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IL TERRORISMO, IL GRANDE ALIBI intervista a Samir Amin

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Non è un fronte unito contro il terrorismo, ciò di cui il mondo ha bisogno; questo fronte non farà che generare più e più terrorismo. L’unica maniera per impedire atti violenti, ciechi e disperati è costruire un fronte unito contro l’ingiustizia sociale internazionale e contro la guerra, afferma Samir Amin.

Aggiunge: Questa è la meta del movimento mondiale di opposizione alla globalizzazione neoliberista; la sua mobilitazione è un ostacolo per i piani di egemonia degli Stati Uniti e lo trasforma nel bersaglio principale di questa cosiddetta coalizione internazionale contro il «terrorismo». Bisogna essere lucidi: questa crociata contro il terrorismo guidata da George W. Bush è un alibi per farla finita con questo movimento.

Samir Amin sembra prendersi gioco del trascorrere del tempo e dei suoi settant’anni; il suo dinamismo impressiona. Economista egiziano laureato alla Sorbona, è autore o coautore di decine di libri tradotti in numerose lingue, 24 dei quali disponibili anche in spagnolo.

Considerato uno dei più acuti analisti delle problematiche politiche ed economiche del continente africano e dello sviluppo nel Terzo Mondo, Amin, da quattro decenni, fa una radiografia del capitalismo e dell’imperialismo, tema del saggio di 300 pagine che si appresta a pubblicare.

Dal 1957 al 1960, Amin ha lavorato presso l’Amministrazione Egiziana dello Sviluppo Economico; nei tre anni successivi è stato consigliere del Governo del Mali e, poi, cattedratico in università francesi e del Senegal. Nel 1970 ha diretto l’Istituto Africano per lo Sviluppo Economico e per la Pianificazione guidando, contemporaneamente, il Forum del Terzo Mondo. Oggi presiede il Forum Mondiale per le Alternative.

Pilastro del movimento internazionale di opposizione al neoliberismo, Amin – che con l’organizzazione francese Attac e diversi movimenti brasiliani ha promosso la celebrazione del primo Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre – riconosce che la sua vita è un tantino movimentata: quando non viaggia per il mondo correndo da una conferenza ad un vertice, divide il suo tempo fra Il Cairo, sua città natale, Dakar (Senegal), sede del Forum Mondiale delle Alternative e Parigi.

Nel ricevermi nello studio pieno di libri del suo appartamento di Parigi, mi dice di essere appena arrivato da Schengen (Belgio), dove ha partecipato per una settimana ad una riunione internazionale di preparazione del Secondo Forum Sociale Mondiale e che si appresta a partire per Porto Alegre, per questo incontro che definisce di capitale importanza, nel terribile contesto attuale.

Mentre parliamo, il telefono suona più di una volta; Amin conserva la calma, in realtà la perde solo quando tocca il tema degli Stati Uniti, soprattutto quello della crociata antiterrorista di Bush e del modo in cui i mezzi di comunicazione occidentali ne danno conto.

Secondo questi media, la comparsa di movimenti politici che si richiamano all’Islam riflette solo il ritardo culturale e politico di popoli incapaci di comprendere altra lingua, se non quella del loro oscurantismo atavico. Allo stesso modo che i leader occidentali, gli analisti di questi media non vedono, non vogliono vedere, che la nascita di questi movimenti è, in realtà, l’espressione di una rivolta violenta contro gli effetti distruttivi del liberismo e della modernità imperfetta, tronca ed ingannatrice che esso genera. È una rivolta perfettamente legittima contro un sistema che non ha nulla da offrire a questi popoli.

