Passata la sbornia mediatica per la vittoria di Obama, ancora risuona ai confini dell’impero l’eco della propaganda che ogni 4 anni accompagna l’ossequio al vincitore di turno. Servizi speciali, reportage dall’estero, opinionisti a destra e a manca, titoloni sui giornali ed intere foreste tagliate per ricordare ai quattro venti la magnificenza della democrazia americana. Se l’India non avesse un miliardo di abitanti, nessuno sottrarrebbe alla land of opportunity il titolo di più grande democrazia del mondo. In netta contrapposizione, invece, con i paesi dell’Asse del Male, come la Russia di Putin (più grande nemico degli Usa secondo Mitt Romney), il Venezuela di Chavez, l’Iran di Ahmadinejad o la Cina, impero della corruzione a detta del New York Times.
Eppure basterebbe tornare indietro di una decina d’anni e riesumare immagini molto meno splendenti della grande democrazia americana. È il 20 gennaio 2001 ed il corteo presidenziale porta il presidente eletto (dopo la celebrazione religiosa di rito) a giurare come comandante in capo della federazione americana. L’auto presidenziale, accompagnata dalla scorta e dagli agenti di polizia, rallenta sempre più, fino a fermarsi, per poi accelerare all’improvviso fino a destinazione. Non era mai successo prima nella storia degli Usa: il presidente eletto, anziché trovare una folla esultante ad accoglierlo, si vede impedito l’accesso al Campidoglio dalla folla, che lo accusa di aver vinto le elezioni con un colpo di stato legalizzato. Quel presidente era George Bush Jr., figlio di un altro presidente Bush, nonché colui che avrebbe portato l’Occidente in guerra contro il Terrore, e quelle immagini non furono mai trasmesse da nessun servizio televisivo, né in America né nel mondo.
A destra – 20 Gennaio 2001: il corteo presidenziale di G.W. Bush, accerchiato dai contestatori, è prima costretto a fermarsi, poi a fuggire (immagini tratte da Fahreneit 9/11 di Michael Moore).
In compenso, tutti gli americani avrebbero visto, dieci anni dopo, folle oceaniche di manifestanti russi protestare contro i “brogli elettorali” del partito di Putin, con tanto di disordini e repressione della polizia. Peccato che di quei brogli non verrà mai portata prova e che quelle immagini non riguarderanno affatto la Russia. Fox News, che ebbe un ruolo di primo piano nell’attribuire a Bush la vittoria in Florida nel 2000, quando lo scrutinio dei voti indicava chiaramente un vantaggio del rivale Gore, può benissimo far credere ai telespettatori americani che in Russia si parli neogreco e che folle greche protestino davanti alla sede della Banca Centrale Greca non contro l’austerity ma contro i presunti brogli di Putin (1).
Ad eleggere Bush nel 2000, rovesciando l’esito elettorale (che dava allo sfidante il 50,6% dei voti popolari), furono i giudici della Corte Suprema, che avallarono l’esito dei brogli attuati tramite il voto elettronico. Un voto che in Florida era gestito direttamente da Katherine Harris, responsabile dello scrutinio elettronico ed al contempo coordinatrice della campagna di Bush Jr. L’allora candidato repubblicano alla presidenza, come è noto, era a sua volta fratello del governatore dello stato, Jeb, e cugino di John Ellis, che seguiva l’andamento delle elezioni a Fox News (e poi si dice che il nepotismo è un vizio tutto italiano!). Ma nonostante le evidenze di brogli, dimostrate anche dall’esclusione dai registri elettorali di numerosi afro-americani, a cui fu impedito il voto perché inseriti in elenchi di ‘pregiudicati’ creati ad hoc, la folla riottosa dovette farsi una ragione dell’elezione di Bush, nonostante avesse perso le elezioni.
Quattro anni dopo, i brogli a favore di Bush furono ancora più eclatanti. Mentre la notte dell’election daygli exit polls davano in testa John Kerry con un ampio vantaggio, il mattino seguente gli americani si svegliarono con una vittoria schiacciante dell’avversario. Bush Jr. riuscì a vincere persino in Ohio, dove le aspettative più rosee non gli davano più del 38%, contro il 67% di Kerry. La colpa dell’enorme discrepanza tra aspettative e risultati finali fu data agliexit polls, ma le probabilità di un errore di sondaggio di tale portata erano di 1 a 867.205.553. Invece, già un anno prima delle elezioni Walden O’Dell, amministratore delegato della Diebold, società privata incaricata dello scrutinio, aveva scritto di “essere determinato ad aiutare l’Ohio a dare i suoi voti al Presidente”.
