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La coscienza malata della psichiatria

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Fondamenti storici dell’infamia

 

Se non la smetti di pensare ti sbattiamo dentro”(1)

(V.I. Buzin)

 

Il potere, da sempre, ha usufruito degli stregoni della psiche per differenziare i conformi dagli inadeguati, gli adattati dai disubbidienti, oggi si direbbe i resilienti dai resistenti: insomma, i benpensanti – secondo le normative dettate e la risposta positiva   di un numero sufficiente di remissivi – dai critici, dai dubbiosi, dai refrattari, dai renitenti alla propaganda. Il regime sovietico è considerato, a ragione, il punto di riferimento per la pratica psicopolitica. Il procedimento messo in piedi dall’apparato sanitario e da quello giudiziario, per cortocircuitare alcuni impedimenti legislativi riguardanti i trattamenti sanitari obbligatori, era di una semplicità disarmante. Per evitare lo scandalo del passaggio automatico libertà-manicomio del dissidente, si creava un reato, poi si richiedeva una perizia psichiatrica a fine interrogatorio, il perito trovava spunti psicopatologici nel comportamento e il gioco era fatto. La repressione psichiatrica, che il regime sovietico ha applicato nei confronti degli intellettuali non allineati – poeti, filosofi, scrittori –, è ormai un documento della vergogna universalmente accettato. Per altro, nonostante le proteste dell’opinione pubblica che, dopo Stalin e il suo terrore, si erano manifestate con azioni sempre pacifiche, ma di caratura internazionale, il blocco occidentale rimase sordo agli allarmi lanciati a tutela della libertà di espressione e della psichiatrizzazione del dissenso. Gli appelli all’ONU e all’UNESCO da parte del “Comitato per la difesa dei diritti dell’uomo” subirono un vergognoso silenzio, così come un appello al V Congresso di psichiatria di Città del Messico nel 1971 cadde nel vuoto. In compenso, “il professor A.V. Sneževskij, direttore dell’Istituto di Psichiatria dell’Accademia delle scienze mediche dell’URSS […] ha potuto pronunciare indisturbato la sua relazione inneggiante alle conquiste della psichiatria sovietica”. Le personalità del mondo della scienza e della cultura, nonché semplici cittadini marchiati dal sospetto della critica o dal credo religioso, furono numerose, e tutte finirono nei due gironi clinico-carcerari. Per rendere l’idea delle procedure messe in atto, è necessario – oltre che storicamente interessante – seguire le vicende di alcuni dei protagonisti e, quando è possibile, seguirne le diagnosi psichiatriche. V.E. Borisov, attivista per i diritti umani, sottoposto a trattamento farmacologico perché considerato incapace di intendere e di volere, morì impiccandosi nell’infermeria. Diagnosi: mancanza di senso critico documentato dalle calunnie contro lo Stato. A. Esenin-Vol’pin, matematico di fama internazionale, catturato in quanto “non consapevole della sua malattia”, a causa della condizione di “insensatezza psichica” fu tenuto in isolamento. In sostanza, poco incline “all’adattamento”. V. Fajnberg, laurea con lode all’Università di Leningrado, impiegato al museo di Pavlovsk, venne internato con la diagnosi di “schizoeterodossia”, con conseguente cura coattiva finalizzata a stroncare ogni velleità di dissenso. V. Gersuni, muratore, membro del gruppo per i diritti civili, a causa di “apprezzamenti antisovietici”, e per il rifiuto a parlare con i medici accusandoli di “agire per conto del KGB”, fu sottoposto a perizia psichiatrica con la conclusione di “schizofrenia cronica” e rinchiuso coattivamente. N. Gorbanevskaja, poetessa, madre di due figli, arrestata e inserita nella lista dei malati mentali in quanto, “secondo il professor Lunc [affetta da] schizofrenia a decorso attenuato e insufficiente spirito critico”. P. Grigorenko, ingegnere militare, generale, insignito dell’Ordine di Lenin e dell’Ordine della Stella Rossa, docente di cibernetica militare all’Accademia, protestò più volte contro la rinascita dello stalinismo. Una volta arrestato, la “commissione presieduta dal famigerato collaboratore del KGB, professor Lunc, lo dichiarò incapace di intendere e di volere [e] ricoverato nell’ospedale psichiatrico speciale di Kazan”. Singolari i sintomi: “vittimismo” per le condizioni in cui versavano i suoi concittadini, elemento “messianico” per un auspicabile cambiamento politico, “idee riformiste”. V. Kuznecov, laurea in arti grafiche e impiegato nell’agenzia di stampa “Novosti”. Arrestato dopo un dibattito all’università di Mosca sulla “libertà nel mondo moderno”, venne ricoverato in ospedale psichiatrico di tipo speciale con la diagnosi di “evoluzione paranoica della personalità, idee riformiste, immaturità”. Ju. Mal’cev, filologo, dopo una lettera indirizzata al segretario generale dell’organizzazione delle Nazioni Unite, U Thant, venne portato a forza settore numero 5 dell’ospedale psichiatrico Kascenko, secondo la disposizione di un decreto legge del maggio 1969 che contemplava la possibilità di ricovero per “vita antisociale”. J. Medvedev, biologo e genetista di fama internazionale, con una generica terminologia clinica: “infermo di mente”. M. Narica, scultore e docente alla scuola d’arte Repin di Leningrado. Ex detenuto nei gulag, descrisse il suo internamento e la vita nei campi. Passò tre anni in un manicomio criminale. Il lavoro letterario fu considerato dalla psichiatra periziante “frutto del delirio di un pazzo”. V. Tarsis, scrittore, rinchiuso nella clinica psichiatrica Kascenko. Esilarante il commento della psichiatra di turno il giorno dell’internamento: “Perché siete qui?” Tarsis riferisce chi è, e la dottoressa esordisce: “Ah, siete uno scrittore! Allora tutto si spiega”. Queste, solo alcune delle migliaia e migliaia di testimonianze di ciò che fu il trattamento psichiatrico ai tempi dell’URSS, e di una categoria professionale che si prestò a fare il cane da guardia del sistema totalitario. Una categoria, per altro, diffusa nella sua vocazione di questurina del pensiero e di carceriera delle coscienze. E passi la sua funzione nella Cuba di Castro, ma non è da dimenticare il trattamento che la democrazia americana applicò al poeta Ezra Pound, sequestrato per dodici anni nel manicomio giudiziario “St. Elisabeth” con la diagnosi di schizofrenia paranoide, depressione e narcisismo. Interessanti sono le diagnosi che vengono applicate ai dissidenti, e che sono ricorse anche nella questione attuale che andremo a esaminare.