– Mi sorprende: lei pare giustificare la violenza dei fondamentalisti o degli integralisti islamici…

– Non giustifico nulla. Lei sa molto bene che ho passato la mia vita opponendomi ad essi. Contestualizzo il problema. È diverso. Ora, prima di proseguire, c’è un punto che mi urge chiarire: i termini integralista e fondamentalista sono termini assolutamente erronei, utilizzati esclusivamente dall’Occidente. Nei Paesi arabi, nessuno li usa, perché il discorso islamico che cerca di fornire un’alternativa alla modernità capitalistica non ha alcun fondamento teologico. È meramente politico. È una manifestazione politica del sentimento religioso dei popoli musulmani. Per questo parliamo di islamismo politico e non di fondamentalismo o integralismo. Più grave ancora: gli occidentali, ed in primo luogo gli Stati Uniti, hanno partecipato attivamente alla strumentalizzazione di questo islamismo.

– Potrebbe essere un poco più esplicito?

– L’Islam politico è prodotto del fallimento di due grandi correnti che furono molto attive nel Terzo Mondo, in particolare in Asia e Africa, per buona parte del XX° Secolo… non mi piace il termine fallimento. Sarebbe più esatto parlare di impossibilità di superare determinati limiti.

– Quali erano queste correnti?

– Da una parte, quella della borghesia liberale. Si trattava di una borghesia modernista, non molto democratica, convinta che avrebbe potuto integrarsi nella globalizzazione capitalista, che non è nata ieri, e che pensava di poterlo fare negoziando i termini di questa integrazione nell’ambito di una certa interdipendenza. Accarezzava l’illusione di non dover obbedire come semplice agente della colonizzazione. Non vi è riuscita. E ha dovuto sottomettersi alla volontà imperialista.

La seconda corrente è ciò che chiamo il «nazionalismo populista», la cui prima manifestazione fu, a mio giudizio, la Rivoluzione Messicana. Questa corrente si opponeva all’imperialismo ed alla borghesia locale. Non era per forza socialista nel senso sovietico della parola, ma la sua ideologia aveva un forte contenuto sociale.

Nei Paesi arabi, questa corrente, si è manifestata attraverso il nasserismo in Egitto, il baasismo in Iraq e Siria, il regime di Boumediene in Algeria, eccetera… Neppure questa corrente si è imposta. Non è fallita del tutto perché ha generato grandi trasformazioni nelle società, ma non ha completato la sua missione. Il fatto che si siano esaurite queste due correnti concomitanti e successive, a volte antagoniste, ha creato un grande vuoto che l’islamismo non ha tardato a riempire.

– Quali erano i rapporti di queste correnti con l’Islam?

– Negli Stati diretti dalla borghesia liberale o dal nazionalismo populista, i governi diffidavano dell’Islam. Non si trattava di Stati laici, l’Islam figurava nella Costituzione come religione di Stato, ma i governanti lo separavano dalla politica. Quando i loro rispettivi progetti sono collassati, l’islamismo si è preso la rivincita. Ha manipolato in modo abbastanza grossolano il sentimento religioso di ampi strati della popolazione e ha iniziato ad acquisire un sempre maggiore ascolto.

Questo fenomeno si è acutizzato negli ultimi venti anni, con l’irruzione brutale del neoliberismo, che ha messo fine a tutti i benefici che gli strati inferiori della media borghesia avevano potuto trarre dal nazional populismo. Queste sono le ragioni «interne» della nascita dell’islamismo politico nei Paesi arabi e musulmani. Ma non bisogna sottovalutare il ruolo che ha giocato l’intervento esterno.

L’influenza statunitense

– Vale a dire?

– Fin dalla sua nascita, l’islamismo politico si è inquadrato perfettamente nel piano di egemonia statunitense. Non metteva in questione il capitalismo, oggi non mette in questione il neoliberismo. Nel suo discorso non critica la globalizzazione economica, attacca solo quella culturale. Non analizza le contraddizioni sociali né cerca di lottare contro di esse. Rinchiude la gente nel com’unitarismo, nella sottomissione e nella passività.

– Lei vuol dire che gli Stati Uniti hanno assistito compiaciuti alla nascita dell’islamismo politico.