Oltre alla Diebold, ad occuparsi di tutte le operazioni riguardanti il voto elettronico era anche la Election System and Software (ES&S), il cui presidente era all’epoca Todd Urosevich, fratello del vicepresidente della Diebold, Bob, mentre prima di lui la ES&S aveva avuto come presidente il senatore repubblicano Chuck Hagel, eletto grazie ai brogli della propria società (2).
A sinistra – L'immagine mostra come il voto per un candidato possa essere modificato in corso d'opera grazie all'ausilio di un microprocessore, che permette un intervento esterno.
Non c’è da meravigliarsi, allora, se la AccuVote-TSX e la Sequoia AVC, entrambe della Diebold, siano state usate da 25 milioni di elettori in 24 stati anche alle ultime elezioni. “Truccarle è facile”, rivela Roger Johnston, a capo del gruppo di accertamento sulla vulnerabilità del Nation Laboratory di Argonne, intervistato da Usa Today: “bastano 30$ di attrezzi ed una conoscenza di elettronica di base”. Con un attacco informatico denominato man-in-the-middle, si inserisce un microprocessore o un altro dispositivo elettronico nella macchina, con cui interferire con la decisione dell’elettore. Quando si seleziona sul touch screen un candidato diverso da quello favorito, il segnale viene corretto e l’elettore si trova impossibilitato a confermare la sua scelta. È un meccanismo simile a quello che compare in questo video, in cui un voto per Obama viene attribuito dalla macchina a Romney. Se invece si fosse scelto Romney, non vi sarebbe stato alcun intervento esterno.
Fu una truffa simile che permise, nel 2004, l’elezione di Saxby Chambliss in Georgia, nonostante tutti i sondaggi predicessero un’ampia vittoria dell’avversario, il senatore uscente Max Cleland. Ad ammetterlo un consulente della stessa Diebold, Chris Hood, intervistato due anni dopo da Rolling Stone: gli impiegati della società avrebbero applicato a 5000 macchine di voto un software aggiuntivo, simile a quello descritto da Johnston. Brogli possibili, però, per la scarsa attenzione delle istituzioni: “le macchine per il voto elettronico vengono tenute per settimane all’interno di parrocchie, scuole, palestre, senza nessuna sorveglianza, protette da lucchetti che chiunque potrebbe aprire”, denuncia Johnston. “Inoltre, la maggior parte dei responsabili di seggio non ha le conoscenze informatiche e l’accortezza per individuare sul nascere simili alterazioni dei risultati”.
Non si pensi però che tali brogli abbiano coinvolto solo i repubblicani. Anche il trionfo elettorale di Obama nel 2008 non si sottrae a ‘ritocchi’, anche se forse non decisivi. Wikileaks, infatti, ha pubblicato diverse email interne della società di intelligence Stratfor che riguardano brogli avvenuti in Pennsylvania ed Ohio, a vantaggio del futuro presidente. Tra tutte, spicca quella inviata il 5 novembre 2008 da Fred Burton, vicepresidente del servizio di intelligence, intitolata “Insight – McCain # 5 ** uso interno solo – Pls non inoltrare”:
Dopo le discussioni con la sua cerchia interna, che spiega il ritardo nel suo discorso, McCain ha deciso di non perseguire le frodi elettorali in PA e Ohio, nonostante il suo staff desiderasse farlo. Ha detto di no. Personalmente riteneva di poter ottenere un’ingiunzione federale per interrompere il processo elettorale. Ma McCain sentì che sarebbe stata dannosa per il nostro paese e non avrebbe fatto bene alla nostra nazione la possibilità di suscitare uno scoppio di violenza per le strade.
Un atteggiamento simile a quello tenuto da Kerry nel 2004 (forse perché membro come Bush Jr. della Skull and Bones), mentre almeno Gore aveva finto di indignarsi. In ogni caso, più che di errori o di casi isolati, si tratta di un intero sistema fondato sulla truffa. Di elezione in elezione, gli americani hanno assistito ad una sempre maggiore ingegnerizzazione dei brogli, che è andata di pari passo con la privatizzazione del meccanismo elettorale, descritta di recente anche da Victoria Collier su Harper’s Magazine:
“Con l’adozione massiccia del voto elettronico è emerso un ‘brave new world’ della manipolazione elettorale. L’esternalizzazione dei conteggi a poche ditte private che operano fuori dai riflettori, senza controllo e responsabilità – questa privatizzazione delle nostre elezioni – è una delle crisi più pericolose e meno comprese della democrazia americana in tutta la sua storia”.
