Siamo andati perciò a sentire il prof.
Alberto Di Fazio, da sei anni al lavoro col programma dell’IGBP (International
Geosphere-Biosphere Programme) dell’ONU, responsabile del progetto
GAIM (Global Analysis, Integration and Modelling), appena nominato nella
Commissione nazionale di coordinamento con l’IGBP.
-I
vostri studi hanno elaborato una tesi "forte": ci troviamo in
prossimità del picco della produzione di petrolio.
*A
circa 10 anni. Le stime ottimistiche arrivano a 20, le minime a 5.
Quelle dell’IEA (International Energy Agency), parlano del 2013.
-Esiste
una certa diffidenza verso le visioni "catastrofiste",
scottati forse dalle previsioni degli anni ’70, che davano il petrolio
per finito nel 2000.
*Ma
non è vero! Beyond the limits prevedeva che verso il 2010-2020 ci
sarebbero state delle crisi sistemiche provocate dallo sviluppo
esponenziale congiunto della produzione industriale e della popolazione
mondiale. E dopo 21 anni, nel ’92, le previsioni risultavano confermate
(si veda il grafico, ndr). Si tratta di un calcolo basato su grandezze
puramente fisiche ed economiche.
-Quindi
siamo vicini al "massimo della produzione", non
all’"esaurimento".
*Quando
si scopre un pozzo, lo si trivella, si comincia a pompare, e si aumenta
la produzione in funzione della domanda, crescente. Prima che finisca,
però, ci si ferma. Se, per tirar fuori un barile, occorre più energia
di quella che un barile può dare, il pozzo chiude. Non è un problema
economico, ma energetico. Stiamo parlando di un "massimo
geologico", che viene raggiunto quando la giacenza è circa il
50-55% del valore iniziale. Non significa che "non c’è più
petrolio", ma che la produzione non risponde più alla domanda.
-La
tecnologia non aiuta?
*La
tecnologia migliora il rendimento della produzione. Oggi si pompa più
rapidamente di prima, e troviamo espedienti tecnologici per andare in
quella cavità orizzontale prima irraggiungibile, pompiamo vapore acqueo
a 900. Ma più di quello che c’è, non se ne può tirar fuori. E’
matematica. Raggiunto il massimo la produzione comincia a calare.
-Quel
che resta è irrecuperabile?
*Certo.
La giacenza residua dipende dalla conformazione geologica del giacimento
e varia tra il 20 e il 40%. Il massimo produttivo, invece, lo si
raggiunge, in media, quando la giacenza è a metà.
-Sono
ipotizzabili tecnologie che permettano di ramazzare anche quel 20-40%
considerato irraggiungibile?
*No.
Esistono leggi fisiche: la massa per l’accelerazione di gravità, per
l’altezza. Più vado in profondità, più energia ci vuole. Dipende
dalla legge di gravità, non dalla tecnologia. Questa permette di
utilizzare una legge fisica a proprio vantaggio, ma solo fino al limite
della legge naturale. Non è che questa penna possa cadere all’insù.
-Questa
è la storia di un singolo pozzo.
*Quando
un pozzo raggiunge lo stato di crisi, il sistema umano va avanti lo
stesso. Gli americani hanno fatto due guerre mondiali pompando petrolio
da nuovi pozzi. Ma è arrivato il giorno fatale, nel 1970, in cui la
somma dei pozzi che chiudevano e quelli che venivano aperti era tale da
segnare il massimo della produzione Usa. Da allora la loro produzione è
in discesa. Sono il paese più potente e possono decidere e imporre
certi rapporti all’Arabia Saudita, o all’Iraq. Hanno sostenuto la
propria crescita pompando a casa loro. Ma quando il problema del
"picco massimo" si ripropone a livello globale, allora non c’è
più nulla da fare. Posso bombardare o corrompere chi voglio, ma di
petrolio ne esce sempre di meno.
-Dagli
anni ’70 cosa è cambiato?
*L’occidente
ha reagito allo shock del ’73 sapendo di poter gestire soltanto il 20%
delle riserve totali. Ma si sono detti: "pompiamo di più".
