Il motivo è altro, non v’è dubbio, ed è assai più importante. Per farvi capire, cito la caduta dal potere del dittatore indonesiano Suharto nel 1998. Uno dei peggiori assassini di massa del XX secolo, nulla da invidiare a Hitler per numero di morti, era il cocco di mamma degli USA e della Gran Bretagna, media inclusi, che lo adoravano perché obbediva puntigliosamente a ogni diktat dell’establishment economico neoliberale d’Occidente e soddisfaceva ogni sua voracità di profitto, naturalmente a scapito dell’esistenza di milioni di disgraziati suoi connazionali.
Nel 1997 Suharto fece l’errore delle sua vita: disobbedì al Tesoro americano (leggi Fondo Monetario Internazionale), una sola volta. L’allora Segretario di Stato di Clinton, Madeleine Albright, gli disse due parole secche. Fine di Suharto.
Torno in Italia. Io sono convinto che lo stesso meccanismo sia in opera col nostro capo di governo. Deve aver fatto qualcosa di non gradito a chi oltrefrontiera aveva scommesso su di lui. Forse non gli sta obbedendo, da troppo tempo, e la corda si è spezzata, dunque l’attacco del Times. C’è un’ipotesi ragionata (e qui documentata) che vale la pena considerare e ve la propongo come riflessione. Naturalmente, seguendo lo schema Suharto, per l’establishment degli investitori internazionali non è altrettanto facile sbarazzarsi di Berlusconi. Un dittatore al tuo soldo lo sciacqui giù dal lavandino con relativa semplicità, basta chiudere i rubinetti che lo foraggiano. Per un leader democraticamente eletto le cose sono molto più complesse. Di mezzo c’è la sua gente (noi) che ahimè lo vota, e continua a votarlo. In quei casi la strategia è altra, e nel mondo anglosassone si chiama ‘character assassination’. Lo si dipinge sui maggiori media compiacenti come uno scandaloso incapace, si fanno cordate con alcuni media dell’opposizione interna, e si spera che in tal modo egli ne riceva un danno elettorale. Ma soprattutto gli si manda un messaggio, chissà mai che non si ravveda. Purtroppo per i manovratori, in questo caso hanno a che fare con gli italiani, e questo non l’avevano previsto. Ma continuiamo.
Berlusconi entrò sulla scena politica come il tipico Liberista economico (Liberal Economics), colui cioè che invoca privatizzazioni a raffica, tagli fiscali ai ricchi, botte ai sindacati, flessibilità ultras per i lavoratori, riduzione del ruolo del governo, deregulation selvaggia, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Nelle Corporate Boards della City di Londra come a Bruxelles fu un giubilo unico. Era il 1994, Tangentopoli aveva appena eliminato quella fastidiosa classe politica così statalista, popolana, centralista, che non piaceva affatto alla classe dei neoliberisti rampanti di Londra e Washington. L’ipotesi che Tangentopoli sia stata teleguidata dall’esterno proprio per far strada alla Liberal Economics sul modello Thatcher/Reagan, non è cospirazionismo da Internet; ne discussi molto seriamente una sera con l’ex magistrato del pool Gherardo Colombo, che già ne sapeva qualcosa. Torniamo al ’94. Dopo pochi mesi fu chiaro che l’uomo di Arcore era tutto meno che un purista del mercato. Prima cosa, nella sua compagine di governo troneggiavano (ancora oggi) partiti simil-nazionalisti con legami molto radicati con le classi medio-basse, e avversi al concetto di leadership finanziaria sovranazionale incontrastata. Secondo, e ancor più cruciale, Berlusconi non dava segno di voler trasformare la ricca Italia in una trincea del capitalismo speculativo d’assalto, col minor numero di regole possibili, e paradiso degli investitori selvaggi. E mai lo ha fatto. L’Italia dei tre mandati del Cavaliere rimane ancora oggi un Paese tradizionalista nel Capitale, nelle banche, zeppo di zavorre statali, poco profittevole (questo fra parentesi ci ha salvato dal crack finanziario USA, ma agli investitori frega nulla di noi cittadini e dei nostri risparmi, nda). L’ipotesi è dunque che nella stanza dei bottoni i famelici Padroni del Vapore si siano spazientiti dopo anni di frustrazione dei loro piani per l'Italia, ergo l’attacco del Times. Vediamo i fatti.
