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La Convenzione di Aarhus ed il gioco dei diritti di Paolo Cortesi

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Di certo, i mass media non hanno banchettato con questo tema, come
invece fanno, con una enfasi ed una impudica frenesia che talvolta
raggiunge il paranoico, per altri soggetti.

La Convenzione di Aarhus prende il nome della città danese in cui è
stata sottoscritta da una ventina di paesi il 25 giugno 1998. E’ stata
ratificata alcuni anni dopo dai vari governi (europei, ma anche della ex
Unione Sovietica: ovviamente assenti gli Stati Uniti d’America, che
vivono con la presidenza Bush jr. la loro più cupa e intransigente
stagione antiecologica) ed è entrata in vigore il 30 ottobre 2001.

La Convenzione di Aarhus, sebbene non abbia scaldato i cuori dei popoli,
è stata salutata con entusiasmo davvero straordinario. Per Kofi Annan,
segretario generale dell’ONU, è "la più ambiziosa impresa di
democrazia ambientalista realizzata sotto gli auspici delle Nazioni
Unite".

Klaus Topfer, direttore esecutivo dell’United Nations Environment
Programme, la saluta come "una occasione d’oro"; mentre per Costas
Themistocleous, ministro dell’agricoltura di Cipro, "è la prima
volta che l’ambiente è così strettamente collegato ai diritti
umani".

Per Satu Hassi, ministro dell’ambiente ed energia di Danimarca, "la
data di entrata in vigore della Convenzione di Aarhus segna un giorno
speciale nella legislazione ambientale internazionale".

Il nostrano Altero Matteoli ha dichiarato: "La Convenzione di Aarhus
è lo strumento più avanzato al mondo nella promozione dei diritti del
popolo a giocare un ruolo attivo nella creazione di una società più
ecologicamente sostenibile".

Ma, in nome degli dei!, cosa stabilisce questa provvidenziale
Convenzione? Quale balzo gigantesco essa farà compiere alla umanità
redenta da legislatori sì meritevoli?

Essa, in parole semplici e veritiere e non con la retorica litania dei
suoi artefici, ha un solo scopo: permettere
ai cittadini di sapere cosa si sta decidendo sulla qualità della loro
vita presente e futura.
Quello che ad ogni persona ragionevole
appare (ed è) il più ovvio e naturale dei diritti, viene sbandierato
dai governanti come una clamorosa prova di democrazia.

L’obiettivo della Convenzione è sensibilizzare i cittadini sui
problemi ambientali favorendo l’accesso all’informazione e la loro
partecipazione al processo decisionale. Ma cosa c’è in tutto questo
che non dovrebbe già essere normalmente
previsto
?

Perché proclamare un atto di fulgida democrazia quello che è il più
irrinunciabile diritto di tutti, ovvero conoscere (almeno conoscere…)
quello che i governi intendono fare del mondo in cui tutti vivono? Quale
è il merito? E perché mai un governo, che si dice rappresentante del
popolo, non dovrebbe fornire informazioni e coinvolgere i cittadini (per
i quali dice di lavorare) nel processo decisionale?

Insomma: quale gioia dovremmo provare, quale riconoscenza per un atto
dovuto
?

La Convenzione, poi, fissa diverse limitazioni che lasciano sempre e
comunque ai governi la decisione finale in merito ad ogni procedimento.
L’accesso alle informazioni prevede dieci casi in cui esso non è
consentito: il rifiuto, ad esempio, è ammesso nel caso in cui
l’autorità pubblica non sia in possesso dell’informazione
richiesta. E questo è lapalissiano: non posso dare quello che non ho.
Tuttavia, chi garantisce che la autorità pubblica non neghi di disporre
di quei dati che invece ha ma non vuole diffondere?

Il rigetto di una
domanda è anche previsto per motivi di segreto delle deliberazioni
delle autorità pubbliche, ed allora siamo sempre allo stesso punto:
l’autorità concede solo quelle informazioni che intende concedere.
Dov’è, dunque, la grandiosa ventata liberatrice e democratica della
Convenzione di Aarhus?

