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INDIA SENZA CONTANTE. TEST “IN CORPORE VILI” (SEGUE CARESTIA)

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Cinquantun giorni fa, il premier Narendra Modi ha voluto fare dell’India la prima società senza contanti. Entro il 31 dicembre, tutte le banconote da 500 rupie (7,5 euro) o mille (15 euro) – il taglio medio – dovevano esser depositate in banca, dalla quale si sarebbero potuti ritirare solo tagli più piccoli. O più grossi, da 2000 rupie in su.
Lo scopo dichiarato dal governo (nazional-populista) era stroncare l’economia informale e il “nero”, i lucri mafiosi, le mazzette, l’evasione fiscale nelle transazioni; ciò “nell’interesse dei cittadini che guadagnano onestamente e col sudore della fronte”.
Il fatto è che l’economia informale e in nero “è” la sola di cui vivono, in India, i poveri. Per disperata necessità. Il pedalatore sul ricksciò che vi trasporta a Calcutta o Bombay per qualche centesimo, e con esso mantiene la numerosa famiglia, non è proprietario del mezzo: lo ha affittato a giornata ad un “capitalista” di quartiere che ne possiede dieci, e a cui deve dare metà o più dei suoi magrissimi guadagni. Il “capitalista” può permettersi di non lavorare, ed è un microscopico capo-bastone di una delle onnipresenti mafie locali. La maggior parte dei “lavori” di strada, dal facchino al venditore di tè, nascono da questo tipo di sub-appalti, dove dei meno poveri sfruttano senza scrupoli i poverissimi.
Quanti sono? Un miliardo di persone o giù di lì. Si ricordi che l’India ha un Pil pro capite di 1.718 dollari: l’anno. Quello cinese è il triplo. A parte i circa trecento milioni di indiani moderni, urbani e che sanno tutto o qualcosa di elettronica e guadagnano benino – o benissimo, visto che il boom ha creato una ventina di milioni di famiglie che posseggono l’equivalente di un milione di euro – c’è poi il miliardo di persone che guadagna, se ci riesce, 2 o 3 dollari il giorno. Metà dei quali non ha accesso alla elettricità, e nemmeno all’acqua corrente e a toilette. La metà defecano all’aperto, anche nelle megalopoli. Il 46% dei loro figli sotto i cinque anni sono rachitici (la percentuale senza confronto più alta del Terzo Mondo) per malnutrizione. I papà non sono mai entrati in una banca.


Defeca così il 50% della popolazione

Ora, il governo si aspetta che questo miliardo o giù di lì scambi i suoi 2 o 3 dollari al giorno attraverso bancomat e POS, con carte di credito, che apra un conto corrente. Persino molti milioni della classe media non hanno dimestichezza con i distributori automatici di moneta; figurarsi quelli. Oltretutto, ogni transazione via elettronica subisce un prelievo del 2% per spese bancarie e tasse; l’elettricità va e viene persino nelle grandi città come Mumbai e Calcutta, per non parlare delle connessioni internet; nelle sterminate campagne è raro ci sia la luce, e del web non si ha alcuna nozione, poiché le masse vivono come mille anni fa, ed esistono aree tribali dove si vive come tremila anni orsono. Una banca, non l’hanno mai vista e non sanno cosa sia.
A queste si chiede di digitare la password e il PIN su un apparecchio elettronico portatile?

Non basta ancora: bisogna tener conto della immane e corpuscolare corruzione pubblica. Se vuoi un passaporto per emigrare, devi pagare una mazzetta. Se vuoi la patente di guida, un’altra. Se vuoi che l’acqua o la luce ti arrivi a casa (o nella fatiscente costruzione di ondulato della bidonville) devi pagare una tangente. Se ti rivolgi alla polizia o a un tribunale, paga. L’economia è oliata in questo modo, ovviamente in nero, a prezzo di inefficienze spaventose. Il ritiro del contante (le banconote da 500 e 1000 rupie contavano per l’86% del circolante) l’ha istantaneamente grippata per mancanza di lubrificante.
Risultato: i prezzi degli alimentari sono crollati. Dal 25 al 50%. Non certo per eccesso di offerta, ma perché i poveri non possono comprare niente. In vaste zone rurali i coltivatori, non riuscendo a spuntare prezzi che coprano almeno le spese di trasporto, hanno distrutto i raccolti buttandoli sulle strade, sotto le gomme degli automezzi; molti di loro non hanno i fondi per comprare le sementi per il prossimo raccolto. Si profila una carestia senza precedenti. Anzi, è possibile che nelle zone più remote e nelle aree tribali la fame già uccida le comunità di cui nessuno s’interessa, che non hanno mai avuto alcuna economia formale, tracciabile o tassabile.