Siamo nel 2004, la prestigiosa e influente fondazione di destra neoliberale Stockholm Network di Londra pubblica un rapporto dove si legge “Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro (due teorici ultra Liberisti italiani, nda) sono delusi dalla differenza fra la retorica del Libero Mercato di Silvio Berlusconi e la sua reale capacità di fornire le tangibili riforme dell’ostinata burocrazia statale italiana” (1). Parole che trovano eco su decine di pubblicazioni della destra economica europea, sigle troppo oscure per questo contesto, ma tutte improntate a un senso di delusione verso le politiche economiche di Silvio. Passano due anni e il noto Economist (che non è quel bastione di progressismo che alcuni sciocchi qui pensano, nda) scrive: “L’Italia necessita urgentemente di riforme radicali, ma la coalizione di Berlusconi, che in teoria doveva essere dedita al Liberismo economico, ha fatto quasi nulla nei suoi 5 anni al governo” (2). Da notare che siamo nel 2006, a poco dall’avvento del governo Prodi, che riceverà in quegli anni il plauso di una ridda di fanatici del Libero Mercato, come il Fondo Monetario Internazionale, e il motivo c’è: Prodi alla Commissione Europea fu uno dei falchi del Liberismo economico, e nella stanza dei bottoni sapevano bene a quel punto che per ottenere le radicali riforme del lavoro e della finanza, in Italia era sui dalemiani che bisognava puntare, visti i tentennamenti di Silvio. Dopo pochi giorni esce il tedesco Der Spiegel: “L’amministrazione Berlusconi non ha mai mantenuto le promesse di taglio alle tasse, ulteriori privatizzazioni, e riforme strutturali necessarie per aumentare la competitività e privare le burocrazie del potere”. (3)
Dopo pochissimo dall’elezione di Prodi, l’università di Harvard negli USA indice un seminario ultra neoliberal sull’economia italiana, presente anche Gianfranco Pasquino (ops!). Nella pubblicazione degli atti si leggono le parole di Alberto Alesina, professore ‘Nathaniel Ropes’ di politica economica nel prestigioso ateneo, che dopo aver ricordato i compiti futuri del bravo Prodi, dice: “L’Italia ha problemi gravissimi, ha bisogno di una iniezione di libero mercato con riforme economiche neoliberali… fra cui ridurre le tasse, tagli all’impiego pubblico e alle pensioni, rafforzare il settore dei servizi, e rendere più facili i licenziamenti”. (4) Cioè una pessima pagella, a suo dire, dei precedenti anni di Berlusconi, che anche l’Economist continuava a definire “assai scarsi di riforme delle insostenibili pensioni e dell’inflessibile (sic) mercato del lavoro”, da parte di un leader “mai veramente interessato alle riforme” (5). Il fuoco di sbarramento contro il ‘disobbediente’ Cavaliere è a questo punto massiccio. Le bordate arrivano anche dagli USA, e proprio guarda caso allo scadere del breve mandato Prodi. Il Wall Street Journal, voce dei falchi fra i falchi della finanza di destra, scrive a pochi giorni dalle elezioni del 2008 che “Berlusconi ci ha deluso in economia durante il suo ultimo mandato”. La vicenda Alitalia sta infuriando, cioè, sta infuriando gli investitori esteri assetati di affari sul cadavere della nostra linea aerea, mentre Berlusconi osa ipotizzare una cordata italiana per il salvataggio. Scrive il WSJ: “Berlusconi la scorsa settimana se n’è uscito contro la vendita di Alitalia, e questo è un segnale di mancanza di dedizione alle riforme”…. “Air France-KLM volevano garanzie che i sindacati e i politici non bloccassero le dolorose ristrutturazioni (per i lavoratori, nda)” E dopo due righe di plauso per il compiacente Veltroni, il quotidiano dà l’affondo: “Berlusconi aveva promesso tagli alle tasse, riforme del mercato del lavoro e liberalizzazioni, ma ha fallito in tutto… Egli si è rivelato più un nemico corporativo del Libero Mercato che un Liberista economico disposto a fare ciò che è necessario” (6)
Alitalia non va giù agli investitori internazionali, e infatti non poteva mancare la regina dei loro quotidiani, il Financial Times, che tenta nel settembre del 2008 di mandare un richiamo all’insubordinato Cavaliere, suggerendogli di “… seguire l’esempio della Thatcher, e di sfidare i sindacati a scoprire le carte, così da far scoppiare l’ascesso (sic) di 30 anni di relazioni sindacali italiane irresponsabili e dannose” (7). E ancora: “Nonostante la sua immagine da imprenditore neoliberale, Berlusconi, dicono i critici, si trova a suo agio a fare il dirigista statale, con l’Alitalia in primis. La compagnia viene consegnata a un gruppo italiano e sottratta ai compratori stranieri” (8) E che il Financial Times avesse anch’egli dichiarato una guerra permanente a Berlusconi, anche se con metodi decisamente più ortodossi di quelli del Times, lo dimostra quanto ha scritto poche settimane fa, con toni sprezzanti: “Il suo primo governo nel 1994 non ha combinato nulla. I suoi cinque anni al potere dal 2001 al 2006 sono stati noti per aver fallito di nuovo nell’introdurre in Italia le riforme Liberiste così essenziali al Paese per essere competitivo nell’eurozona” (9).