– Non si sono limitati a questo. Appena percepiti i primi frutti dell’islamismo, gli Stati Uniti sono entrati nel gioco e hanno iniziato a trarre vantaggi dal problema. Ancora una volta bisogna tornare alla storia. Nel 1955 si è celebrata la Conferenza di Bandung, un avvenimento importantissimo, che affermava la solidarietà antimperialista dei popoli di Asia ed Africa. Questo ha provocato il panico a Washington. Tre anni dopo fu creato il Congresso Islamico Mondiale.

– Chi lo ha creato?

– Arabia Saudita e Pakistan hanno finanziato tutto. Ma dietro ad essi vi erano gli Stati Uniti. Quando se ne accorse, Nasser si infuriò. Me lo ricordo ancora che gridava: cos’è questo Congresso Islamico Mondiale? Chi ne ha bisogno, se già abbiamo la Conferenza di Bandung? È un colpo dei Nordamericani! Nasser non ha detto è un colpo dei Pakistani o dei Sauditi. Ha detto dei Nordamericani. Ha capito subito che Washington cercava di rompere l’unità e la solidarietà asiatico – africana…

– Per questo, all’inizio, lei parlava della strumentalizzazione dell’islamismo da parte degli Stati Uniti.

– Ovviamente. Lo fanno da quarant’anni. Lo so anche troppo bene. L’ho vissuto. Ogni volta che noi, gli avversari dell’islamismo politico, ci siamo battuti contro di esso, abbiamo cozzato contro gli Occidentali, soprattutto contro gli Statunitensi. Negli ultimi decenni, l’Occidente in generale ed essenzialmente gli Stati Uniti, hanno appoggiato questo islamismo. Hanno mosso milioni di dollari per farlo. Grazie all’aiuto degli Stati Uniti, di loro alleati in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, l’islamismo politico ha potuto dotarsi di scuole e di centri medici e di assistenza ai più sfavoriti, il che permette loro di disporre, ora, di una vasta base sociale. Vuole un esempio fra i mille possibili? Secondo lei, chi riceve il 90% degli aiuti che Washington fornisce all’Egitto? Ebbene, le organizzazioni islamiste di questo Paese…

– Ancora oggi?

– Ancora oggi.

– Ma non passa giorno senza che le autorità nordamericane denuncino queste organizzazioni di beneficenza islamiche come pericolosi brodi di cultura del terrorismo…

– È tutta una menzogna, ipocrisia pura. Negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno appoggiato finanziariamente, anche se attraverso Arabia Saudita ed Emirati, migliaia di islamismi. Li ha protetti sotto l’aspetto diplomatico e politico. Li ha addestrati. Li ha organizzati. Li ha formati per essere terroristi. Ovviamente, non per essere terroristi contro gli Stati Uniti, ma contro la Sinistra dei paesi arabi e contro i regimi moderati di questi Paesi.

Qual è l’obiettivo del terrorismo, in Egitto? Indebolire il governo di Mubarak, del quale io sono tutt’altro che un sostenitore, ed obbligarlo ad inginocchiarsi di più di fronte agli Stati Uniti e ad Israele. Qual è l’obiettivo del terrorismo in Algeria? Impedire la cristallizzazione di una forza democratica che potrebbe essere un’autentica alternativa alla dittatura corrotta dei generali dell’ex FLN (Fronte di Liberazione Nazionale). Il principale appoggio che ricevono i gruppi islamismi armati algerini viene dagli Stati Uniti.