A destra – Vladimir Churov
Truffe agevolate dalla possibilità di votare in anticipo, che permette di avere un’idea generale di quanti voti manipolare il giorno delle elezioni, ma che potrebbero essere evitate se ve ne fosse la volontà. Il voto elettronico permetterebbe un monitoraggio maggiore e potrebbe, se correttamente utilizzato, prevenire manomissioni ed errori di conteggio del voto cartaceo. Ma appaltato a società private, possedute da finanziatori di un candidato, nella totale assenza di controlli pubblici, tale trasparenza viene decisamente meno. Forse è anche per questo che i governatori del Texas e dell’Ohio hanno vietato agli osservatori dell’OCSE l’accesso ai seggi, minacciandone addirittura l’arresto. In alcuni stati americani, infatti, la presenza degli osservatori internazionali è considerato una violazione di sovranità e vietata per legge. Paradossale pensare che proprio gli Usa considerino la presenza degli osservatori determinante per certificare la democraticità dei paesi non allineati. Una mancanza di trasparenza e di reciprocità denunciata apertamente da Vladimir Churov, presidente del Comitato Elettorale Centrale Russo, che su Rossyskaya Gazeta segnala come gli osservatori siano stati banditi anche da quegli stati americani in cui la loro presenza è legalmente ammessa.
Quella di Churov è una critica significativa, se si considerano le sistematiche accuse di brogli elettorali attribuite a Vladimir Putin e al suo partito da parte statunitense, in contrasto proprio con l’opinione degli osservatori OCSE. Un altro paese costantemente nel mirino mediatico per la sua presunta non democraticità è il Venezuela di Hugo Chavez, nonostante il suo sistema elettorale sia stato definito “uno dei migliori al mondo” dall’ex presidente Usa Jimmy Carter. Con un po’ di umiltà, gli Usa potrebbero imparare molto dal Venezuela, soprattutto per la prevenzione dei brogli. Nella repubblica bolivariana, infatti, gli elettori, dopo aver espresso la loro preferenza su un touchscreen come negli Usa, inseriscono una ricevuta stampata (che certifica il loro voto) in un’apposita urna, per permettere un doppio controllo sui risultati delle elezioni. Negli Usa, però, questa volontà di garantire il corretto svolgimento delle elezioni non trova spazio.
Infatti non è solo la manomissione delle macchine per il voto a permettere i brogli. I risultati possono essere manipolati direttamente dal software centrale di scrutinio. Come ha fatto un gruppo di ricerca dell’Università del Michigan nel 2010, mettendo alla prova il sistema di voto del Board of Elections and Ethics di Washington DC, che aveva invitato gli hacker a farsi le ossa. Gli studenti in questione non solo sono riusciti ad entrare nel server ed alterare i risultati, ma addirittura a fargli suonare l’inno sportivo del loro ateneo. Da allora, il sistema di voto fu sospeso a data da destinarsi, nell’imbarazzo delle istituzioni.
Sarebbe però un errore ritenere che le irregolarità nel voto nascano e si fermino con il voto elettronico. Nonostante la grande attenzione dedicata in Occidente alle elezioni americane, ad esempio, nessuno giornalista si è chiesto che fine abbiano fatto i voti dei militari americani all’estero, di cui non si è fatta menzione durante gli spogli elettorali. Ebbene, la rocambolesca avventura delle loro schede elettorali, sintetizzata dal Duffel Blog, meriterebbe da sola di diventare la trama di un romanzo. Infatti centinaia di migliaia di voti dei soldati americani sono spariti nel nulla per settimane e solo una parte di essi è giunta a destinazione, pronta ad essere scrutinata, ma molte ore dopo l’acclamazione di Obama. Un’operazione che a molti sa di imbroglio in grande stile, dato che il loro sostegno elettorale a Romney (confermato dallo scrutinio) avrebbe potuto minimizzare non di poco il divario tra i due rivali, soprattutto negli stati in cui la differenza tra democratici e repubblicani correva sul filo di lana. Secondo gli ufficiali la sparizione delle schede è dovuta ad errori del servizio postale, mentre secondo voci interne pare che siano rimaste giacenti in un magazzino per almeno un mese, poi… etichettate come ‘munizioni’ e spedite a Camp Dwyer, in Afghanistan.