Il segreto commerciale e industriale viene riconosciuto e difeso dal
documento, e quindi una grossa fetta di informazioni "delicate" non
arriverà mai al popolo, nonostante tutte le belle parole dei ministri.

Ma la perla di tutta questa fiaba mi sembra il punto in cui è stabilito
che informazioni possono essere rifiutate al pubblico per motivi di
carattere confidenziale dei dati, e siamo daccapo: chi decide cosa e
quanto un dato sia confidenziale? E del resto, ha senso definire confidenziale.

Applicando alla lettera la Convenzione di Aarhus, noi oggi non potremmo
disporre di dati relativi allo scoppio della centrale nucleare di
Chernobyl, perché tale sciagura poteva essere coperta dal segreto per
almeno un paio di motivi previsti dalla Convenzione: motivi di
segretezza per difesa nazionale e per pubblica sicurezza. E state pur
certi che, se occorre, i governi sapranno interpretare nel modo più creativo
i termini del trattato…

Nonostante i colpi di grancassa dei governi, non mi sento di festeggiare
la Convenzione di Aarhus, che francamente non considero una meravigliosa
opportunità, quanto piuttosto una occasione perduta.

E non mi sento neppure di accoglierla secondo il principio "meglio
questa che niente": è proprio con tale sillogismo avvelenato che i
governi ci propinano tutto quello che vogliono, ed il sistema del
bastone e della carota forse può andare bene per docili muli, non per
esseri umani che tentano di usare al meglio il loro cervello.

La Convenzione di Aarhus mi sembra paradigmatica sulla reale
natura del rapporto tra autorità e cittadini
: tale rapporto non è
fondato su una serie di effettive garanzie di trasparenza e
verificabilità, ma soltanto sulle dichiarazioni a senso unico di chi
governa. E’ infatti chi governa che decide se e come riconoscere
quegli stessi diritti che concede alle popolazioni le quali (notate bene!) sarebbero
rappresentate limpidamente dai governanti medesimi… Neppure Houdini si
sottopose mai a funambolismi così contorti! Infatti: come salvare capra
e cavoli?

Come salvare la faccia splendente della Dea Democrazia e, al
tempo stesso, continuare a comandare?
Come continuare a pretendere l’osservanza delle proprie decisioni e,
al contempo, la solerte partecipazione dei cittadini a decisioni che li
scavalcano o li schiacciano?

Risposta: con tanti trattati che, sulla carta, rappresentano "le più
ambiziose sfide della democrazia ambientalista", ma che tra una riga e
l’altra fissano, discreti ma insormontabili, limiti, paletti,
ostacoli, eccezioni, discrezionalità, vincoli…

Mi viene in mente un caso recente di sedicente trasparenze delle autorità…
L’ente gestore di una diga per anni si rifiutò di comunicare dati e
informazioni ad una associazione ambientalista; infine, non potendo
continuare sfacciatamente questo atteggiamento dittatoriale, si dichiarò
pronto a fornire i documenti richiesti, ma
con una sola, piccola condizione: ogni fotocopia andava bollata!!


Duole dirlo, ma la Convenzione di Aarhus non è il meglio che si
possa fare in tema di ambientalismo e di diritto alla informazione.

Secoli fa, nell’ancien regime,
le costituzioni erano "graziosamente concesse" dai sovrani. Oggi le
formule sono molto cambiate, e i termini in voga sono partecipazione,
confronto, dialogo, trasparenza…


La sostanza è ancora paurosamente, tristemente la stessa.

Per quanto ciò sia inquietante, proprio questa è la tendenza
generalizzata della politica del Duemila: ciò che conta (ciò che deve
contare) non è quello che si fa effettivamente, ma quello che si dice
di stare facendo. La finzione si sovrappone sempre di più alla realtà,
creando un "mondo virtuale parallelo" che dà corpo, ogni giorno di
più, ad incubi orwelliani.
Un dato relativo all’ambiente, cioè allo spazio naturale, cioè in
ultima analisi a tutti noi?

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