– Leggi qui la prima parte dell'articolo –
A cura di Carlo Ongaro
Prima di riprendere il discorso interrotto nel precedente articolo, vorrei puntualizzare le ragioni per le quali noi (il “noi” si intende riferito al LaRI, laboratorio riflessologico italiano) ci siamo assunti l’onere/onore di studiare il fenomeno riflessologico.
Il primo motivo sta nella carenza di uno studio vero e proprio da parte del mondo accademico, nonostante le evidenti testimonianze su scala mondiale dell’efficacia, sia in termini d’indagine che in termini di iter, della riflessologia plantare in ambito curativo. Si è assistito, ed ahimè si continua ad assistere, ad un vero e proprio discredito da parte dell’establishement medico/ scientifico, uno scetticismo che ha come motivazione principale l’assenza di prove a riguardo.
Vorrei qui ricordare che la volontà di voler o non voler ricercare, non è una prerogativa della scienza, bensì dell’uomo che la concretizza: l’assenza di prove non vuol dire ineluttabilmente “prova di assenza”, a volte significa che in quel settore, per svariati motivi, non si è potuto (comprensibile) o non si è voluto (ingiustificabile) ricercare!
Questa antica disciplina, come altre, è un patrimonio della conoscenza umana, e come tutte le realtà che sono alimentate da un retaggio antico e che quindi resistono all’assalto del tempo e dell’uomo, offre la possibilità di incidere in maniera risolutiva rispetto a varie alterazioni fisiologiche, come dimostrato in un recente studio, sempre condotto dal suddetto laboratorio, in cui analizzando 324 casi, si è evidenziata la straordinaria efficacia di questa disciplina.
Per farla breve, bisognava, e bisogna, trovare un “perché” a questo singolare fenomeno fisiologico, come a dire “se Maometto non va alla montagna, sarà la montagna ad andare a Maometto”.
È per questo che mi accingo a concludere questa intensa ricerca che è diventata una vera e propria avventura, conscio che, oltre a trasmettere teorie ed ipotesi a volte audaci, questo studio è accompagnato, oltre che dalla fatica e dall’impegno, anche dallo stupore e dalla meraviglia, elementi che guidano ogni essere vivente nell’istante della scoperta. Spero che tutto ciò possa trasparire attraverso la lettura di queste pagine.
Tornando al tema in esame è utile ora ricordare brevemente i contenuti del precedente articolo.
Partendo da una realtà storica, si è proceduto ad analizzare una testimonianza particolare che nel mondo Egizio è conosciuta come la “tomba del medico Ank-mahor”, antico sacerdote Ka ( 2320 a.C.), in cui si evidenzia l’uso della riflessologia.
Ad un esame più accurato si evince che questa particolare iconografia nasconde, in realtà, un messaggio più complesso, che vede in primis una traduzione del linguaggio geroglifico, allora moderno, con il linguaggio antico fatto per immagini, ancor oggi è difficilmente traducibile: il contenuto della frase in geroglifico è identico al contenuto della frase iconografica una sorta di “ministele di rosetta” (fig. a)
fig.a
Inoltre, in quelle poche immagini si coglie un evidente messaggio costruito su delle basi alfa/numeriche, che sono i fondamenti del linguaggio binario, fondamenti che spiegano, in parte (come è evidenziato nell’ultimo brano dell’articolo), anche la fenomenologia riflessa in ambito fisiologico.
È utile qui ricordare che il software di qualsiasi elaboratore è costituito da un “linguaggio macchina”, rappresentato a sua volta da due elementi binari: 0 e 1.
Le ricerche in ambito neurologico che in questi ultimi anni via via si sono fatte strada, vedono una forte affinità tra elementi informatici e la trasmissione di segnali somatosensitivi (vedi teoria del “gate control system” e modello “spazio temporale”).
