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    La guerra delle valute e quella dei soldati di Guido Carandini

    ma difficili da afferrare per chi cerca la
    verità sulla politica imperialista statunitense. E il segreto
    consisterebbe in questo: la guerra all’Iraq avrebbe una nascosta ma
    fortissima ragione nella minaccia che l’euro possa soppiantare il
    dollaro come moneta di riserva mondiale. Dunque al di là dell’esigenza
    di assicurarsi le fonti di approvvigionamento del petrolio e della
    conseguente necessità di rafforzare gli avamposti armati nella regione
    del Golfo, al di là anche delle motivazioni economiche che possono
    spingere gli Stati Uniti, come in passato, a cercare nel riarmo un mezzo
    per creare una domanda carente sul mercato e per uscire così dal
    pericolo di una grave recessione, è la difesa armata del dollaro che
    muove la potenza militare americana. L’incubo del Federal Reserve è che
    l’Opec possa a un certo punto decidere di sostituire nelle sue
    transazioni internazionali il dollar standard con l’euro standard
    imitando ciò che aveva già cominciato a fare Saddam Hussein nel 2000 –
    quando l’Euro valeva 82 centesimi di dollaro – per vendicarsi delle
    sanzioni volute da Washington e per accattivarsi il favore delle nazioni
    europee. E segnando così il suo destino. Il 16 febbraio di quest’anno
    la rivista inglese The Observer ha denunciato il fatto in un articolo
    intitolato "L’Iraq fa un bell’utile scaricando il dollaro per
    l’euro", nel quale ha osservato che l’euro, dalla data della
    decisione di Saddam Hussein, ha guadagnato circa il 30 per cento sul
    dollaro. Inoltre, dal 2001, anche il petrolio venduto in base al
    programma delle Nazioni Unite "Oil for Food" è stato pagato
    in euro per un ammontare di 26 miliardi. L’ingente guadagno dell’Iraq
    rivela qual è la perdita subita dai paesi produttori di petrolio con la
    svalutazione del dollaro. Incluso il Venezuela, che però avrebbe
    cominciato anch’esso a muoversi verso l’area dell’euro. Proviamo a
    immaginare l’effetto che avrebbe l’eventuale decisione dell’Opec di
    quotare le vendite di petrolio in euro anziché in dollari.
    Improvvisamente le nazioni consumatrici, inclusi gli Stati Uniti,
    dovrebbero convertire in euro le riserve in dollari attualmente detenute
    dalle loro banche centrali. Si determinerebbe un crollo del dollaro e
    una fuga dei capitali dalle
    borse americane e da ogni altra attività denominata in dollari. Il
    deficit della bilancia dei pagamenti americana, già alto allo stato
    attuale, diventerebbe ingovernabile con effetti gravissimi su tutta
    l’economia mondiale. Inoltre i detentori di riserve in dollari sul
    mercato mondiale, Giappone in testa, andrebbero incontro a crisi
    finanziarie devastanti.

    Un simile scenario è ovviamente impensabile dato che l’intera economia
    americana e di riflesso quella mondiale è legata al ruolo di moneta di
    riserva del dollaro. Fin dai lontani anni cinquanta e sessanta gli Stati

    Uniti sono l’unico paese al mondo che ha potuto fare a meno di garantire
    il valore della propria moneta assicurando l’equilibrio della propria
    bilancia dei pagamenti. Questo ha prodotto per lungo tempo forti
    disavanzi che il Tesoro americano ha coperto immettendo nella
    circolazione internazionale quantità illimitate di dollari facilmente
    assorbiti proprio per il ruolo di moneta di riserva che avevano assunto.
    Ma come evitare adesso che la progressiva svalutazione eroda la fiducia
    del dollaro e che quindi esso perda quel ruolo a fronte di un euro che
    si avvantaggia ogni giorno con aumenti che in un solo anno hanno
    superato il 17%?

    Si può comprendere, a questo punto, che il vero problema degli Stati
    Uniti consiste nel fronteggiare con ogni mezzo questa minaccia e, ancora
    di più, nel negarla per non creare panico negli ambienti finanziari.
    L’aver abbattuto il regime di Saddam Hussein ha sicuramente scongiurato
    l’eventualità che l’Iran e l’Arabia Saudita ne imitino a breve gli
    atteggiamenti favorevoli alla sostituzione del dollaro con l’euro, ma
    l’intervento militare non garantisce ancora affatto che il dollaro si
    rafforzi. E neppure che l’Europa modifichi il suo atteggiamento ostile
    verso la politica americana di intervento armato proprio in ragione del
    rafforzamento dell’euro e del peso che esso potrà avere nel determinare
    gli equilibri geo-politici del futuro.

    Questa diversa prospettiva di
    una guerra dollaro-euro spiega probabilmente la fretta dell’intervento
    armato e getta una nuova luce sulle ragioni, altrimenti poco chiare, sia
    della politica francese che, all’opposto, di quella inglese. Tutto
    sommato il peso dell’euro, della sua crescente forza competitiva
    rispetto al dollaro, conferisce all’Europa politicamente debole un ruolo
    di primo piano che la potenza militare americana non è in grado di
    contrastare. Dunque la Francia, malgrado sia ora in difficoltà,
    potrebbe nel tempo trascinare dietro a sé in un ruolo egemone non
    soltanto la Germania ma l’intera Unione Europea grazie alla forza della
    sua moneta.

    Quanto alla Gran Bretagna, anch’essa produttrice di petrolio, si
    può comprendere che il suo splendido isolamento nella difesa della
    sterlina, unica superstite delle monete nazionali europee, la costringa
    alla difesa strenua del dollaro e, di conseguenza, all’appiattimento
    sulla politica dell’amministrazione Bush. Gli Stati Uniti, per parte
    loro, non sono in grado di far fronte a questa situazione e di
    rafforzare la propria divisa accrescendo ulteriormente il proprio
    deficit con altri tagli alle tasse dei ricchi. Infatti le iniezioni di
    liquidità nel sistema militare-industriale dovute alle spese per il
    riarmo richiederebbero, per essere produttive, una politica fiscale
    opposta a quella dell’attuale amministrazione che rischia di ridurre
    pesantemente il potere d’acquisto delle classi medie e di aggravare così
    la recessione.

    Come si vede i giochi sono assai diversi da quelli che ci propinano i
    media giornalmente. La questione che emerge e che sarà sicuramente al
    centro delle prossime mosse dei centri finanziari degli Stati Uniti e
    dell’Europa è la seguente: come avviare una fase di transizione che
    eviti effetti devastanti sugli equilibri internazionali ma che porti
    alla luce il contrasto euro-dollaro ? Come iniziare una trattativa
    internazionale che

    dia
    forma a un duplice standard euro-dollaro basato su accordi del peso che
    hanno avuto quelli di Bretton-Woods, che mezzo secolo fa rimediarono al
    disordine nella situazione delle monete alla fine del secondo conflitto
    mondiale ? E’ almeno curioso il fatto che di questo pochissimo si parli
    ancora. Ma fino a quando ?



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