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La sindrome di Jonathan e.

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Non sono rimasto particolarmente sorpreso della tiepida accoglienza riservata dalla stampa specializzata alla notizia del lancio ufficiale della Tesla Roadster, anche se ingenuamente mi aspettavo che il mondo delle quattro ruote sarebbe rimasto scosso alle fondamenta dall’apparizione sul mercato di un’auto elettrica rivoluzionaria, all’avanguardia nella tecnologia e nel design, non inquinante, silenziosa, con un’autonomia più che soddisfacente (oltre 400 Km), un’ottima velocità di punta (210 Km/h) e un’accelerazione da 0 a 100 Km/h in 4 secondi, tale da permetterle di “mandare per stracci” ben più blasonate Porsche e Ferrari.

E a proposito di Ferrari, mi ha fatto molto riflettere il tormentone di fine estate sul ritiro o meno di quell’indiscusso talento dell’automobilismo sportivo che è Michael Schumacher. Non ho mai digerito certi suoi atteggiamenti in pista e fuori (in particolare il modo in cui ha vinto il suo primo titolo mondiale ai danni di Damon Hill, nel ’94, e quello con cui lo ha perso nel ’97 nel confronto con Jacques Villeneuve) ma, vivaddio, sette titoli mondiali di Formula 1 conditi dal record assoluto di vittorie, pole position e giri veloci non sono certo frutto della fortuna! Eppure, già da due o tre anni, sulla stampa hanno cominciato ad apparire sempre più insistentemente articoli e commenti dedicati a ipotizzare il momento del suo ritiro dalle competizioni. Quest’anno la questione è letteralmente esplosa, e si dà ormai per certo l’annuncio del suo ritiro in occasione del prossimo Gran Premio d’Italia, a Monza.
Secondo il mio modesto parere, Schumacher in cuor suo non ha alcuna voglia di ritirarsi: si diverte ancora a fare quello che fa, e malgrado ultimamente il suo modo di correre rifletta una certa mancanza di serenità probabilmente indotta dalle tremende pressioni a cui è sottoposto, rimane un pilota tremendamente efficace, un professionista dal talento cristallino che torreggia ai vertici della sua categoria. Personalmente spero che trovi il coraggio di fare quello che in cuor suo vorrebbe, e continui a regalarci emozioni, epici duelli e nuove vittorie, sbugiardando quel sistema di pensiero che vorrebbe sbarazzarsi di un ragazzo di 37 anni (il grande Nigel Mansell vinse il suo primo e unico titolo mondiale nel ’93, quando ne aveva quasi 40; stufo dell’ambiente, emigrò negli USA e l’anno successivo, da esordiente assoluto nella categoria, stracciò i più blasonati piloti d’oltreoceano e vinse il titolo mondiale di Formula CART…) e comincia già a gettare le basi per mandare in pensione quell’autentico fenomeno che è Valentino Rossi.
Probabilmente vi chiederete come mai mi stia dilungando in tematiche che esulano dai contenuti della rivista che mi pregio di dirigere e dai miei soliti interventi in rete. Diciamo che le vicende di cui sopra mi hanno ricordato la trama di un film che ho molto amato ai tempi della sua uscita nelle sale cinematografiche, e che trovo quanto mai attuale: mi riferisco a Rollerball, interpretato da un magnifico James Caan. Il film è ambientato nel 2018, in un mondo governato dalle corporazioni in cui le guerre non esistono più, l’informazione è accuratamente censurata e le tensioni sociali vengono incanalate e controllate tramite farmaci psicotropi, mezzi di comunicazione di massa e in particolare uno sport assai violento, il Rollerball.
Il protagonista della storia si chiama Jonathan E., è da anni ai vertici di questo sport e ne sta diventando il simbolo. Il sistema corporativo comincia ad innervosirsi per la sua crescente popolarità, e decide che lui debba ritirarsi. Jonathan, già disgustato dal fatto che anni prima era stato forzatamente separato dalla moglie, rifiuta ogni proposta e sfiderà il potere costituito sino alle estreme conseguenze, in un’epica partita finale nella quale… be’, non voglio rovinarvi il piacere di guardarvelo, nel caso non l’abbiate mai visto. Sono certo che rimarrete impressionati da quanto fosse profetico nei suoi contenuti.

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