Qui il sergente della Marina John Davis sarebbe rimasto alquanto sorpreso nell’aprire delle casse piene di schede elettorali: “ho detto al gunny [l'artigliere, ndr] che abbiamo un mucchio di schede al posto delle munizioni”, ha detto Davis agli inquirenti due settimane fa. “Mi ha detto di stilare un rapporto di spedizione errata e che la catena di comando avrebbe risolto il problema. Non abbiamo avuto alcuna risposta per tre settimane. Mentre stavamo aspettando siamo stati attaccati e ne abbiamo scaricato un po’ negli hescoes [sistemi di barriera direttamente schierabili, ndr], poi non non li abbiamo più trovati”.
Quando gli ufficiali si sono finalmente accorti dell’errore, le schede rimaste intonse sono state inviate negli States, ma non senza ulteriori ostacoli. Infatti, ben 12 casse piene di schede elettorali sono state gettate in mare mentre venivano imbarcate sulla portaerei USS Kearsarge (LHD-3), nel Golfo Persico. Una volta salpata la nave per il Bahrain, nessuno ha verificato quante delle schede poi recuperate sia stata imbucata dagli ufficiali postali del luogo. Nel frattempo, le altre schede rimanenti sono state caricate su un C-130, ma il volo che avrebbe dovuto riportarle oltreoceano è stato sospeso fino al 1° Novembre, per permettere all’equipaggio di avere la paga detassata. Finalmente giunte negli Usa, le schede sono state inviate al sistema di scrutinio dei singoli stati di appartenenza, raggiungendo però la destinazione finale solo il 7 novembre. Nel frattempo, come è noto, Obama era già stato rieletto. “È una vergogna – commenta l’ammiraglio Jonh Dawes – mi aspettavo imprevisti ed ho ordinato che si votasse otto mesi prima proprio per evitare situazioni di questo tipo. È una vera disgrazia che il nostro sistema postale non abbia funzionato e che ciò abbia modificato il corso della storia”.
A farne le spese in questo caso è Mitt Romney che, a giudicare dalla reazione per la vittoria dell’avversario, tutto si aspettava tranne che perdere le elezioni. Sin dall’inizio delle primarie repubblicane, infatti, la sua candidatura è stata propagandata come vincente da tutti i media principali, americani ed europei. Indicativo di come le grandi corporations scelgano i loro candidati sin dall’inizio, facendoli sorgere dal nulla e finanziandone lautamente la campagna. Lo stesso Romney è stato presentato sin da subito come il candidato favorito alle primarie repubblicane, in una guerra di percezione mediatica che contrastava con le sue reali sconfitte, come quando in Iowa (nel silenzio di tutti) vinse Ron Paul.
Ed è stato proprio Ron Paul il vero danneggiato dalla campagna delle primarie. In ogni stato, i suoi delegati hanno subito truffe di ogni tipo: violazione delle regole di partito, cancellazione dei caucuses, alterazione dei risultati, estromissione di intere contee dal voto ed addirittura ricorso alla repressione fisica. Le primarie repubblicane sono state una farsa, perché la volontà del partito, calata dall’alto, era di eleggere Romney. Ne è un esempio eclatante il Massachussets, stato natale del futuro rivale di Obama, dove Paul era riuscito ad ottenere la maggioranza dei delegati: la dirigenza di partito ha costretto tutti i delegati a sottoscrivere una dichiarazione giurata in cui (pena lo spergiuro) riconoscevano come vincitore Mitt Romney e si vincolavano al voto per lui alla convention federale di Tampa. In seguito, per sicurezza, si è preferito alterare il verbale dei risultati e sostituire i delegati di Paul con quelli di Romney. Ma si potrebbe citare anche il Texas, dove Ron Paul era saldamente in testa, salvo un improvviso ribaltamento in extremis a favore di Romney appena superata la soglia del 40% di voti scrutinati. Neanche a dirlo, si utilizzava il voto elettronico.
