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IL VERO E FALSO OSAMA di Maurizio Blondet

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Questo è (o sembra) uno «scoop» di Le Monde, che pubblica parti anche in originale fotocopiato (con le stampigliature «Confidentiel defense» e «Usage strictement national») del rapporto di 382 pagine, redatto a cominciare dal luglio 2000, con le ultime note aggiunte nell’ottobre 2001.
Una lettura esplosiva, ma non per i motivi dichiarati.
Perché che i servizi francesi avessero allertato gli americani di futuri dirottamenti, non è una novità né uno scoop.
Anche i servizi russi e tedeschi avevano avvertito gli americani.
Il vero scoop, che emerge dall’inchiesta (evidentemente sostenuta da alti responsabili del DGSE, alcuni dei quali persino nominati nell’articolo) è di tutt’altra natura.
Per un lettore attento, rivela verità anche più scottanti.
Prima verità: i progetti del vero Osama non prevedevano l’attacco alle Twin Towers.
Ecco infatti il testo del documento francese del 5 gennaio 2005:
«Membri dell’organizzazione di Osama bin Laden, Al Qaeda, in cooperazione con rappresentanti del movimento taleb e gruppi armati ceceni, preparano, dagli inizi del 2000, un progetto di dirottamento aereo.
L’obiettivo di questa azione terrorista, che doveva inizialmente essere condotta tra marzo e settembre del 2000, è duplice:
a) da una parte, far liberare degli islamisti detenuti nelle prigioni americane, in particolare lo sceicco Omar Abdelrahman.
b) fare pressione sull’opinione internazionale per ottenere un ritiro delle truppe federali russe dalla Cecenia.
A causa di disaccordi su certi punti dell’operazione, specie sulla data, l’obbiettivo e gli autori, gli strateghi del progetto hanno rimandato la data e sembrano aver riorientato i loro sforzi verso la Grecia e Cipro, Paesi nei quali la presenza americana costituisce un bersaglio potenziale».
Come si vede, niente Twin Towers, niente di spettacolare ed hi-tech; un vago progetto rimandato e orientato verso obbiettivi più facili, Grecia o Cipro.
E non con lo scopo di agghiacciare il mondo, ma con scopi tattici razionali: liberazione di propri prigionieri, portare l’attenzione sul dramma ceceno.
È un altro progetto.

Infatti, lo dice a Le Monde Pierre Antoine Lorenzi, capo di gabinetto del direttore supremo della DGSE (i servizi) fino al 2001, oggi in pensione: «I dirottamenti non hanno più lo stesso significato dopo l’11 settembre. Prima, questo significava obbligare un aereo ad atterrare in un aeroporto per condurre dei negoziati. Si è abituati a gestire queste situazioni».
Decisamente un’altra cosa.
Questa e non l’attacco simultaneo in USA stava preparando il vero bin Laden; e infatti, come si ricorderà, in uno dei pochi video autentici, Osama ringrazia Allah per l’11 settembe, ma non lo rivendica al suo gruppo.
Non lo rivendica mai.
Persino l’FBI, nel suo manifesto «wanted Bin Laden», non lo accusa dell’11 settembre.
Si sbagliano forse francesi?
No.
Essi hanno gli occhi sul vero bin Laden fin dal 1995.
«Secondo i servizi uzbeki, il progetto di dirottamento sembra essere stato discusso agli inizi del 2000 a Kabul in una riunione fra rappresentanti di Osama», si legge nel rapporto.
Il regime uzbeko è filo-occidentale.
In più, ha infiltrato suoi confidenti nel Movimento Islamico Uzbeko, avversario politico del regime.
Questo gruppo clandestino ha un capo, Taher Yudachev, che ha combattuto i sovietici in Afghanistan e ha giurato fedeltà ad Osama.
Ma il «generale» Dostumo, uno dei signori della guerra afghani, che è di etnia uzbeka, anti-talebano e sostenuto dai servizi dell’Uzbekistan, è riuscito ad infiltrare uomini suoi in questo gruppo.
E invia informazioni agli amici di Tashkent, che le diramano puntualmente «a Washington, Londra e Parigi».
A dirlo, con nome e cognome, è un altro pensionato del DGSE: Alain Chouet, che fino al 2002 ha diretto nei servizi la direzione anti-terrorismo.
«Ma il DGSE non si contenta dei rapporti dei servizi amici», nota Le Monde.
Raccoglie notizie di prima mano sul campo, e non solo con l’intelligence digitale americana: ha «manipolato e reso agenti giovani candidati al Jihad nelle grandi città d’Europa», e «ha spedito presso l’Alleanza del Nord del comandante Massoud suoi uomini del servizio-azione».
Agenti francesi.
Un giorno vi racconterò che gente è; ne incontrai uno a Sarajevo assediata, «giornalista» giovane, atletico, il solo che poteva passare le linee serbe senza problemi; mi disegnò su un tovagliolo tutte le linee d’assedio serbe, tutte le postazioni d’artiglierie e mitragliatrici: aveva la mappa stampata in testa.
«Service-action», apprendo ora.
Così lavorano i veri servizi.

