorso davanti la Conferenza Islamica.

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