Lei ricorda il primo attentato contro il World Trade Center, nel 1993? Fra gli accusati c’erano Egiziani che erano riusciti ad ottenere il permesso di residenza in quarantotto ore. Un record! Riuscirono a sfuggire ai servizi di intelligence statunitensi e tornarono in Egitto. La polizia li arrestò all’aeroporto e li restituì agli Stati Uniti. Poco tempo dopo, la stampa egiziana pubblicò la lettera che il capo della polizia aveva inviato alle autorità statunitensi. In sostanza la lettera diceva: «Vi restituiamo i vostri agenti, che da tempo abbiamo identificato come terroristi. Vi appartengono. Tocca a voi giudicarli.». Più chiaro di così…

Ripeto: dalla creazione del Congresso Islamico Mondiale, gli Stati Uniti non hanno cessato di appoggiare l’islamismo politico, sia apertamente sia attraverso la CIA. È un fatto provato. Si veda la storia di Osama Bin Laden. È emblematica. Washington non ha agito così solo nell’ambito della Guerra Fredda, come affermano coloro che cercano di minimizzare la responsabilità nordamericana rispetto a questo problema.

– Non si può negare che, fino al crollo dell’Unione Sovietica, questa dimensione della Guerra Fredda ebbe la sua importanza nella strategia statunitense.

– Non lo nego, ma fu solo una dimensione del problema. Strumentalizzando l’islamismo, gli stati Uniti hanno cercato di contrastare qualsiasi movimento di liberazione nazionale, ma anche qualsiasi governo borghese liberale e, ovviamente, nazional populista. Bisogna sottolineare questa complicità che esiste da decenni fra l’imperialismo statunitense e l’islamismo politico ultrareazionario.

Fini occulti

– Come spiega, dunque, gli attentati dell’11 settembre?

– Finché non disporremo dei documenti classificati della CIA – li avremo mai? – è impossibile spiegarli. Potremo solo fare ipotesi. Pensi, in numerosi Paesi arabi e dell’Africa circola, sia nella classe politica ed intellettuale che nella stampa seria, non in quella prona al potere, una tesi che, in Occidente, è assolutamente tabù: quella di un possibile ruolo della CIA e del Mossad (servizi segreti israeliani) in questa vicenda. Attenzione! Non si suggerisce che uno di questi servizi segreti abbia organizzato gli attentati, ma che, forse, in un modo o nell’altro fosse al corrente del fatto che si stesse preparando qualcosa, senza avere la misura della natura, delle dimensioni e delle terribili conseguenze di questo qualcosa e che avesse deciso di non intervenire… vi è un’altra tesi, anche questa tabù in Occidente, che allude ad una possibile complicità statunitense, nei servizi di intelligence o nell’apparato militare degli Stati Uniti…

– Se cita queste tesi vuol dire che non le scarta del tutto, che non le sembrano tanto assurde…

– Mi fanno pensare. Gli Stati Uniti hanno una strategia egemonica sistematica. Prima definiscono obiettivi geostrategici e poi si danno da fare per trovare una situazione che consenta loro di far progredire il loro progetto. Ricordi quel che è successo proprio prima della Guerra del Golfo. Saddam Hussein parlò con l’ambasciatrice degli Stati Uniti e le disse che non ne poteva più del Kuwait, che gli rubava il petrolio. Le annunciò che si apprestava ad invadere militarmente quel Paese. L’ambasciatrice gli chiese quarantotto ore. Due giorni dopo tornarono a parlarsi. L’ambasciatrice spiegò a Hussein che nessun trattato di mutua assistenza legava gli Stati Uniti ed il Kuwait. Hussein suppose che l’ambasciatrice si fosse consultata con Washington ed invase il Kuwait. Cadde nella trappola.

– Dunque lei non scarta alcuna macchinazione…

– Infine, che importanza ha che io scarti o no questa o quella ipotesi? Chi sa cosa sta dietro gli attentati dell’11 settembre? Il fatto è che gli Stati Uniti hanno colto immediatamente questa possibilità per lanciarsi nella guerra in Asia Centrale.

– Vuol dire in Afghanistan?