 

La diagnostica del potere

Datemi una qualunque frase di un galantuomo e vi troverò elementi sufficienti per mandarlo al patibolo”(2)

Antoine Quentin Fouquier de Tinville

 

Ogni potere totalitario, che sia quello del pensiero unico dell’ideologia assoluta o quello del politicamente corretto del relativismo progressista – due situazioni diverse della stessa atmosfera alienante – si fonda necessariamente sulla parola, e sulla necessità di modificare sintassi e simboli al fine di confermare una realtà distorta. In questo modo, i dispositivi posti in essere dal sistema – di cui la psichiatria diventa l’arte per eccellenza nel tacitare ogni forma di disaccordo attraverso la squalifica dell’avversario mediante una diagnosi confezionata su misura – si pongono nella doppia funzione medica e giudiziaria, e “parallelamente sono anche condizionati a dare del pazzo a chi grida la verità, reclama la giustizia, e fa fuoco e fiamme per la libertà, perché costui non parla più la lingua che sono abituati a sentire”.(3)

La procedura ideologia è piuttosto semplice: stabilito che il sistema è il migliore possibile, e visto che la maggioranza vi si adegua senza particolari segnali di intolleranza, di avversione e di contrarietà, è scontato che il dissenziente, il critico, l’indisciplinato sia soltanto una persona disturbata, perché nessun uomo ragionevole e psicologicamente stabile può negare una realtà condivisa. 

Se nel citato periodo bolscevico la distorsione della realtà veniva esercitata in nome e per conto dello Stato politico, nel periodo attuale viene praticata in nome e per conto dello “Stato benevolente”(4), secondo la felice definizione di David Karp.

Ecco che, comunque, in entrambi i casi, la manipolazione diagnostica e la contraffazione nosografica è perfettamente coincidente e ratificata.

L’obiettivo condiviso è di scartare dal novero degli ubbidienti e dalla massa dei cittadini-modello coloro i quali pongono dubbi, chiedono spiegazioni, esigono verità, pretendono confronti, reclamano verifiche o, molto più semplicemente, vogliono poter esprimere perplessità e opinioni non conformi alla omologata opinione pubblica.

All’interno dell’obiettivo descritto ci sono due sottofinalità: la prima, riferita al singolo, è di sterilizzare, di depotenziare, di disinnescare la forza della sua parola: l’antico strumento retorico dell’argumentum ad hominem, l’argomento contro l'uomo, ossia la tattica di attaccare l’interlocutore invece che contestarne le affermazioni; la seconda, invece, è volta a disattivare l’influenza del singolo sull’adattamento generale, proprio insidiandone la credibilità e comprometterne la reputazione.