Pierre Brochand è il capo attuale del DGSE.
Perciò non parla con Le Monde.
Ma «una persona vicina a Brochand» parla.
Dice che loro seguono Osama dal 1995.
Che nell’ottobre 2000, sanno che la decisione di dirottare un aereo americano è stata presa e mantenuta da Osama.
Ancora più: dice, la persona «vicina a Brochand», che lui ha dato le informazioni giuste e in anticipo alla CIA fin da gennaio 2001.
Anzi fa di più e peggio, l’anonima «persona vicina a Brochand»: brucia l’agente CIA a cui ha dato l’informazione, facendone il nome.
Si tratta di Bill Murray, capostazione CIA a Parigi.
Chiedete a lui se si ricorda e se ha girato le nostre informazioni a Langley, dice «la persona vicina».
Le Monde esegue.
Rintraccia Bill Murray e pone le domande, «ma mister Murray non ha ritenuto di dar seguito alle nostre telefonate».
In ogni caso, la vendetta di Brochand è consumata.
Murray è bruciato.
Quanto ai direttori della CIA in USA, «non ricordano» di aver ricevuto preallarmi dal DGSE.
Non ricorda Gary Berntsen, direttore delle «operazioni» CIA dal 1982 al 2005.
Non ricorda Michael Scheuer, capo della cellula anti-Al Qaeda fino al 2004.
Né il voluminoso rapporto della commissione senatoriale d’inchiesta sull’11 settembre dice in alcuna parte degli avvertimenti ricevuti dalla CIA, né che la CIA li abbia riferiti al governo.
Sulla rete di Al Qaeda, i francesi sanno tutto.
E oggi, attraverso Le Monde, decidono di far sapere al mondo quello che sanno, e che gli americani – pure informati – sembrano non sapere.
Un documento del DGSE, 13 pagine, data 24 luglio 2000, contiene un organigramma preciso dei capi veri di Al Qaeda.
C’è Osama, c’è Al Zawahiri, di cui tanto abbiamo sentito parlare.
Ma ci sono personalità che i media USA ed europei sembrano ignorare, su cui nessuna CIA ha richiamato l’attenzione.
Abu Kahab, ad esempio.
Il braccio destro di Bin Laden, artificiere d’origine egiziana, «che ha insegnato la scienza degli ordigni artigianali a generazioni di jihadisti».
Ne avete mai sentito parlare?
Io no, confesso.

