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La penetrazione della filosofia a Roma

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In questo articolo ci occuperemo della penetrazione della filosofia a Roma, mettendo in evidenza che penetrando nel mondo romano la filosofia, più che dar luogo a modelli teorici radicalmente nuovi, smise di essere monopolio delle scuole tanto che per gli stessi filosofi greci si aprirono nuovi spazi nelle case dei potenti nobili romani come consiglieri o anche come segno di prestigio. Inoltre, anche rappresentanti dei ceti più elevati di Roma si dedicarono alla filosofia in determinati momenti della loro vita, vedasi ad esempio Cicerone e Seneca. Certamente Cicerone preferiva la politica alla filosofia, cosicché si dedicava all’attività filosofica soprattutto quando le situazioni politiche contingenti lo costringevano a rinunciare alla politica. Ma anche in tali momenti egli era molto polemico nei confronti di una filosofia solo ostentata e non tradotta in “dios”. Tra i rimproveri che egli rivolgeva agli epicurei c’era anche quello dell’incoerenza tra la teoria e la prassi. 
Il problema della coerenza tra la teoria e la prassi era considerato di grandissima importanza anche da Seneca. Secondo un antico modello storico la vita del filosofo era vista come una metafora bellica, come una guerra dove il filosofo appariva il miglior gladiatore sempre in lotta per impedire alla virtù di essere sconfitta. 
Ciò significava che per Seneca il filosofo doveva dimostrare di essere degno di esercitare la virtù in ogni occasione, soprattutto nelle situazioni più difficili della vita. Invece secondo Seneca la filosofia delle scuole dimostrava una tendenza crescente a divenire una specie di rappresentazione teatrale in cerca di applausi, dove si andava solamente per ascoltare e apprendere le tecniche della discussione. Ma nella migliore delle ipotesi tale tipo di insegnamento trasformava la filosofia impura e semplice filologia e rendeva dotti ma non buoni, e inoltre non modificava lo stile di vita; invece per Seneca il discepolo di un filosofo doveva tornare a casa ogni giorno più capace di condurre una vita virtuosa: il fatto che ciò avvenisse sempre più raramente era segno per il filosofo romano che la filosofia aveva perso ormai il suo prestigio, prostituendosi e trasformandosi in un esercizio puramente intellettuale: essa infatti era scaduta al rango di una professione retribuita, cosicché non era più in grado di insegnare a vivere.  
Nell’Epistola 88 Seneca prendeva atto con raccapriccio di questa tendenza della filosofia del suo tempo, mentre nell’ Epistola 90 rifiutava a chiare lettere di istituire la benché minima connessione tra filosofia e sapere tecnico. Per Seneca la filosofia era l’arte della vita nella sua globalità e non poteva scadere in una attività tecnica retribuita; pertanto il vero filosofo non era una figura che poteva stare accanto alle altre. In sintesi, Seneca intendeva ribadire il primato assoluto della filosofia e della vita filosofica. Su questo presupposto si era formata l’immagine popolare del filosofo che si differenziava dagli altri uomini non tanto perché possedeva conoscenze non alla portata dei più, ma perché conduceva una vita diversa dagli altri uomini e cercava la felicità non nelle cose materiali ma all’interno della propria anima.

Anche in Epitteto che pure avrebbe insegnato la filosofia, era centrale il rapporto tra la scuola e la vita filosofica al di fuori dei limiti angusti della scuola. Egli riconosceva l’importanza dell’addestramento dialettico e della conoscenza delle teorie della logica, ma ammetteva che la scuola filosofica doveva essere qualcosa di più. Se ciò non avveniva la filosofia ne usciva fuori irrimediabilmente screditata.