Inoltre due ricercatori americani (fig. 1) hanno fatto una scoperta a dir poco sconcertante, per la quale hanno preso il Nobel nel 1994: un enzima particolare, per poter accedere all’interno di una cellula, trasmetteva un segnale in multifrequenza variabile (traducibile in termini logici in un linguaggio binario) e con esso permetteva alla cellula di trasformare la sua membrana esterna da impermeabile a permeabile, una sorta di comunicazione non più chimica ma logica, che permetteva una azione biologica di ingresso! Una sorta di informatizzazione instauratasi all’interno dell’organismo umano!
fig. 1
Ora, avendo dimostrato che l’azione svolta dal riflessologo su mani e piedi è di tipo binario e sapendo che, guarda caso, all’interno di queste due strutture anatomiche esistono (e solo in esse in un numero così elevato!) elementi, organi e corpuscoli particolari di dubbia conoscenza, è logico presupporre che l’azione del riflessologo sia simile a quella di una persona che attraverso un i/o (tastiera o quant’altro) comunica con l’unità centrale (fig2).
fig. 2
La differenza sta che nell’elaboratore tutto il software, dal linguaggio macchina al sistema operativo ai programmi applicativi, è precostituito dall’uomo, mentre nell’uomo questo ipotetico ed eventuale software si è costituito, probabilmente, nel corso della sua evoluzione ed è aperto, in continua espansione, senza soluzione di continuità: un enorme programma che si auto-evolve e che stabilisce le sue regole con la sola condizione del tempo, in cui mani e piedi, sotto l’azione riflessa, sono l’unica eccezione di questo programma.
Stabilito quindi il nesso tra la riflessologia e questa enorme, ipotetica incastellatura di dati che “girano” all’interno del corpo umano, veniamo ora ad un’altra testimonianza proveniente dall’antico mondo Egizio.
Verso la fine del secolo scorso siamo venuti a conoscenza di un sito non frequentato dai turisti e neanche dagli egittologi stessi, in quanto quel luogo era considerato un’area sacra per gli egiziani Copti.
La rappresentazione qui proposta è purtroppo un disegno, in quanto la fotografia in quel luogo non fu permessa. Ciò non rappresenta un grosso ostacolo, in quanto il disegno rimane, pur sempre, una testimonianza valida (fig. 3).
fig. 3
Il primo elemento che si evidenzia è l’assenza di un vero e proprio geroglifico. Questa rappresentazione iconografica è composta di quattro blocchi: tre posti verticalmente e l’ultimo che circonda gli altri. La mancanza di una scrittura in geroglifico ci induce a pensare che queste incisioni fossero state eseguite prima dell’avvento di tale lingua, quindi anteriori al 2200, prima della dinastia dei faraoni e prima di Ankh-mahor.
I caratteristici copricapi sacerdotali, evidenziati nelle figure umane, stanno ad indicare che la scena è centrata sull’elemento sacro: bisogna ricordare che nell’antico Egitto il “sacro” oltre ad essere appannaggio di una casta chiusa ed ermetica, era anche l’ambito unico in cui si esprimeva l’atto “scientifico”. In poche parole l’élite sacerdotale era padrona delle conoscenze di allora.
Il secondo dato riguarda il tema soggiacente all’iconografia: la riflessologia plantare!
Oltre alla prima immagine in cui si osserva un sacerdote che pone le mani su altre due persone, e che di per sé non è un indizio fondamentale, vi sono altre immagini rappresentate nel disegno solo da spazi vuoti, ma raccontate dal testimone: per ogni figura disegnata nei riquadri superiori vi è una mano che preme su un piede, come nella più classica posizione rappresentante l’atto riflessologico!
Quindi, se la prima figura umana sacerdotale esprime l’azione ed il concetto riflesso, il secondo blocco verticale, cioè le due figure uguali contrapposte e speculari, rendono l’idea binaria (fig. 4).
fig. 4
I due personaggi (a detta del testimone) sono perfettamente identici, uno di fronte all’altro e con le mani unite, quasi a voler testimoniare l’unicità nella contrapposizione riflessa (nella matematica binaria, l’1 non può sussistere senza lo 0 e, in termini informatici, il linguaggio binario viene espresso attraverso due segnali identici in onda quadra, ma contrapposti). Il fatto poi che queste immagini, la prima e la seconda, siano collegate insieme, significa semplicemente che l’elemento riflesso non può sussistere senza l’elemento binario, e che i due viaggiano in sintonia, vincolati reciprocamente l’uno all’altro.
La scelta delle figure umane nell’esprimere concetti apparentemente lontani da esse, conferma che solo nell’organismo umano ciò si può esprimere mutuamente.
Il terzo blocco (terza immagine partendo dal basso) rappresenta un albero con degli uccellini posati sui rami.
Qui siamo stati facilitati nell’interpretazione, perché questa rappresentazione è un classica immagine che nel corso dei secoli della storia dell’antico Egitto, si è ripetuta varie volte: è l’albero della vita egizio (fig. 5).
fig. 5
Il primo volatile a sinistra rappresenta il passato, quello ad ali spiegate il presente, i tre laterali di destra il futuro (l’interpretazione viene dal mondo accademico).