In queste condizioni, la professionalità dello psichiatra, quale operatore dedicato alla salute mentale della persona e della comunità, viene degradata a funzionario della psicopolizia, a custode dell’ortodossia di pensiero del potere, a burocrate delle direttive biopolitiche del ministero competente. Una fine, peraltro, simile a quella degli intellettuali insorti a difesa del generale Dreyfus nel 1898, e che pubblicarono il famoso manifesto degli intellettuali, appunto. Nati come espressione di una cultura dedicata alla difesa della verità e del rigore di pensiero, in opposizione alla propaganda del potere e all’ipnotica accettazione della maggioranza, sono finiti a fare i maggiordomi del sistema e i camerieri delle veline degli apparati di potere.

Cambiano i tempi e le circostanze, ma alla fine lo squallore emerge con dirompente evidenza. E si attiva con la perversione della parola, con la distorsione della clinica: gli intellettuali condizionano le menti attraverso il politicamente corretto e gli psichiatri con l’uso politico della diagnosi. Entrambe le categorie attive in una comunicazione oppressiva ed equivoca. La prima stabilisce il significato “giusto” delle parole, il criterio “conformato” del loro contenuto, il valore “morale” del loro significato. La seconda decreta l’esistenza di un disturbo rispetto ai parametri del potere, definisce la patologia di un comportamento confrontato con la condotta della maggioranza, qualifica come infermità tutto ciò che la persona non omologata pronuncia e manifesta.

Le due armi del sistema che massimamente – e arriviamo al nocciolo della questione – si sono espresse e divulgate in questi anni di emergenza continua e progressiva.

Dietro all’enfatico accudimento del popolo del citato “Stato benevolente” è stata abilmente nascosta la trappola dell’esperimento di ingegneria sociale. Nella battuta un po’ cinica de “l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto” si riassumono gli avvenimenti intercorsi tra il 31 gennaio 2020 e il periodo tuttora in corso. Interventi intensi, pervasivi e martellanti di intellettuali variamente raccattati hanno condizionato pesantemente la libertà di scelta, la capacità critica e l’esame di realtà di gran parte della popolazione. In contemporanea, psicologi, psicoanalisti e psichiatri si sono dedicati alla medicalizzazione dei resistenti, degli spiriti liberi e di autonoma coscienza, al fine di screditarne il valore sociale e, financo, l’integrità psichica ed etica. Offuscamento psichico e obnubilamento cognitivo: i due risultati ottenuti dai pretoriani del potere.

 

I chierichetti della teoiatria

 

Per troppo tempo si è dato loro ragione, a questa gente dappoco: così si è finito per dar loro anche il potere – e ora essi insegnano: ‘è buono ciò che la piccola gente approva’”(5)

 

Friedrich Nietzsche

 

La scienza in generale si nutre e si fortifica con il dubbio, e a maggior ragione questo criterio dovrebbe appartenere alla medicina e alla psichiatria come sua branca dagli aspetti umanistici, per non dire filosofici. In un antico lavoro del 1931, “Probabilismo. Saggio critico sulla teoria della probabilità e sul valore della scienza”, il matematico Bruno de Finetti argomenta con queste parole: “La scienza, intesa come scopritrice di verità assolute, rimane dunque, e naturalmente disoccupata per mancanze di verità assolute”.(6) Detto altrimenti, come magistralmente ha spiegato Giulio Giorello, “è attraverso l’uso del dubbio che può procedere in modo razionale per comprendere eventi incerti”. Invece, è accaduto esattamente il contrario. A fronte di una situazione di incertezza, i tecnici più o meno esperti assoldati dal governo si sono esibiti in recitazioni statistiche e in omelie epidemiologiche – peraltro risultate, poi, manomesse e spropositate, quando non false e fuorvianti – che hanno determinato decisioni e provvedimenti altrettanto ingannevoli e sconsiderati, al punto che il filosofo Slavoj Žižek pone una questione cruciale: “dove finiscono i dati e dove comincia l’ideologia?”.(7)

E se la scienza medica è sprofondata nell’ideologia, fino alla teologia sanitaria,  la psichiatria è stata di molto facilitata in questa deriva di settaria connivenza con il potere.

Un esempio per tutti è reperibile in un articolo di Giuseppe Bersani, pubblicato il 29 settembre 2022 sulla Rivista di Psichiatria e intitolato “L’altra epidemia”.

Il riassunto è chiaro: “riflessione sul fenomeno psichico della negazione della realtà della pandemia di covid-19, dei dati della ricerca scientifica su di essa e delle finalità terapeutiche del vaccino e delle politiche sanitarie nazionali d internazionali, così come questo emerge nell’ambito dei cosiddetti movimenti no-vax”.

Particolarmente interessanti sono le parole chiave dell’articolo sedicente scientifico: “teorie cospirative, opposizione al vaccino, psicopatologia, disturbi psicotici e di personalità”.

Già questo incipit è significativo per inquadrare l’impostazione ideologico-sanitaria e la sua adesione al dettato del pensiero unico.