Epitteto quindi non rinunciava alla scuola filosofica, ma per tener ferma la saldatura tra teoria e prassi aveva trasformato la scuola in un luogo di terapia, riprendendo un’antica dottrina dei gruppi socratici che consideravano la filosofia come la diagnosi e la terapia delle malattie dell’anima. Se la filosofia non avesse svolto tale compito, avrebbe dovuto essere considerata inutile. Ma la saldatura tra teoria e prassi avveniva per Epitteto anche in un altro modo, ovvero nel raggiungimento di uno spazio estraneo al dominio degli altri uomini e delle cose. 
Per garantirsi tale spazio, il filosofo doveva necessariamente assumere uno stile di vita molto diverso da quello degli altri uomini, diventando protagonista di un modo di intendere la vita del tutto eccezionale. Non dimentichiamo che Epitteto era stato allievo di Musonio Rufo, che considerava la filosofia maestra di vita, nel senso che la filosofia non doveva essere considerata come la soluzione solamente a questioni di tipo teorico ma doveva essere in grado di dare una risposta ai numerosi problemi esistenziali e morali che la vita poneva agli uomini.
Quindi la filosofia non si riduceva ad essere solamente un insieme di dottrine, ma doveva permettere al filosofo di adottare uno stile di vita diverso dagli uomini comuni. Musonio Rufo può essere considerato un filosofo degno di ammirazione, in quanto metteva lui stesso in pratica i principi etici che insegnava ai suoi allievi fornendo in tal modo un esempio di coerenza e di vita virtuosa che le testimonianze che possediamo ci dicono fosse estremamente degno di nota e significativo. Per dirla in altro modo, per Musonio Rufo il filosofo non voleva essere solo un uomo dotto ma doveva essere un esempio per tutti gli altri uomini, poiché il filosofo doveva condurre una vita virtuosa in linea con i principi etici e morali. In sintesi, per Musonio Rufo la filosofia non doveva essere una faccenda esclusiva di quanti si dedicavano agli studi, dal momento che coincideva con la vita improntata al rispetto delle regole morali.
Di conseguenza la filosofia non era un qualcosa che riguardava una ristretta minoranza di uomini ma doveva riguardare tutti gli individui, dal momento che tutte le persone avevano il dovere di condurre una vita improntata al rispetto delle regole morali ed etiche.
Tornando ad Epitteto, egli dava grande importanza alla distinzione tra ciò che dipende da noi e ciò che non dipende da noi. Egli considerava interamente dipendente da noi la rappresentazione che ci facciamo delle cose e non il possesso delle cose, che non dipende da noi. Per Epitteto il nostro comportamento dipende dalla rappresentazione che ci facciamo delle cose cosicché il compito della filosofia doveva essere quello di insegnare agli uomini a costruirsi delle rappresentazioni delle cose corrette, al fine di ottenere la tranquillità dell’anima. Per Epitteto il possedere o meno le cose non dipendeva dalla volontà degli uomini, mentre
l’assegnare il giusto valore alle cose dipendeva dalla volontà degli individui. Per ottenere la tranquillità dell’animo l’individuo doveva costruirsi delle rappresentazioni, tali da non rendere l’individuo schiavo del possesso delle cose, dal momento che tutti gli uomini che erano schiavi del desiderio di possedere le cose conducevano una vita infelice e non potevano raggiungere la tranquillità dell’animo. In effetti dobbiamo mettere in evidenza che Epitteto aveva ragione, perché tutti gli uomini che fanno dipendere la loro felicità dal possesso delle cose sono schiavi delle cose stesse e quindi sono schiavi di un qualcosa che non rientra nella facoltà di controllo dell’individuo.
Molto suggestiva era la concezione della vita del filosofo romano: l’esistenza umana era per lui come un viaggio per mare che noi compiamo verso una destinazione nota solo a Dio, il pilota della nave.
Come Epitteto anche l’imperatore Marco Aurelio aderì allo stoicismo: egli provava fastidio nei contatti con gli altri uomini, nei confronti del corpo umano. Marco Aurelio scrisse: beneficiare gli uomini, sopportare la loro compagnia e farsi in disparte il più possibile. 
Inoltre, in una lettera giovanile Affrontone affermò che era duro per un uomo sopportare sé stesso. Marco Aurelio insisteva spesso sulla piccolezza e sul fruire incessante delle cose umane alfine di ridurne la rilevanza. La meditazione di Marco Aurelio appare spesso pervasa da un profondo pessimismo e da un senso di impotenza tanto che egli considerava la morte una liberazione dalla esistenza e da un mondo troppo lontano dagli ideali e dai valori che l’imperatore romano amava. Soprattutto l’ antropologia di Marco Aurelio è dominata dal pessimismo più assoluto: gli uomini erano per lui quasi tutti meschini e malvagi, a fatica sopportabili ed inoltre troppo spesso rispondevano al bene con la più assoluta ingratitudine. Infine Fortissimo era in Marco Aurelio il senso del dovere: la vita era per lui come lo svolgimento di una missione che ci era stata assegnata dagli dèi e che bisognava compiere anche se il ruolo che ci era stato assegnato non dipendeva da noi.

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