Ricordo a questo punto, per chi si fosse perso, che questo coro martellante che pronuncia sempre le parole magiche ‘riforme’ e ‘Liberismo’, altro non chiede se non la solita ricetta precedentemente descritta: privatizzazioni a raffica, tagli fiscali ai ricchi, botte ai sindacati, flessibilità ultras per i lavoratori, riduzione del ruolo del governo, deregulation selvaggia, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti (come peraltro leggibile nelle dichiarazioni riportate). La ricetta, cioè, che di noi persone e del nostro sangue versato se ne fotte, e che pretende solo una cosa: Unlimited Corporate Profits. Ne è un esempio brillante una delle raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale (leggi il Tesoro USA) fatte all’Italia allo scadere del 2008, altro rimbrotto al Cavaliere. E’ profferta con un linguaggio omeopatico, ma la si può leggere fra le righe: “Gli autori apprezzano in Italia gli sforzi per diminuire la disoccupazione (nota dell’autore: si preoccupano dei nostri senza lavoro?). Gli autori incoraggiano una seconda tornata di riforme del mercato del lavoro, per rafforzare il legame fra redditi e produttività (nda: vale a dire il valore e la qualità di vita della persona misurato unicamente in termini di contributo al profitto altrui). Gli stipendi devono adeguarsi alle differenze regionali (nda: gabbie salariali, su cui il FMI insiste da tempo), il lavoro a tempo indeterminato deve essere più flessibile (nda: già praticamente non più in offerta, qui si chiede che sostanzialmente scompaia), in tandem con una rete di ammortizzatori sociali maggiorati (nda: ci risiamo, socializzare i danni e privatizzare i profitti, cioè lo Stato paga per la disperazione dei lavoratori, le aziende licenziano e si ri-quotano in borsa).” (10) Questa abiezione sociale è ciò che realmente si cela dietro alla parola ‘riformismo’ (Rutelli, Prodi e D’Alema + seguaci prendano nota).
Ma torniamo a Silvio Berlusconi. L’ultimo avvertimento gli giunge proprio dal Times il 7 maggio 2009, e in toni inequivocabili: “Nei suoi due maggiori mandati Berlusconi ha fallito nelle riforme così disperatamente urgenti in Italia… La UE e l’OECD continuamente rivelano l’eccessiva regolamentazione del business (in Italia, nda)… I lavoratori statali rimangono protetti… e le sue sbandierate riforme del sistema pensionistico sono state minimali… le tasse rimangono alte, e la resistenza del suo governo a tagliare la spesa pubblica è enorme” (11).
Tre settimane dopo, il possente quotidiano britannico perderà di colpo la sua celebrata compostezza dopo 224 anni, e dalle sue pagine partirà un attacco sgangherato e volgare a Silvio Berlusconi. Vi si leggerà che è “un clown”, “un buffone sciovinista”, un playboy patetico, la cui performance con le signorine e nei confronti degli italiani curiosi della vicenda Noemi è inaccettabile, per il bene della democrazia e del mondo intero. Certo, come no.
E così, di nuovo, l’Italia antagonista di sinistra si è fatta infinocchiare degli isterismi dei D’Avanzo, Travaglio e Santoro, Grillo e compagnia, ha di nuovo eletto a suo paladino l’ennesimo baraccone di destra neoliberale (dopo Freedom House), e insiste nell’ignorare che ciò che gli sta corrompendo la vita non è il lodo Alfano, o Emilio Fede, né il burattino Berlusconi, ma sua maestà Il Burattinaio, leggi Liberal Economics and Corporate Power. Eppure Clinton ce l’aveva detto: “It’s the economy, stupid”.
Nota a margine per l’Egregio direttore del Times:
“Sir, non mi risulta che negli anni cha vanno dal 1997 al 2007 il Suo giornale abbia mai usato termini così aggressivi per Mr Tony Blair, PM, mentre si rendeva corresponsabile di crimini contro l’umanità (Turchia, Timor, Ex Yugoslavia, Iraq, Palestina, Afghanistan…) e di alto tradimento della patria mandando a morire truppe britanniche su basi mendaci, oltre ad aver ridotto le classi disagiate della Gran Bretagna a livelli di povertà “pre-Vittoriana” (The Guardian), tanto che l’organizzazione Medecins du Monde ha dovuto aprire delle tende-cliniche di strada in diverse periferie urbane britanniche. Gradirei una spiegazione, Sincerely Yours, Paolo Barnard"
Note:
1) Stockholm Network, THE STATE OF THE UNION: MARKET-ORIENTED REFORM IN THE EU IN 2004
2) The Economist 7/01/2006
3) Der Spiegel 30/01/2006
4) April 20, 2006, Harvard Gazette
5) The Economist, Apr 3rd 2008
6) WSJ MARCH 25, 2008
7) Financial Times, Sep 22 2008
8) FT, October 18 2008
9) FT, May 28 2009
10) INTERNATIONAL MONETARY FUND ITALY: Staff Report for the 2008 Article IV Consultation. Prepared by Staff Representatives for the 2008 Consultation with Italy. January 7, 2009
11) The Times, 07 May 2009