La domanda sorge spontanea: cosa ci fa questa rappresentazione all’interno di un vero schema a blocchi, in cui lo sviluppo concettuale si esprime, come la crescita di un albero, dal basso verso l’alto? E poi, l’azione temporale, vista come lo scorrere del tempo (passato, presente e futuro) cosa c’entra con l’aspetto binario/riflessologico?
Si potrebbe obiettare che l’albero della vita egizio stia a rappresentare, come in altre antiche culture, un elemento filosofico ed etico. Ma qui non bisogna dimenticare che siamo di fronte ad una descrizione eseguita da sacerdoti egizi, antichi scienziati, e se c’è una elemento ricorrente nei loro studi, direi quasi maniacale, è il concetto di eternità, un tempo che scorre all’infinito senza nessun altro condizionamento (fig. 6).
fig. 6
La questione si fa ardua: dopo aver dissertato su questioni riflessologiche e binarie, il nostro antico autore ci conduce in un territorio decisamente difficile da accettare.
Seguendo la logica di questo antico autore, l’atto riflesso abbinato all’elemento binario inciderebbe sul tempo!!??: se fosse realmente così, io sarei il primo a saperlo, e i miei capelli bianchi, per fare un semplice esempio personale, sarebbero magicamente ricondotti al loro splendore giovanile… ma purtroppo non è così!
Devo dire che nel raccontare gli eventi che si sono susseguiti all’interno del nostro laboratorio questo fatto ci è sembrato un ostacolo insormontabile. La cosa migliore da fare era sicuramente lasciar sedimentare il concetto e aspettare idee nuove che… puntualmente sono arrivate!
Il problema doveva essere affrontato in maniera diversa: se effettivamente il nostro antico precursore posizionava l’elemento temporale in quell’esatto punto del suo “trattato”, doveva esserci una ragione, e magari con le conoscenze attuali questo fattore poteva essere svelato.
Chi nel secolo scorso rivoluzionò il concetto del tempo, portandolo da una situazione costante ad una relativa, fu Einstein. Egli, come tutti sanno, dimostrò con la sua teoria sulla “relatività generale” che il tempo in condizioni particolari, difficilmente riproducibili sulla terra, non era una costante, bensì variava. Forse non tutti sanno che la sua teoria sarebbe rimasta solo un concetto filosofico, peraltro ipotizzato da altri prima di lui (vedi Aristotele), se non fosse intervenuto un matematico ravennate, Gregorio Ricci Curbastro, che con il suo “calcolo tensoriale” risolse la questione matematica sulla teoria relativistica.
In pratica il tempo assumeva un significato dimensionale tale che, da allora in poi, se ne è parlato come di una quarta dimensione che si aggiungeva alle altre tre, ben note.
La cosa che risulta curiosa è che da allora questa nuova dimensione, che “riveste” lo spazio circostante e la materia in esso contenuta, è rimasta pressoché al suo confine iniziale. Ci si sarebbe aspettato che fossero formulate nuove teorie a completamento di questa, nuovi corsi e lauree su questa argomentazione scientifica.
Uno degli esempi con il quale Einstein tendeva a dimostrare la sua teoria è quello del treno che viaggia con una velocità vicina a quella della luce (fig. 7).
fig. 7
Il paradosso nasce dal fatto che la persona all’interno osserverebbe un fatto (la contemporaneità dell’incidenza dei due raggi perpendicolari alle pareti) completamente diverso da ciò che potrebbe vedere il personaggio esterno (uno colpirebbe istantaneamente la parete, mentre l’altro tenderebbe a non raggiungere la parete sfuggente).
Il tutto si risolverebbe se il tempo all’interno del vagone fosse diverso rispetto al tempo della persona esterna.
La “condicio sine qua non”, per cui la teoria regge, è la velocità del vagone, la quale tenderebbe ad essere vicina a quella della luce.
In altre parole, il tempo all’interno di quel vagone chiuso sarebbe diverso dal tempo esterno.
Alcune domande sorgono spontanee: cosa succederebbe se, invece di una velocità costante in una direzione, il vagone, magari con dimensioni infinitesimali, avesse un direzione alternata in un brevissimo spazio (avanti –indietro)? Oppure, sempre in spazi ridottissimi, se la velocità fosse di tipo angolare, cosa risulterebbe? Inoltre si è proprio sicuri che i due tempi non si condizionerebbero se il vagone fosse bucato? (se fosse così, l’altra “condicio sine qua non”, sarebbe che il tempo t debba essere circoscritto in uno spazio diverso e chiuso rispetto a t1).