Eppure è un bersaglio importante da eliminare: è l’artificiere di Al Qaeda.
Il DGSE, nel suo rapporto, «enumera le informazioni scambiate sul personaggio con il Mossad, la CIA e i servizi egiziani. Non si ignora nulla dei suoi percorsi e dei suoi spostamenti», dice velenoso Le Monde.
Potete pensare che l’infallibile Mossad o anche la CIA abbia messo alcuni dei suoi migliori assassini professionali alla caccia di un simile personaggio.
Invece no, nulla.
Del resto, questo è sì l’artificiere-capo, ma di tipo «artigianale», butta lì il DGSE.
L’11 settembre non aveva nulla di artigianale.
È stato un’altra cosa.
Il DGSE stila un vero organigramma.
Sahad al-Sharif, parente di Osama, è capo del «Comitati degli affari finanziari» di Al Qaeda.
Mohamed Atet, alias «Abu Hafs al Misri», egiziano, guida il «Comitato affari militari» ed è «successore designato di Osama».
Abdullah Mohamed, saudita, è capo del «comitato per l’Educazione».
Ibn Sheik, libico, è responsabile dei «campi per volontari stranieri».
Ayman al-Zawahiri – eccolo finalmente, piuttosto in basso nella scala gerarchica, non il numero due ma uno dei numeri due – guida il «Comitato politico».
Ci sono altri nomi, altre foto, non abbiamo spazio per parlarle.
Ma una cosa è chiara: Al Qaeda non è una «rete diffusa», una «nebulosa» o un «franchising», una sigla senza capi né volti come ci dicono il Mossad, la CIA e i loro giornalisti di fiducia quali Magdi Allam e, nel piccolo, Introvigne.
Per il DGSE, è un’organizzazione ben strutturata con un comitato esecutivo di personaggi identificati, di cui non si ignorano gli spostamenti e le ubicazioni.
I francesi sanno perché seguono le mosse di Al Qaeda contro interessi francesi.
Per esempio sanno che Omar Chabani è l’emiro incaricato di inquadrare i militanti mujaheddin algerini: grazie a lui, nel 2001, Al Qaeda ha messo a disposizione dei mezzi e delle strutture al Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, algerino.
Sanno che Nidal Abdel Hay al Mahaini, per esempio, è il delegato di Osama per il Corno d’Africa, perché temono attentati nelle loro basi a Gibuti.
E il DGSE segnala addirittura che il personaggio, appena arrivato nella Somalia francese, «ha incontrato il presidente della repubblica di Gibuti».
Solo gli americani non sanno niente.
Niente di così preciso sul loro nemico pubblico numero uno e la sua organizzazione.
Il DGSE ha mandato loro tutte queste informazioni, ma continuano a non sapere niente di quegli uomini e di quei dirigenti.
Boh.
La complicità regale saudita.
Ecco un altro capitolo scottante.

La DGSE ha le prove della più vasta collaborazione fra Osama e «uomini d’affari e organizzazioni dell’Arabia Saudita», continuate anche dopo l’11 settembre.
Il 24 luglio 2000, l’Islamic Relief Organisation, «struttura posta sotto la tutela diretta della Muslim World League, essa stessa considerata come strumento degli ulema sauditi», gira al capo di Al Qaeda un versamento di 4,5 milioni di dollari.
Ma il governo americano, e specificamente il Tesoro, non ha messo questa organizzazione nella lista dei gruppi terroristi e affiancatori del terrorismo islamico, se non dal 3 agosto 2006.
Un certo ritardo, cinque anni dopo l’11 settembre.
Eppure la lista è affollata di nomi e di organizzazioni molto, ma molto meno importanti.
Eppure il ministero degli Esteri francese aveva – già dal 1999 – proposto all’ONU una convenzione internazionale «contro il finanziamento del terrorismo», in cui citava anche l’organizzazione di cui sopra.
Si noti che nel 2000 già bin Laden era «attivamente ricercato» dagli americani per l’attentato all’ambasciata di Nairobi e uno simile a Dar es-Salam; già a quell’epoca, la famiglia imprenditoriale e miliardaria dei bin Laden aveva ufficialmente rinnegato la sua pecora nera.
Dal 1999.
Se al posto della CIA ci fosse stato il DGSE, non sarebbe avvenuto alcun 11 settembre.
Ma il DGSE è scettico.
Nel luglio 2000 scrive nel rapporto: «Sembra sempre più probabile che Osama bin Laden abbia mantenuto contatti con alcuni membri della famiglia, benchè questa, che dirige uno dei maggiori gruppi di lavori pubblici nel mondo, l’abbia ufficialmente rinnegato. Uno dei suoi fratelli pare svolgere il ruolo di intermediario nei suoi contatti professionali e nella condotta dei suoi affari».
Perché Osama, benchè ricercato e dedito al terrorismo, ancora lavora come professionista delle costruzioni.
Hobby (terrorismo) e business si mescolano nelle azioni della pecora nera.
Il DGSE, il 13 settembre 2001, due giorni dopo l’attentato, richiama l’attenzione su «un potente banchiere saudita vicino alla famiglia reale» il quale sarebbe l’architetto delle strutture bancarie «che sembrano essere state utilizzate per trasferire al terrorista fondi provenienti dai Paesi del Golfo».
Quei Paesi filo-americani che credevano di dare una mano ad un agente americano, all’eroico organizzatore della guerriglia afghana anti-sovietica.
La DGSE elenca addirittura i beni e gli affari sotto controllo diretto di Osama: lavori, ditte, terreni, edifici e commesse in Sudan, Malaysia, Yemen, in Bosnia… più un albergo di lusso alla Mecca, in Arabia Saudita, che nel 2001 risultava ancora di proprietà dell’ufficialmente rinnegato.
Strano che il Mossad non sembri saperne nulla.
«Il ritiro della cittadinanza saudita a bin Laden è una pagliacciata», dichiara il già citato pensionato-spia Alain Chouet, evidentemente echeggiando i sentimenti dei dirigenti DGSE in servizio: «per quanto ne so, nessuno ha fatto nulla per catturarlo tra il 1998 e il 2001».