– No. Non mi sono sbagliato. Dico intenzionalmente guerra in Asia Centrale. Negli ultimi dieci anni, celebri esperti statunitensi hanno pubblicato un’infinità di libri e relazioni per spiegare che gli Stati Uniti devono assumere il controllo dell’Asia Centrale ex sovietica e del Caucaso. Secondo alcuni, è indispensabile farlo per impadronirsi del petrolio e del gas del Mar Caspio. Per altri, fra i quali molti militari, stabilirsi in modo duraturo nel cuore dell’Eurasia è la chiave che permetterà agli Stati Uniti di stringere in una morsa tre Paesi importanti: Russia, Cina ed India. Gli ultimi due e, forse, domani, la Russia, se riesce ad uscire dal caos nel quale si trova, hanno la capacità di resistere alla globalizzazione transnazionale che Washington vuole imporre sul Pianeta. Ciò ostacola i piani statunitensi.

Controllare il petrolio ed il gas dell’Asia Centrale non è solo redditizio economicamente, ma può risultare un’arma di pressione poderosa. Cina ed India hanno bisogno di queste risorse energetiche. Ne dipendono sempre più. Se si mostrano troppo recalcitranti o indipendenti, Washington chiuderà i rubinetti del gas e del petrolio…

Consolidando il loro insediamento nella regione, Gli Stati uniti potranno, inoltre, seminare zizzania fra Cina e Russia o fra India e China, per evitare un eventuale avvicinamento strategico fra quei Paesi.

– Questa presenza statunitense in Eurasia pare inquietare molto l’Iran…

– l’Iran ha anche troppe ragioni per preoccuparsi, perché si sente accerchiato. Una volta insediati in Asia Centrale, gli Stati Uniti potranno mettere l’Iraq ancora più alle strette e fare più pressioni su Siria ed Egitto. Questa prospettiva riempie di soddisfazione Israele.

L’imperialismo collettivo

– Nel suo libro «L’egemonismo degli Stati Uniti e la scomparsa del progetto europeo», pubblicato due anni fa in Francia e l’anno scorso in Spagna, lei spiega che, con la Guerra del Golfo, gli Stati Uniti hanno inaugurato una terza fase di conquista imperialista del Pianeta…

– La prima si è avuta nei secoli XVII° e XVIII°, con la conquista dell’America e la tratta dei neri. La seconda si è sviluppata nel XIX° Secolo, con la conquista di Africa ed Asia. Poi si è avuta una controffensiva dei popoli: indipendenza americana, rivoluzione degli schiavi haitiani, grandi movimenti di liberazione nazionale in Asia ed Africa… Ora stiamo entrando nella terza fase, che definisco «imperialismo collettivo della triade».

– Stati Uniti, Europa e Giappone?

– Esattamente. Oggi, ad imporre la sua legge, è il capitale transnazionale e multinazionale statunitense, europeo e giapponese, che a volte può avere le sue divergenze mercantili ma che ha interessi comuni rispetto al Sud. Questo imperialismo della triade ha bisogno di una punta di lancia, per continuare ad imporsi: è il ruolo che assume l’egemonismo statunitense. Senza la forza militare degli Stati Uniti, l’imperialismo della triade non può avanzare. Ho trattato brevemente la questione nel libro che li cita ed è il tema centrale di quello che ho appena terminato.

– Potrebbe sintetizzare le sue tesi?

– Il periodo seguito alla Seconda Guerra Mondiale (1945 – 1980), si è caratterizzato per l’egemonia della Sinistra. Ciò si è dovuto alla doppia sconfitta del fascismo e del vecchio colonialismo come alla vittoria dell’Unione Sovietica. Si crearono sistemi di regolazione sociale: il welfare state nel mondo occidentale, il sistema sovietico e le diverse varianti nazional populiste nel Sud. Questo capitolo della storia è terminato. Le forze che hanno animato questa fase si sono erose. Il loro declino ha creato le condizioni per un’offensiva della Destra. Il momento storico che viviamo oggi è quello dell’egemonia della Destra, una Destra brutale che mobilita tutti i mezzi politici e militari a sua disposizione per imporre un nuovo ordine economico e sociale.

Samir Amin riflette qualche secondo.