Ora, tenendo presenti queste dissertazioni sul tempo, torniamo alla nostra immagine: indipendentemente dallo stato di quiete o di relativo moto (velocità) di un corpo (in questo caso s’intende esattamente il corpo umano), chiediamoci se il nostro antico autore non avesse voluto significare che, per ragioni ancora sconosciute, all’interno del nostro corpo il tempo fosse diverso da quello esterno, magari di poco, forse di qualche nanosecondo, ma pur sempre diverso (fig. 8).
fig. 8
Se fosse così, il processo simbolico che sta alla base delle immagini avrebbe un senso compiuto: l’azione riflessa inciderebbe su un ipotetico software, il quale tenderebbe ad allineare due tempi diversi. Incidendo sulla materia contenuta nello spazio (come si sa ad una contrazione, seppur minima, temporale, segue una contrazione dello spazio e quindi un movimento della materia).
Prima che qualche lettore si stracci le vesti e urli “anatema”, cerchiamo di capire se ci siano indizi, elementi concreti, che comprovino questa ipotesi. La prima cosa che salta all’occhio è l’immagine di Ankh-mahor: questa teoria spiegherebbe quelle strane posizioni. In effetti, se si considera che il tempo è una sorta di vestito invisibile che ricopre la materia e quindi anche il nostro corpo (t1) per poter allineare i due tempi (t1 tempo esterno al corpo, t tempo diverso ed interno al corpo) ciò che risulta lontano deve per forza di cose avvicinarsi al centro, quindi mani e piedi devono accentrarsi il più possibile: i talloni accanto ai glutei, le mani sotto l’ascella (ciò per simulare il più possibile l’ingresso verso l’interno). Per la stessa ragione, cioè facilitare un ricongiungimento dei due tempi, i corpi devono essere nudi perché ogni spazio e/o materia che s’infrappone tra loro tende a creare un maggior confine e quindi un allontanamento temporale (in questo caso per facilitare la comprensione il tempo viene ricondotto ad una semplice dimensione). Sempre per la stessa ragione il corpo non deve toccare nessuna materia a lui esterna (perché questa conterrebbe uno spazio, e quindi un tempo sempre diverso da quello interno), per cui il busto si erige ed il corpo offre un minimo punto d’appoggio con la materia circostante. In altre parole, se potesse, Ankh-mahor farebbe introdurre i suoi arti all’interno del corpo del suo ipotetico cliente ed eseguirebbe l’azione per aria senza toccare nessun oggetto!!
Questo naturalmente è solo un indizio a favore della teoria.
Peraltro, nella realtà riflessologica si assiste a risposte che indicherebbero una evidente componente temporale.
La prima riguarda la classica reazione negativa: ogni riflessologo sa che come risposta alle sedute l’organismo reagisce con dei sintomi negativi. Ebbene, si è visto che questi sintomi sono retrodatati, come se l’organismo riproducesse la storia sintomatica del cliente, riproducendola in maniera cronologica.
Altri flebili indizi (ma pur sempre indizi!) sono le risposte dei nostri clienti all’azione riflessa. Spesso, e qui la risposta femminile è preponderante, essi si accorgono che la loro pelle, indipendentemente dalla problematica accusata, migliora (ricordo che la pelle risulta essere il confine tra i due tempi) come se fosse ritornata a periodi migliori! Spesso il giudizio estetico di parenti ed amici risulta essere decisamente favorevole (la frase tipica è “sembri più giovane!”).
Un’altra considerazione riguarda un’esperienza comune ai più, e poco, se non del tutto, assente nelle ricerche scientifiche.
Prima di procedere bisogna soffermarsi sul fatto che per poter considerare una separazione temporale tra interno del corpo umano ed esterno, bisogna trovare una situazione che divida il più possibile il mondo esterno da quello interno.