Nelle megalopoli, le brulicanti attività marginali, il venditore di betel o di tè, il portatore di colli, il piccolo artigiano aggiustatore, il commerciante di stracci, la lavandaia, i pedalatori di riksciò, sono rarefatte. Manca il denaro. La tv ha mostrato cittadine come Moradabad, dove il 60 % degli artigiani che affollavano le strade (si lavora all’aperto) sono scomparsi.
Un altro servizio televisivo mostra come a Brindabandpur, nel Bengala Occidentale, si sia tornati al baratto. Le contadine a giornata sono state pagate in riso: il padrone delle coltivazioni si lamenta, non riesce ad avere i soldi dalla banca, quindi paga le sue lavoranti in natura. Due chili di riso al giorno. Uno, lo consumano per i pasti loro e della famiglia. Con l’altro loro chilo, le donne vanno nel negozio del villaggio e mostrano quel che hanno ottenuto in cambio. “Per un chilo di riso mi ha dato patate, sale e zucchero”; “Per un chilo di riso, ho avuto patate ed olio da cuocere. Volevo dei biscotti per il mio bambino, ma non bastava”. Ovviamente, con il riso e le patate che ricevono come paga, non possono comprare alimenti come il pesce secco o un po’ di carne di pecora. Il baratto non è un sistema efficiente di compravendita: i bottegai hanno il potere di “fare” il prezzo del chilo di riso, decidere quante scatole di fiammiferi e quanto olio di colza “vale”. E non si fanno scrupoli; il povero è di una casta diversa, in genere bassa, verso cui quindi il commerciante non sente alcuna solidarietà.

Ciò vale per l’intera federazione, in realtà un brulicare di “nazioni” con lingue diverse, e suddivisioni di casta: i circa trecento milioni della media o bassa borghesia non hanno alcuna compassione, né la minima preoccupazione, per il miliardo di miserabili: sono di altra casta – e la solidarietà funziona solo all’interno delle caste. Anzi, i relativamente benestanti del Maharastra non hanno nemmeno l’idea di come vivano i disperati nell’Orissa, e nessuna curiosità. Non organizzeranno collette per i soccorsi agli affamati, che non sentono come connazionali.
Lo stesso primo ministro Modi ha dimostrato, con questa decisione, di vivere nella bolla castale; per lui il miliardo che viveva di economia informale non esiste. Sta spendendo mezzo miliardo di dollari per l’erezione di un colossale monumento a Shivaji, un maragià (1627-1680) che combatté e vinse con inaudita ferocia contro il moghul Aurangzeb (musulmano), ed è diventato il simbolo mitico dell’hindutva, ossia del nazionalismo basato sulla religione hindu, per i partiti di estrema destra (quello estremista del Maharastra si chiama “Shiv Sena”, e il suo nome evoca insieme il dio Shiva e Shivaji, inteso come una sorta di incarnazione di Shiva per la sua violenza guerresca). Il Shiv Serna, che organizza una ferrea rete di assistenza e dominio nelle sterminate bidonville di Mumbay, ha criticato Modi per come ha realizzato la demonetizzazione. È dubbio se il monumento all’eroe mitico del partito possa placarlo.
La gigantesca classe più o meno fortunata ed evoluta si preoccupa per il calo repentino dei dati industriali, che stanno facendo perdere all’India il primato fra i paesi in più rapido sviluppo: la fabbrica di motociclette Bajaj Auto Ltd. ha denunciato un crollo delle vendite, a dicembre, del 22 per cento; il mercato delle moto (tipico mezzo rurale) è caduto del 18%. La Maruti Suzuki Ltd., che fabbrica utilitarie ed è il maggior fabbricante d’auto per volumi, ha dichiarato un calo del 4,4% a dicembre. In compenso, le banche – strapiene di depositi – offrono crediti a tassi minori, il che può indorare la pillola al ceto medio, e forse consentire una ripresa dopo la crisi infartuale.
Fino al 31 dicembre, infinite code si sono formate davanti alle banche per depositare le banconote che perdevano valore. La mafia si offriva di prendere 1000 rupie pagandole 800, uno sconto del 20% – e un lucro di intermediazione del 20% per i criminali. Oggi, scaduto il termine, la Mafia, per motivi che mi sfuggono, offre per le banconote scadute un premio del 10%.
La mafia (o le mafie locali) ha offerto un utile servizio nei giorni scorsi ai benestanti che dovevano cambiare le banconote senza fare la coda: ingaggiavano miserabili che facevano la coda per loro, in sub-appalto. Qualche milione. La polizia offriva informalmente lo stesso servizio, usando come documenti di identità da presentare allo sportello le fotocopie di carte di identità di ex carcerati. Insomma l’abolizione del contante, che doveva stroncare il “nero”, ha offerto all’economia illegale altre e grasse opportunità. Anche di sfruttamento.