Certo, non è nulla di nuovo. Cose simili sono già accadute nella storia. Gli ultimi a cercare di imporre con la loro forza i loro progetti di «ordine nuovo» furono la Germania di Hitler ed il Giappone imperiale. Cozzarono contro la resistenza dei popoli e contro altri imperialismi che aspiravano all’egemonia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’esistenza stessa dell’URSS obbligò gli Stati Uniti a limitare le loro ambizioni. Ciò che risulta nuovo e sommamente pericoloso, oggi, è che gli Stati Uniti, che dominano la triade, pensano di non dover rendere conto a nessuno.

Da una pila di libri estrae «Lo scontro fra le civiltà» di Samuel Huntington. È un libro molto significativo, dice guardandolo.

La tesi di quest’uomo, che non è un cattedratico indipendente, ma un funzionario al servizio dell’establishment statunitense, mi ricorda il «Mein Kampf», di Hitler…

– Ho sentito bene?

– Sì. Mi ha sentito bene. Ricorrere al razzismo è il mezzo che il blocco della triade imperialista ha ora deciso di usare per consolidarsi: i civilizzati sono minacciati dai barbari (tutti i popoli di Asia ed Africa e, forse potenzialmente, i Russi). In questo senso, la tematica de «Lo scontro fra le civiltà» mi fa pensare al «Mein Kampf». In entrambi i casi si giunge alla stessa logica banale: i popoli superiori (ieri i nazisti, oggi gli Statunitensi e gli Europei) hanno il diritto di sottomettere i popoli selvaggi alla loro dittatura. I popoli superiori possono continuare a godere del loro modo di vita solo privando gli altri di qualsiasi speranza di condividere i loro vantaggi. È la logica semplice di un razzismo fondamentale, che si esprime con tutta la volgarità della quale sono capaci Bush o Silvio Berlusconi. Anche «Mein Kampf» è stato un libro banale e volgare. Da ciò ha tratto gran parte della sua forza.

– È un paragone violento.

– Non è il mio paragone ad essere violento, ma sono il contenuto di questo libro e l’ideologia repubblicana statunitense, condivisa o tollerata dagli Europei, ad essere violenti. Per eseguire il loro compito, i dirigenti del blocco occidentale pensano che non basti questo richiamo sfacciato al razzismo. Ritengono, inoltre, che sia urgente imbavagliare i movimenti sociali e politici di resistenza che si stanno consolidando nel seno dello stesso Occidente civilizzato. La lotta contro il terrorismo ha dato loro un pretesto d’oro per farlo. Si assiste già alla rinascita del maccartismo, negli Stati Uniti. E in Europa, i provvedimenti molto antidemocratici adottati contro il terrorismo, presto si rivolgeranno contro l’opposizione al modello neoliberista. Si inizia a demonizzare la corrente antiglobalizzazione. Si fanno mescolanze perverse fra la violenza degli scontri fra manifestanti antiglobalizzazione e polizia e le operazioni terroriste… Berlusconi è un esperto in questo campo. Ma non è l’unico.

– Immagino che il tema sarà ampiamente dibattuto nel Secondo Forum Sociale Mondiale, che inizierà a fine gennaio, a Porto Alegre.

– Ovviamente. La strategia di costruzione di un fronte internazionale dei popoli contro il progetto della triade e l’egemonia nordamericana richiede che la battaglia sia sistematica, contemporaneamente contro il liberismo economico e contro la guerra. Per noi risulta evidente che la globalizzazione neoliberista e la militarizzazione di questa forma di globalizzazione sono divenute inseparabili.

Non si può lottare solamente contro una o l’altra dimensione del liberismo economico nei centri del sistema (Stati Uniti o Europa) e tralasciare gli interventi armati nelle periferie. Questi interventi non rispondono ad una logica indipendente; al contrario, sono parte integrante del dispiegamento dell’economia liberista.

(Fonte: http://italy.indymedia.org; originalmente postato su
www.rebelion.org/internacional/amin250102.htm)

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