Nonostante tutte le irregolarità e gli oltraggi a danno dei suoi delegati (documentati qui) ed il silenzio mediatico sulle sue vittorie elettorali, Paul è però riuscito ad incrementare molto il consenso – come segnalavamo già nell’articolo Perché Ron Paul ha già vinto (ma nessuno lo dice) – sul suo programma, fondato sul ripristino della Costituzione e lo smantellamento della Federal Reserve. Tant’è che ad oggi molti analisti motivano la sconfitta di Romney proprio con l’esclusione dell’ala libertaria del partito, rappresentata da Paul, i cui supporter, trovandosi tra l’incudine di Obama ed il martello di Romney, hanno preferito non votare oppure scegliere Gary Johnson.
Ma Johnson, candidato del Partito Libertario alla Casa Bianca, non ha goduto di un miglior trattamento, al pari degli altri candidati ‘terzisti’. In un precedente articolo avevamo segnalato la sua esclusione dai dibattiti presidenziali, insieme agli altri 3 che avevano la possibilità teorica di essere eletti al posto di Obama o Romney: oltre a Johnson, la verde Jill Stein,Rocky Anderson del Justice Party e Virgil Goode, candidato del Constitution Party. Ma la Commission on Presidential Debates ha deciso di escluderli, nonostante le rimostranze, dai dibattiti di Chicago. Perché? Perché la CPD (come spiega anche Peter Joseph in questo video molto istruttivo) non è un’istituzione pubblica, bensì una società privata, finanziata a sua volta da altre corporations. Difficilmente, quindi, potrebbe ammettere la presenza di candidati non corporativi ai suoi dibattiti. A maggior ragione se il suo consiglio di amministrazione ha come co-presidenti Frank Fahrenkopf (ex presidente del Partito Repubblicano) e Mike McCurry, già a capo dell’ufficio stampa della Casa Bianca con Clinton e lobbista per diverse corporations, come Public Strategies Washington, AT&T e National Association of Manufacturers. L’unico candidato di un terzo partito ammesso dalla CPD ad un suo dibattito presidenziale fu Ross Perot nel 1992, che pur facendo campagna in soli 16 stati ottenne più 15% dei voti. Ma chi ha seguito i dibattiti tra i candidati indipendenti trasmessi daRussia Today e Ora.tv potrà rendersi conto di quanto filo da torcere avrebbero potuto dare ad Obama e Romney, soprattutto su questioni a dir poco scomode (come il National Defense Auctorization Act).
A destra – I quattro principali candidati indipendenti: da sinistra, Rocky Anderson, Gary Johnson, Jill Stein e Virgil Goode.
Le proteste dei candidati indipendenti contro la loro esclusione però non sono state vane. In seguito alle denunce di Gary Johnson, tre dei dieci storici finanziatori del dibattito presidenziale hanno deciso di rimuovere il loro sostegno all’iniziativa: oltre alla Young Women Christian Association, anche due corporations come la BBH di New York (la più antica banca americana) e la Philips Electronics.
Mark A. Stephenson, capo dell’ufficio comunicazioni per il Nord America della multinazionale olandese, ha motivato la decisione scrivendo che l’azienda
“ha una lunga ed orgogliosa tradizione di imparzialità nelle molte nazioni in cui è presente nel mondo. Anche se la CPD è un’organizzazione imparziale, il suo comportamento si mostra funzionale al sistema bi-partitico. Noi rispettiamo tutti i punti di vista e, di conseguenza, vogliamo assicurare che la Philips non fornisce la minima parvenza di sostegno a qualche parte politica in particolare. Quindi, nessun fondo aziendale è stato o sarà utilizzato per sostenere la CPD”.
Il timore di grandi sponsor come Philips o BBH di mostrarsi vicine al sistema bipartitico la dice lunga su quanto il sistema stesso sia ormai detestato dalla maggioranza della popolazione, che di norma, ormai da decenni, non si reca più alle urne. Un gesto simbolico di importanza non secondaria, quindi, che potrebbe rivelarsi un passo importante verso una democratizzazione del sistema politico a stelle e strisce.
Alla luce dei fatti sin qui esposti, non stupiscono allora le dure parole di critica rivolte a questo ‘modello’ dal presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, parlando agli studenti della facoltà di Economia della sua nazione:
“c’erano 23 o 25 candidati per la presidenza degli Usa, ma avete sentito parlare solo di Obama e Romney, e gli altri 25 sono stati arrestati per aver tentato di intraprendere una discussione con queste ‘balene’”.
A destra – Principali finanziatori di Barack Obama e Mitt Romney nel 2012.
In realtà i candidati erano 14, ma il senso non cambia.