Hanno avuto la fortuna di trovare il petrolio nel mare del Nord, anche
se a livello globale contava poco. Per l’Inghilterra e la Norvegia era
una ricchezza, e ha permesso alla Tatcher di distruggere i minatori e di
non dipendere dall’Opec. Però nel 2000 hanno raggiunto il picco
massimo. Ora stanno mantenendo la produzione iniettando vapore, ma più
la tieni alta, più presto si raggiunge il rapporto negativo tra energia
impiegata e quella estratta.
-E qui
succede il patatrac.
*La
parte economicamente e militarmente dominante del mondo non può
sopravvivere a un’economia in stagnazione. Figuriamoci con un’economia
in contrazione. Ecco perché a quel punto si manifesta la crisi. Quello
che i paesi più forti possono fare è spostare la propria crisi un po’
più in là. Ad esempio conquistando il Medio Oriente e monopolizzando
il petrolio per le proprie necessità. Ma questo significherebbe guerra
con tutti.
-E’
uno scenario drastico.
*Non
bisogna far l’errore di credere che questa sia una crisi come le altre,
dove gli Stati Uniti scaricano un po’ di bombe sugli altri paesi e poi
si riparte. Prima potevano pompare petrolio sul proprio territorio,
costruire navi, aerei e cannoni e andare a fare la guerra altrove. Per
fare navi e cannoni serve energia, mica si possono fare con Internet.
-Si
potrebbe rispolverare il nucleare.
*Certo,
e Bush lo ha già proposto. Ma, se si vuole coprire col nucleare il 30%
del fabbisogno energetico attuale (anziché il 3%), bisogna costruire
5.350 centrali. E scordarsi la crescita economica. In ogni caso con il
nucleare si può far muovere il motore delle portaerei (nemmeno di tutte
le navi), ma bisogna costruirle, lavorare l’acciaio. Le fonderie non
vanno a energia elettrica.
-Con
il carbone.
*Sì,
ma si torna indietro, al ciclo industriale precedente. A quel punto va
in crisi anche la potenza militare.
-Negli
ultimi 10 anni le riserve globali sono rimaste stabili. E’ possibile
pensare a scoperte di giacimenti che mutino il quadro? Si parla del
Caspio, di Tengiz, dell’Afganistan necessario per far passare gli
oleodotti.
*Quello
del Caspio ammonta a meno del 3% delle riserve mondiali. E’ rilevante
per gli Stati che ce l’hanno, e per le Compagnie che otterranno i
diritti di sfruttamento. Ma se ci aspettiamo un picco da qui a 10 anni,
il Caspio lo sposta di appena tre mesi. Se scoprissimo un giacimento
pari a tutta l’Arabia Saudita, più l’Iraq e l’Iran, il picco andrebbe a
20 anni.
-Ed è
possibile?
*Basta
vedere la curva delle scoperte petrolifere. Anche qui c’è un massimo,
raggiunto negli anni ’60. La probabilità cala man mano che si va avanti
nel tempo. Per ogni barile scoperto, intanto, ne consumiamo quattro.
-Non
ci sono regioni ancora "vergini"?
*Le
uniche regioni rimaste, di grande volume, sono a profondità oceaniche.
Ma al di sotto dei duemila metri di profondità, a parte i problemi di
ancoraggio delle piattaforme (sotto i 1.500 metri non ci va nessuno), c’è
il problema della pressione piezometrica: maggiore è la profondità,
maggiore è il lavoro che devo fare, più energia serve. E’ un fatto
fisico. Per questo nessuno pensa a pozzi sotto 5.000 metri d’acqua: è
energeticamente sconveniente. E così al Polo, o nell’Antartico. Tutte
le terre emerse sono state esplorate, con i satelliti o direttamente.
Gli Usa hanno speso il 51% in più per le prospezioni, negli ultimi 20
anni. Ma le scoperte calano. Le possibilità di una scoperta colossale
sono insomma minime, e cambierebbe poco nel tempo-scala. Altrimenti il
governo Usa non avrebbe sfiorato la crisi politica per andare a
trivellare in Alaska, per un giacimento che equivale a otto mesi del
loro consumo interno.