Nessuno: non solo i sauditi, ma la Cia.
I servizi di Parigi ci spiegano anche un fatto enigmatico e mai spiegato: le dimissioni del capo dei servizi sauditi, il principe Turki al-Faisal, membro della famiglia reale, pochi giorni prima dell’11 settembre.
Dimissioni forzate.
Secondo il DGSE, rapporto datato 2 ottobre 2001, «in occasione di recenti viaggi a Kandahar, il principe Turki non è riuscito a convincere i suoi interlocutori [talebani] a estradare Osama bin Laden».
Questa nota laconica si presta a interpretazioni.
Una che può essere: il principe Turki stava cercando di salvare i talebani dalla trappola in cui stavano per cadere, anzi lo stesso Osama, suo uomo dai tempi della guerra antisovietica?
Era contrario all’imminente impresa di Osama o a lui attribuita?
Si è dimesso o è stato costretto a dimettersi per aver cercato di sventare il grosso evento imminente?
Certo è che Turki sapeva.
Sapeva tutto prima.
Tanto che ha voluto dare una certa spettacolarità alla sua dimissione, pochi giorni prima dell’evento.
Come a dire: io non c’entro con questa faccenda.
Sapeva ancor più dell’ottimo DGSE, che ha continuato a pensare a un classico progetto di dirottamento, con presa d’ostaggi seguìta da negoziato.
In qualche modo, anche i sagaci servizi di Parigi sono stati colti di sorpresa dall’11 settembre.
Eppure seguivano bin Laden con attenzione estrema.
Fin al 1995.
Conoscevano tutti i suoi luogotenenti, le loro funzioni, i loro spostamenti e ubicazioni.
È evidente che a loro non sfuggiva nulla di quel che stava preparando il vero bin Laden.
Ma qualcuno si è «sovrapposto» ai progetti del vero bin Laden.
Qualcuno ha condotto la spaventosa, sofisticatissima operazione – dirottamento simultaneo di quattro aerei e loro lancio su Manhattan e sul Pentagono – con scopi di spettacolarizzazione che esulavano dagli intenti del vero Osama.
Un falso Osama.

Forse un Osama bin Mossad?
Un Al Qaeda Al-CIA?
Il DGSE non dice nulla esplicitamente.
Solo, «commissiona» su Le Monde un’inchiesta in cui i suoi capi ed ex capi si lasciano intervistare e prodigano interi documenti «confidential-secret» e «usage strictement national».
In modo che qualunque lettore tragga da sé le sue conclusioni.
Non qualunque lettore: il lettore attento, i colleghi dei servizi amici, nemici e falsi amici.
Ora anche voi, cari lettori, potete trarre le vostre conclusioni.

Note
1) Guillaume Dasquiè, «Les français en savaient long», Le Monde, 17 aprile 2007. Dasquiè è l’uomo che, con Jean Charles Brisard ha scritto «Bin Laden, la verité interdite», che è stato il primo documento a lanciare dubbi sulla versione ufficiale dell’11 settembre. Recentemente i due hanno dovuto pubblicare scuse esplicite a due sceicchi sauditi, per evitare una pesante condanna di tipo pecuniario: quello di mettere alla fame con condanne civili e risarcimenti miliardari è un tipico sistema che i poteri forti usano per mettere a tacere voci scomode. Hanno fatto lo stesso con Irving e il conte Nicholay Tolstoy, lo storico che ha documentato come gli inglesi consegnarono a Stalin 300 mila cosacchi anti-comunisti, che s’erano arresi agli alleati in Austria, destinandoli al massacro. Dasquié è sicuramente un portavoce mon ufficiale dei servizi. Ha intervistato John O’Neil, l’alto funzionario dell’FBI che si dimise nell’agosto 2001 accusando l’amministrazione Bush di ostacolare le indagini su Al Qaeda, e che trovò subito un altro ben pagato lavoro: capo della security alle Twin Towers, sotto le cui macerie è scomparso l’11 settembre, senza aver nemmeno completato il suo primo mese nella nuova carica.

(Tratto da www.effedieffe.com)

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