Lukashenko si riferiva infatti anche a Jill Stein e Cheri Honkala, tandem del Green Party, che il 31 ottobre scorso avevano organizzato un sit-in davanti all’università di Hofstra, dove si sarebbe tenuto il dibattito tra Obama e Romney: le due candidate chiedevano pacificamente di potervi partecipare e, come risposta, sono state ammanettate ed incarcerate. In quell’occasione, la Honkala si è appellata ai media sranieri affinché raccontassero “la vera realtà del popolo americano”, cioè di un paese in cui “la democrazia non esiste, dove non ci sono vere elezioni”, perché “un piccolo numero dicorporations possiede la maggior parte dei principali mezzi di comunicazione”, ed ha chiesto alla comunità internazionale di monitorare le elezioni (cosa che, data l’espulsione degli osservatori internazionali, non è potuta avvenire). L’appello di Cheri Honkala non è stato riportato da nessun mezzo di informazione straniero, né gli Stati Uniti figurano nella lista di ‘stati canaglia’, nemici della ‘libertà’ e della ‘democrazia’.
Le parole di Lukashenko suonano quindi come un masso levato dalle scarpe, da parte di un presidente definito dagli occidentali come “l’ultimo dittatore d’Europa” (copyright di Condoleeza Rice) e che nel 1999, di fronte alla Duma russa, osò chiamare FMI e Banca Mondiale “un branco di truffatori”. A chi oggi gli chiede se accetti lezioni dai leader occidentali in fatto di democrazia, risponde senza esitazioni: “no, grazie, delle nostre elezioni ci occuperemo da soli” (3).
A sinistra – Principali finanziatori di Barack Obama e John McCain nel 2008.
Insomma, dopo questo lungo resoconto, definire ancora gli Stati Uniti come la più grande democrazia del mondo significa davvero credere alle favole. Di fatto, gli Usa sono un sistema politico in cui pochi soggetti (le corporations) scelgono i candidati (come mostra l’elenco dei finanziatori di democratici e repubblicani nel 2008 e nel 2012), posseggono gli stessi mezzi di comunicazione deputati all’informazione e si assicurano che i loro candidati risultino vincitori dalle urne. Affermare quindi che il voto popolare non abbia alcun valore può sembrare quasi banale. In realtà, non si tratta di una semplice constatazione, bensì… di un principio normativo.
Infatti, come scrive Thierry Messan:
Secondo la Costituzione degli Stati Uniti, il presidente non è eletto dal popolo, ma da un gruppo di 538 elettori che rappresentano gli Stati federati. Tuttavia, nel corso del tempo, si è imposta l’idea che i governatori dovevanoconsultare i loro abitanti prima di nominare i rappresentanti del loro stato nel collegio elettorale. In alcuni stati, questa consultazione è obbligatoria, in altri è solo consultiva, poiché il governatore può anche fare solo di testa sua. In ogni caso, le elezioni del 6 novembre non avevano valore costituzionale.
Sopra – Ripartizione dei Grandi Elettori di stato in stato (su base demografica). In rosso gli stati vinti dai Repubblicani, in blu quelli vinti dai democratici.
Gli Usa sono quindi costituzionalmente un’oligarchia, in senso letterale. I cittadini americani, anche in assenza di brogli ed altri elementi condizionanti, non eleggono il Presidente degli Stati Uniti, ma solamente i rappresentanti del loro stato (Grandi Elettori), su concessione del loro Governatore. A loro – e non ai cittadini – spetta l’elezione del Presidente. “Ma i Grandi Elettori votano secondo la preferenza popolare” si obietterà. In realtà non è necessariamente così. Se in 24 stati il mancato appoggio al candidato presidente del loro partito è proibito o punito, in altri 26 è per loro legalmente possibile eleggere un altro candidato che abbia vinto in almeno uno stato.
Fino al 6 gennaio, data in cui avverrà lo scrutinio del Congresso, affermare che Obama è stato rieletto è quantomeno fuorviante. Basterebbe che alcuni delegati di Obama mutassero casacca per portare i due candidati alla parità dei voti (269 a 269) e in questo caso la scelta toccherebbe al Congresso. La Camera eleggerebbe il Presidente, il Senato invece il vicepresidente, consegnando agli Usa un’amministrazione demo-pubblicana.
Un’ipotesi che, seppur legalmente possibile, è di fatto irrealistica, perché la copertura mediatica delle elezioni impedisce ai Grandi Elettori di prendere una decisione diversa da quella ‘popolare’.