Questa situazione avviene almeno una volta nelle 24 ore, ed è rappresentata dal sonno. In effetti in questo momento si verifica il massimo distacco (anche se non completo) con la realtà circostante: l’organismo, in questo particolare momento, cambia tutto il controllo metabolico ed il sistema nervoso autonomo fa la parte “del leone”, sostituendosi a quello centrale: in altre parole l’organismo “abbassa le saracinesche e si chiude in se stesso”. È proprio in questo ambito che spesso e volentieri ci si accorge di un fenomeno particolare che contribuirebbe ad avvalorare la tesi di un delta temporale: a quanti di noi è capitato di addormentarsi sapendo l’esatta ora e di compiere un sogno ricco di avvenimenti e particolari pregno di fasi successive e consequenziali, e risvegliarsi con stupore nel vedere che ciò che sembrava nel sogno un tempo interminabile, si è ridotto nella realtà cosciente, cioè esterna, in pochi minuti? Probabilmente se si dovesse riprodurre un filmato del sogno ci ritroveremmo in un simile paradosso evidenziato in precedenza con l’esempio del vagone: un filmato “lungo” in un tempo “breve”. La soluzione, senza scomodare la velocità della luce, risiederebbe in una logica differenza di tempo tra interno ed esterno (fig. 9).
fig. 9
È logico, ritornando alla questione fisiologica, che se tutto ciò fosse vero le alterazioni spesso e volentieri sarebbero associate ad un maggiore o minore delta temporale. In poche parole più si è ammalati e più questa differenza risulta essere sostanziale. In questo caso l’inconsapevole riflessologo, sembrano dirci questi antichi autori, che ricordo non essere dei medici bensì dei sacerdoti, agirebbe in tal senso: agendo all’interno dell’organismo con una sorte di “interrupt”, modifica i dati e provoca, attraverso un riallineamento temporale, un adattamento cellulare localizzato.
Consapevole della particolarità di queste argomentazioni, devo assolutamente precisare che laddove le problematiche fisiologiche fossero fuori da questo schema, l’intervento riflesso risulterebbe ininfluente. Se per esempio una persona si mangiasse una scatola di chiodi, la soluzione sarebbe una sola: quella di togliere i chiodi dal corpo. Oppure, se l’organismo, come amo ripetere ai miei collaboratori, prima di nascere avesse deciso che il suo rene, per questioni genetiche, dovesse ricoprirsi di materiale estraneo e non funzionale, la questione del tempo risulterebbe fondamentale quanto il 2 di picche in un classico gioco a carte…. ecc. ecc.
Le argomentazioni di questa ricerca evidenziano un fatto importante: la questione “ tempo” non rimane relegata in una sorte di limbo religiosamente intoccabile, ma può essere considerato come qualsiasi oggetto che, confinato nella propria dimensione, può essere manipolato, senza necessariamente sfociare in improbabili viaggi nel tempo, tanto cari alla fantascienza. È in questo senso che il nostro laboratorio lavora, e proprio percorrendo questa strada si è deciso di fare l’unica cosa logica per sperimentare questa teoria (ed è il classico uovo di Colombo): mettere in pratica ciò che da circa 4000 anni Ankh-mahor ci diceva. Abbiamo eseguito l’intervento riflesso copiando (e la parola copiare rende perfettamente l’idea) le immagini anticamente proposte, sperando in un effetto particolare… e qualcosa di importante è successo!
Le persone trattate in quella particolare posizione (definita da noi “posizione egizia”) hanno avvertito delle sensazioni fisiologiche particolari (forti punture nel corpo, vibrazioni, corrente, freddo intenso o caldo, ecc. ecc.) che sparivano nel momento in cui si rimettevano normalmente sul lettino.
La sperimentazione è tuttora in corso, i protocolli sono precisi, in modo da rendere il fenomeno inoppugnabile. Si è proceduto in questo caso ad interporre un elemento, di cui si conoscono le proprietà chimiche e fisiche, e le sensazioni si sono amplificate a tal punto da rendere difficoltoso il proseguimento dell’esperimento!
Tutto ciò nell’ottica di dare una spiegazione definitiva al fenomeno riflessologico, senza condizionamenti di sorta, ma soprattutto senza fare, come spesso fa l’ortodossia medico/scientifica, il gioco delle tre scimmiette: non vedo non sento non parlo!
A questo punto si è giunti finalmente alla conclusione di questo articolo; il nostro laboratorio, anche se con qualche difficoltà (non ultima quella economica, la ricerca è svolta unicamente su base volontaria) proseguirà il proprio lavoro, tenendo ben presente l’obiettivo finale sapientemente, e devo dire saggiamente, celato dai nostri antichi progenitori.
Questo articolo (qui proposto in versione aggiornata) è stato pubblicato originariamente su NEXUS New Times nr. 87 (giugno-luglio 2010). La ripubblicazione è gradita, citando la fonte originaria e la presente dicitura.
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