Dato per principio il Governo come ente portatore di salute, di verità e di bene, tutti coloro che si oppongono sono evidentemente disturbati, in quanto impediti per problematiche psichiche a riconoscere questa indiscutibile realtà. E per questi portatori di alterazioni psicopatologiche, l’Illustre psichiatra ha una catalogazione pronta: “Idioti”.

Già nella specificazione della categoria, il contenuto sarebbe di per sé ridicolo, se non fosse stato – ed è – foriero di disgrazie emotive e di sciagure mediche: “negazione della realtà della pandemia nei termini in cui essa appare oggi presentata all’opinione pubblica dai mezzi di comunicazione […] l’unico bersaglio è rappresentato dalla versione ufficiale e dalla visione scientifica della pandemia”. Come se in un qualsiasi sistema totalitario la realtà non venisse propinata dagli appositi uffici della stampa e della propaganda.

Per smontare questa patetica banalità basterebbe pensare al caso Lysenko, lo scienziato dell’Accademia sovietica delle scienze che con le sue farneticanti teorie agrarie procurò una carestia omicida in URSS con milioni di morti e in Cina, tra il 1959 e il 1962 procurò la morte per fame di altri 15 milioni di persone. Naturalmente anche all’epoca gli esperti dissidenti furono considerati deliranti, perciò licenziati, sistemati nei gulag e finiti per stenti. Ma questo pensiero certamente non smuoverà le certezze dell’emulo del professor Lunc, del collega Sneževskij o di altri esimi psichiatri firmatari di migliaia e migliaia di internamenti.

L’italico psicopoliziotto parte da una considerazione: gli “idioti” presentano certamente delle “carenze educative di base”. Giusto. Lo dicevano anche i colleghi sovietici: tutta colpa della famiglia che non ha saputo instillare nel giovane la bellezza, la grandezza e le riuscite progressiste del regime. Quindi, da perseguitare anch’essa.

Quando passa a parlare di “convinzione persecutoria individuale dell’esistenza di un complotto globale”, qui la diagnosi diventa un boomerang. Perché solo un ignorante, o chi ha suoi problemi di difesa controfobica, non si è informato su documenti pubblicati in proposito. Su questo punto è inutile qualche altra precisazione: vale il termine “infame”, usato da Giorgio Agamben nei confronti di chi si oppone a chi cerca verità e giustizia, e viene squalificato con il termine di complottista.

Altri termini combaciano con l’esperienza storica citata: come “atteggiamento di base sospettoso” in chi esprime dubbi sulla validità della mascherina o sull’utilità del coprifuoco, ad esempio. O “disturbi di personalità paranoide” in chi nega l’esistenza del vaccino pretendendone la correzione semantica in farmaco genico, di chi correttamente nega la sua validità immunitaria. O “disturbo schizotipico” in chi rifiuta la somministrazione e quindi si pone in condizione di estraneità rispetto alla maggioranza e dimostra “difficoltà di adattamento”. E giù altre definizioni fino ad arrivare ad un contorto criterio di “negazione della propria mortalità”. 

Insomma, ci troviamo di fronte al un documento da rievocazione storica, come quello dell’ospedale psichiatrico speciale di Kazan, in cui si diagnosticava l’“eterodossia [insieme come] ‘reato’ e ‘malattia’”. Il regime prevedeva la riabilitazione psichiatrica, e così auspica il Nostro esilarante clinico.

Voglio concludere anch’io con una diagnosi al Collega, viste le mie competenze: “Convinzione incrollabile, sicurezza incorreggibile, premesse errate. [Perché] anche le persone sane di mente possono avere idee non corrispondenti alla realtà, e gli errori nel valutare la realtà si radicano profondamente nella coscienza”. È tutto, prof. Bersani.

 

Note

1 Buzin, del KGB di Vladimir, così si espresse nei confronti del dissidente Borisov, e per “dentro” intendeva il manicomio. Anche le altre citazioni a riguardo sono tratte dal libro di A. ARTEMOVA / L. RAR / M. SLAVINSKIJ, Condannati alla follia, Garzanti, Milano 1972.

2 Pubblico accusatore presso il tribunale rivoluzionario di Parigi durante il regime del terrore, morì sulla ghigliottina il 7 maggio 1795.

3 E. ANTÉBI, I fabbricanti di pazzia, Editoriale Nuova, Milano 1979, p. 24.

4 D. KARP, Uno, trad. it., Mondadori, Milano 2021.

5 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, trad. it., Adelphi, Milano 1991, p. 322.

6 B. de FINETTI, Probabilismo. Saggio critico sulla teoria della probabilità e sul valore della scienza, Libreria Editrice Francesco Perrella, Napoli-Città di Castello 1931 IX, pp. 87-8.

7 S. Žižek, Virus, trad. it., Ponte alle Grazie, Milano 2020, p. 21.

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