Ma è proprio questa copertura mediatica a propagandare il mito dell’America come “più grande democrazia del mondo”, convincendo gli americani stessi di avere un potere decisionale che, in realtà, non hanno affatto.
Questo modello elettorale ‘oligarchico’ però è perfettamente coerente con la Costituzione degli Usa, che, come è solito ricordare Ron Paul, sono una repubblica, non una democrazia. In una democrazia, infatti, il governo può esercitare un ampio potere sulla nazione proprio in virtù della sua elezione da parte del popolo. Far credere agli elettori statunitensi di avere un reale potere di elettorato attivo serve quindi a giustificare i poteri del Presidente, sempre più ampi e sempre più incostituzionali. Mentre la Costituzione, che affida al Presidente un ruolo poco più che amministrativo e rappresentativo, pone in primo piano la libertà individuale e l’autonomia dei singoli stati che compongono la Federazione.
Per questo, spiega Ron Paul,
“i padri fondatori trovavano il concetto di ‘democrazia’ molto pericoloso. ‘Democrazia’ è potere della maggioranza a spese di una minoranza. Il nostro sistema presenta alcuni elementi ‘democratici’, ma i fondatori non hanno mai menzionato la ‘democrazia’ nella Costituzione, nella Carta dei Diritti o nella Dichiarazione d’Indipendenza. Infatti, le nostre protezioni più importanti sono decisamente antidemocratiche. Per esempio, il Primo Emendamento protegge la libertà di parola. Non importa – o non dovrebbe importare- se si esprime un’opinione contraria al 51% o anche al 99% delle persone. L’opinione che si esprime non può essere soggetta all’approvazione della maggioranza. Sotto la nostra forma di governo repubblicana, l’individuo, la più piccola delle minoranze, è protetta rispetto alla massa. Tristemente, la Costituzione e le sue protezioni sono rispettate sempre di meno e noi abbiamo silenziosamente acconsentito che la nostra repubblica costituzionale si trasformasse in una democrazia militarista, corporativa, socialista. Le leggi sono violate, modificate in silenzio ed ignorate quando sconvenienti a chi detiene il potere, mentre altri che ricoprono ruoli di controllo e bilanciamento non fanno nulla. Le protezioni che i fondatori hanno posto in essere ormai sono sempre più una mera illusione”.
A sinistra – Vignetta tratta da http://www.sodahead.com.
La democrazia è infatti, per definizione, il ‘potere’ esercitato dal ‘popolo’. Ma il popolo, inteso come collettività nazionale, non può autogovernarsi per definizione: l’esercizio dell’autogoverno spetta ai singoli individui e alle comunità, ma non alla massa. La massa può governarsi, quindi, solo eleggendo un ‘capo’ che la rappresenti e che sia dotato del potere necessario per imporle le sue decisioni. Tale ruolo (in questo caso ricoperto dal Presidente) è di ‘rappresentanza’, perciò permette (in linea teorica) l’esercizio del potere a favore del popolo e non su basi arbitrarie. In sostanza, il cittadino si aliena all’interno della massa (rinunciando ad essere soggetto politico) ed il popolo (inteso come massa) si aliena nei confronti del governante, che lo rappresenta: quindi il popolo si aliena verso se stesso. Proprio questa alienazione nei confronti di se stesso, che sarebbe quantomeno indice di schizofrenia, permette al governante di poter esercitare un potere pressoché assoluto nei confronti del popolo: egli è rappresentante del popolo, quindi ogni azione governativa è un’azione che il popolo compie su se stesso. Il popolo non è, quindi, il soggetto politico in democrazia, anzi, non è soggetto politicoper niente: il popolo può diventare soggetto politico solo quando delega ad un rappresentante esterno la propria sovranità. Paradossalmente, il popolo può essere sovrano solo quando (nel momento elettorale) sceglie di delegare la propria sovranità, cioè di non essere sovrano. A farne le spese sono gli individui e le comunità, che non sono compresi nella definizione di ‘popolo’ usata in ‘democrazia’. Ora si potrà capire perché ai cittadini statunitensi (e al mondo intero) venga fatto credere che gli Usa siano una democrazia, mentre la Costituzione riconosce come soggetti politici fondanti l’individuo e i singoli stati federati che ne tutelano le libertà. Infatti, continua Paul:
“Ecco perché un’importanza crescente è posta sui convincimenti e le opinioni del presidente. Le limitazioni molto strette al potere governativo sono chiaramente indicate nell’Articolo 1 Sezione 8 della Costituzione. Non vi è alcun riferimento alla possibilità di forzare gli americani a sottoscrivere assicurazioni sanitarie o pagare una tassa, per esempio. Finora questo potere viene reclamato dall’esecutivo e – sorprendentemente- con il consenso del Congresso e della Corte Suprema”.