Anil Bokil a sinistra. A destra, Modi.

Il premier Modi è stato ispirato nella sua fatale decisione da oscuri suggeritori dei poteri forti globalizzatori? Da Goldman Sachs? George Soros? Il Fondo Monetario? No. Ha dato ascolto ad un movimento che promuove una teoria economica molto indù, chiamata ArthaKranti (Rivoluzione Finanziaria). Il teorico principale della teoria sembra essere Anil Bokil, un signore molto intervistato che abita ad Aurangabad e si dichiara “architetto e contabile autorizzato”, che la spiega così: “La massa di liquidità ‘nera’ è quella che fa salire alle stelle i prezzi immobiliari, case, terreni, gioielleria (sic); il denaro guadagnato onestamente perde valore”; con la demonetizzazione questa ricchezza “falsa” sarebbe azzerata, con gran vantaggio per tutti, specie i poveri (che sono effettivamente i taglieggiati). Secondo la teoria ArthaKranti, ciò permetterà alla fine di abolire tutte le imposte sul reddito, anzi tutte le tasse (tranne i dazi doganali), sostituendole con una tassa dell’1 per cento su ogni transazione. Ciò ha conquistato il favore dei ceti medi stipendiati, che sognano la fine del prelievo fiscale sulle loro paghe. Adesso stanno avendo qualche ripensamento: non possono ritirare l’integralità delle loro paghe. I loro conti correnti sono stati congelati perché mancano le banconote nuove; quelle che sono state stampate in tutta fretta, sono di qualità miserevole, si sfaldano in mano, sbavano l’inchiostro, sono facili da falsificare. Il signor Anil Bokil, nelle ultime interviste, ha criticato con forza il premier Modi, accusandolo di aver applicato le teorie dell’ArthaKranti in modo pasticciato e incompleto: attuando solo due delle cinque misure raccomandate dalla teoria.


La statua di Shivaji.

http://www.india.com/news/india/anil-bokil-who-suggested-demonetization-drive-slams-narendra-modis-implementation-process-1658549/

 
Adesso, l’Australia
In questa, anche l’Australia si accinge ad eliminare dalla circolazione il biglietto da 100 dollari australiani (meno di 70 euro); stavolta su consiglio dei banchieri dell’UBS e della HSBC. Quindi scientifico. “Siamo convinti che togliere di mezzo la denominazione massima sarà buono per l’economia e buono per la banche”, dicevano i due istituti internazionali nel rapporto al governo. Siccome le banconote da 100 dollari “sono detenute dal pubblico come riserva di valore, quindi tendono a non circolare attivamente”. Naturalmente, i benefici includono, secondo le due grandi banche, la “trasparenza” aumentata, l’aumento delle “imposte sulle transazioni”, e la riduzione delle “attività illegali”. Vero è che in Australia, paese evoluto, la Banca della Riserva (la Banca centrale) assevera che le transazioni in contanti diminuiscono costantemente: del 3,4% l’anno dal 2009, mentre le transazioni a credito crescono del 7,3%.

https://www.theguardian.com/business/2016/nov/28/analysts-call-for-australias-100-note-to-be-scrapped

L’esempio australiano sarà guardato con attenzione dai  poteri  tecnocratici che in Europa vogliono  l’abolizione del contante. Hanno già tolto di mezzo le banconote da 500, quelle da 200 e da 100. Nessuno deve usare il denaro come salvadanaio, “riserva di valore”;  nessuna  deve sottrarsi al potere bancario e fiscale.

Fonte: maurizioblondet.it

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