Tengo a precisare di non essere contrario (e non vedo perché dovrei esserlo) alla comunicazione informativa e conoscitiva di non importa quale prodotto dell’uomo, la si chiami pubblicità o meno. Io parlo di un’altra cosa: della cosiddetta pubblicità televisiva.
Nasce come menzogna: l’uso della sola parola pubblicità ha lo scopo di far pensare, per l’appunto, a comunicazione informativa e conoscitiva. Si sottintende il doppio attributo di consumistico-concorrenziale Anche quando cita dei dati (quantità, dimensioni, prezzi e roba del genere), questi stessi sono utilizzati per la finalità di una pseudo-pubblicità, che è quella di indurre al consumo di prodotti in concorrenza con altri. Ecco una stringata sinossi: che ingigantisce oltre misura la menzogna di base.
1 – Si dice pubblicità ma si intende “pressione consumistica e concorrenziale”.
2 – Consumistica perché mira solo ad indurre al consumo fine a sé stesso indipendentemente dalla eventuale inutilità o nocività. Pertanto, il consumo fine a sé stesso può essere contrario e alla salute delle persone e della collettività e agli equilibri della natura.
3 – Il messaggio pubblicitario in questione è fatto di immagini e di parole (con eventuali note musicali) e intende raggiungere non l’io razionale-etico ma l’io emotivo degli ascoltatori. Più precisamente tende a produrre la famigerata “persuasione occulta”, reazione, che avviene nella cosiddetta zona subliminale dell’inconscio ovvero al di sotto della soglia della coscienza.
4 – La persuasione occulta o subliminale, che si traduce in una pulsione autocoattiva (ovviamente inconsapevole) può essere prodotta in vari modi: quello più semplice e meno sospettabile discende dalla “ripetitività” di un’immagine-parola.
5 – La persuasione occulta risponde al classico plagio psico-mentale ed è pertanto, come atto di violenza, un crimine in quanto inibisce o condiziona il potere critico e decisionale del soggetto, che ne è vittima. Significa che questa – come abbiamo già detto – consuma un prodotto, talora anche indipendentemente dall’utilità dello stesso (vedi pubblicità del farmaco) solo perché è indotta ad acquistarlo per effetto della conseguente autocoazione.
6 – Che i committenti della pseudo-pubblicità siano consapevoli del plagio lo dimostra inequivocamente la sola “ripetitività del messaggio”. Infatti, se la ripetitività del messaggio verbo-imaginale non producesse induzione viscerale al consumo, non ci sarebbe motivo di subire uno stesso messaggio non richiesto, e probabilmente non gradito, infinite volte nelle 24 ore.
7 – Stando così le cose, il crimine della “manipolazione pubblicitaria” della volontà degli spettatori è un reato, anche se il nostro codice penale non lo contempla e non lo punisce solo perché così vuole il sistema dentro cui solo vige la cosiddetta “autonomia” del potere giudiziario. Ne uscirebbe mutilata la libertà “liberista” come dire dei padroni.
8 – Un altro effetto della determinazione coattiva della pseudo-pubblicità è la sconfessione della decantata “legge della domanda e dell’offerta” nella misura in cui la domanda viene predeterminata non da un bisogno effettivo ma da un bisogno indotto. Infatti, la pressione dei consumi significa indurre a consumare prodotti al posto di altri ovvero concorrere al proprio successo e al fallimento di concorrenti! Non credo ci sia una sola persona che non giudichi la persuasione occulta uno strumento sleale di concorrenza!
9 – In parte per realizzare la “ripetitività” del messaggio, in parte perché la pubblicità è diventata una merce ed un mercato a sé stanti (analogamente alla moneta), non c’è spazio che basti per mandare in onda messaggi pubblicitari sempre nuovi, sempre più elaborati e, se possibile, più lunghi. L’effetto di questa “lievitazione pubblicitaria” è la “permeazione pubblicitaria” anche all’interno dei singoli spettacoli.
10 – Permeazione significa anteposizione del mercato alla cultura, dei profitti alla ragion d’essere naturale e civile del mezzo televisivo, in particolare lo spezzettamento perfino di opere d’arte e quindi la distruzione delle opere stesse e dei rispettivi autori.
11 – Al livello degli spettatori-consumatori la permeazione pubblicitaria degli spettacoli in genere e di quelli esteticamente impermeabili significa interruzione della percezione estetica, difficoltà a seguire un’opera specie in ore serali e in età avanzata!
12 – Non si ha alcun titolo giuridico per smembrare un’opera, per offendere il senso estetico degli spettatori, per offendere quale che sia autore di non importa quale lavoro. Infatti, ogni prodotto culturale ha una propria organicità e identità, si direbbe “vitalità” (sic), che si ha soltanto il dovere di rispettare anche quando non la si condivide. Venire meno a questo dovere significa confondere la civiltà con il mercato e il potere con la vergogna.
Io ho 80 anni compiuti e vorrei ancora godere della televisione anche se è spesso più di parte che imparziale, più un mercato, che una comune sede culturale. Tuttavia, trovo qua e là qualcosa che ritengo degno di essere visto e goduto (psicoemotivamente parlando) se non fosse permeato come una spugna di acqua o un legno vecchio di tarlo! Io dico che è imbottito di “spazzatura mediatica”. La televisione, per restare fedele alla propria ragion d’essere ed allo spirito di un sedicente Stato di diritto, dovrebbe rispettare in toto il diritto naturale di un’opera alla propria integrità e identità preservandola da ogni inquinamento pubblicitario evitando, per fare un esempio intuitivo, che la fruizione di una scena d’amore o drammatica, che ci tiene sospesi, venga improvvisamente come cancellata per vedere apparire al suo posto una buona salciccia! Se i responsabili si sentissero anzitutto degli uomini e si rendessero conto del significato assai grave di cotanto ripetuto evento, si metterebbero davanti ad uno specchio per sputarsi sugli occhi! Questa “mistura” indica soltanto incultura e inciviltà, più precisamente barbarie liberista.
La cosa è ancora più grave se si tratta della cosiddetta televisione non commerciale ma pubblica e non solo perché a favore di questa si è costretti a versare un canone di “abbonamento coatto” che vieppiù si conferma quello che io ho più volte definito: un “pizzo di Stato”, l’espressione di un abuso di potere, se è vero che non dà nemmeno il diritto di vedere un’opera d’arte senza il fastidio delle infiltrazioni pubblicitarie a dispetto di un’”authority”, che, non si sa perché, non vede né concorrenza sleale né mercificazione della televisione. E pertanto tace! E la spazzatura pubblicitaria scorre tranquillamente lungo i canali televisivi come acqua melmosa lungo le rogge cittadine della Padania gabbando “all’italiota” l’art. 21 della Costituzione.
Carmelo R. Viola