Un Presidente che oggi, invece, vede i propri poteri aumentare a dismisura, grazie ad ordini esecutivi come l’EO 12919 o provvedimenti come il National Defense Auctorization Act, checoncedono all’inquilino della Casa Bianca poteri simili a quelli di cui godrebbe in un regime dittatoriale, senza però essere eletto direttamente dai cittadini (5). Se in un altro paese del mondo vigesse di fatto una sospensione della Costituzione e dei diritti civili, con un presidente dotato di simili poteri senza nemmeno essere eletto dal popolo, sarebbe accusato di essere un dittatore e il suo governo definito ‘regime’.
Questo dimostra, secondo Paul:
“quanto sia ampia oggi la disinvoltura con cui nello Studio Ovale, senza alcun ostacolo, si impongono visioni e preferenze personali alla nazione, per convincere il 51% delle persone a votare in un certo modo. Il restante 49%, dall’altro lato, ha molto di che arrabbiarsi e protestare, sotto questo sistema. Noi non dovremmo tollerare di essere divenuti una nazione guidata da uomini, dai loro capricci e dal loro stato d’animo, anziché dalle leggi. Non può essere enfatizzato abbastanza che noi siamo una repubblica, non una democrazia e, per questo, dobbiamo insistere affinché la nostra impalcatura costituzionale sia rispettata e le limitazioni decise dalla legge non siano oltrepassate dai nostri leader. Queste limitazioni legali all’attività del governo assicurano che altri uomini non impongano le proprie volontà sugli individui, o meglio, che l’individuo sia in grado di governarsi da sé. Quando l’ambito di azione del governo viene contenuta, la libertà prospera.”
Oggi, in realtà, l’attività del governo viene contenuta, ma sulla base di un principio opposto: l’affidamento alle corporations della gestione di ogni ambito sociale e il totale rilevamento dello Stato da parte di queste ultime. Ecco perché è essenziale far credere all’opinione pubblica che negli Usa viga un sistema ‘democratico’, senza il quale non vi sarebbe alcuna giustificazione al potere del Presidente, esercitato (di fatto) per conto delle multinazionali e delle banche che lo hanno eletto. Per questo, si continuerà a dire ai quattro venti che gli Usa sono la più grande democrazia del mondo. Non è forse così?
Articolo di Jacopo Castellini
NOTE
(1) Vedasi questo servizio di Fox News: http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=KUcCzSaw-Fo
(2) Peccato che nessuno dei nostri giornalisti citi mai questi palesi conflitti d’interessi, facendo figurare quest’ultima come una pratica tutta italiana e gli Usa come un modello di trasparenza.
(3) Nella palude stagnante della propaganda occidentale, un’analisi non conformista della situazione bielorussa è offerta da Gearóid Ó Colmáin nell’articolo Bielorussia: dittatura o democrazia?, pubblicato su Global Research e tradotto in italiano da Alessandro Lattanzio.
(4) Questo paradigma sembra porre le basi della truffa monetaria, per cui lo Stato, rinunciando alla sovranità monetaria e cedendola a privati, si indebita nei confronti di questi per l’emissione della moneta. Questo indebitamento progressivo assume il nome di debito pubblico, che viene giustificato dai governanti e dagli economisti classici come il debito che i cittadini hanno con loro stessi. Come si può essere debitori e creditori di se stessi contemporaneamente?
(5) L’utilizzo di ordini esecutivi, negli ultimi 50 anni, è servito proprio per concedere pieni poteri al Presidente, al Governo Federale e alle agenzie federali, in contrasto con la Costituzione. Tutti questi provvedimenti sono infatti giustificati da uno stato d’emergenza (vero o fittizio), che viene prorogato di amministrazione in amministrazione (come nel caso dell’EO 12919). Un’accelerazione in questo senso si è vista a partire dall’approvazione del Patriot Act, la legislazione’ anti-terrorismo’ voluta (paradossalmente) proprio da George Bush Jr., il presidente ‘eletto’ dalla Corte Suprema e non dagli elettori.