May God us keep from single vision and Newton’s sleep!
– W. Blake
A distanza di circa un secolo dalla pubblicazione dell’Optics di Newton (1704), il poeta romantico Johann W. Goethe pubblicava un’opera molto originale dal titolo Zur Farbenlehre, o ‘teoria del colore’. Questa è forse l’opera più enigmatica e meno ‘ortodossa’ dei numerosi scritti di Goethe sulle scienze naturali. Proprio per questo può essere usata come caso-limite per illustrare l’intero approccio di Goethe alla comprensione del mondo naturale. A rendere originale e abbastanza anomala l’opera è la sua natura multidisciplinare, contenente sezioni sulla”fisiologia della percezione” (anche se non da un punto di vista biologico ma da un punto di vista ‘fenomenologico’), fino a contemplare l’estetica e gli aspetti morali e psicologici dei colori, oltre ad una parte con osservazioni di fisica dove si sviluppa la polemica contro l’ottica di Newton. Nonostante questa ampia varietà di aspetti ne risulta una dottrina generale del colore unitaria ed organica.
Questo lavoro si colloca ovviamente sulla scia delle filosofie della Natura sviluppate nel contesto del Romanticismo tedesco, e la cui più sistematica espressione si ebbe nel pensiero di Schelling, tuttavia vi sono elementi molto originali tipici della concezione goethiana delle scienze naturali. Lo scontro, soprattutto da parte di Goethe fu con la scienza newotiana e la concezione meccanicistica e atomistica. Già nel XVII secolo i filosofi meccanicisti che elaborarono l’ontologia più adatta a sposarsi con la scienza galileiana distinguevano le proprietà dei corpi in “primarie” (quelle misurabili, relative a forma dimensione e numero) e altre “secondarie” (quali colore, odore, sapore etc.) declassate a “soggettive” e non interessanti per il progetto di lettura matematico-meccanico del mondo. Fu alla base dell’approccio goethiano alle scienze naturali il dare prioritaria importanza all’aspetto soggettivo, perché la Natura è viva ed è espressione di uno Spirito (in senso romantico) e non una natura-morta, come nell’astratto approccio meccanicistico. Lo stesso fenomeno della visione è impensabile senza la Luce e l’occhio stesso sulla scia di Plotino doveva essere pensato come dotato della stessa essenza della luce (Goethe parafrasava Plotino scrivendo: “Se l’occhio non fosse solare,/ come potremmo vedere la luce?/Se non vivesse in noi la forza propria di Dio,/come potrebbe estasiarci il divino?”). Lo scontro con l’ottica newtoniana si consuma già nella scelta metodologica e Goethe contestava duramente ai newtoniani di voler imporre al colore delle procedure matematiche, così come la pretesa di ricondurli a mere misurazioni quantitative. E una scienza naturale del colore deve poter spiegare e comprendere anche i dati soggettivi, qualitativi, estetici e spirituali del fenomeno del colore e della visione.
Goethe considerava l’emergere del colore dall’interazione fra la luce e il buio. Secondo la teoria di Newton la luce bianca è eterogenea, composta di parti, cioè i raggi dei singoli colori (Newton peraltro sosteneva la natura corpuscolare della luce) dalla cui composizione derivava la “luce bianca”. Il “buio” nella fisica di Newton non è nulla, semplice assenza di luce e pertanto da non prendere neppure in considerazione. Per Goethe invece luce ed oscurità sono due grandi poli del mondo naturale , di uguale valore ontologico – e qui ritroviamo la grande intuizione romantica dello Schelling sulla legge di polarità in atto in tutti i fenomeni naturali. L’oscurità nella sua interazione con la luce contribuisce a creare il fenomeno cromatico. I colori per Goethe non sono dunque realtà primarie (semplici) che compongono la luce bianca, ma sono un fenomeno complesso che sorge da questa interazione, in particolare all’interfaccia tra luce e buio.
Goethe osservava che le deduzioni di Newton dalle sue osservazioni sperimentali non erano appropriate. Secondo il poeta tedesco, Newton non aveva prestato particolare attenzione al fatto che, nella sua principale osservazione di pretesa “scomposizione” della luce con il prisma, ad essere colorati sono solamente i bordi del raggio uscente. Soprattutto, rileva Goethe, Newton non si accorse che una semplice parete bianca non è sufficiente alla produzione dello spettro cromatico. I colori si presentano infatti, semmai, lungo il bordo di una striscia nera già presente sulla parete. Partendo da questa osservazione fu possibile per Goethe impostare nuovi esperimenti.
Si osserverà che, ponendo una striscia bianca su fondo nero, attraverso il prisma comparirà su una delle due interfacce il giallo, confinante col bianco e che tenderà al rosso verso la zona nera; e sull’altra l’azzurro (confinante col bianco) che, verso il nero, virerà verso il blu scuro o viola. La polarizzazione sarà: sul bordo di destra appaiono i colori chiari (giallo etc.), su quello di sinistra i colori scuri (gradazioni del blu).
Invertendo invece le condizioni, ponendo una striscia nera su fondo bianco, la polarizzazione si inverte e attraverso il prisma si produrranno i colori chiari a sinistra (sempre con il giallo che confina col bianco e il rosso verso il nero) e i colori scuri a destra (con l’azzurro verso il bianco e il blu scuro confinante col nero).
Per Goethe esistono dunque solo due colori primari e non sette. Va detto peraltro che la decisione di dividere in sette segmenti lo spettro continuo dei colori fu una scelta tutto sommato arbitraria di Newton, il quale comunque la mutuò dalle dottrine tradizionali sul settenario, di derivazione pitagorica, e sull’analogia coi sette pianeti (l’influsso della tradizione esoterica e in particolare dell’alchimia su Newton è un fatto ormai accertato). Per Goethe esistono due colori primari: il Giallo e il Blu. Come detto, i colori sorgerebbero per attenuazione della luce o del buio, per esempio attraverso un mezzo opaco. Per attenuazione della luce si otterrà dunque il giallo e le sue gradazioni fino all’arancione, all’aumentare della torbidezza del mezzo. Ad esempio la luce al tramonto si presenta quasi rossa, poiché quando il sole declina aumentano gli strati dell’atmosfera frapposti fra noi e il sole, mentre normalmente la luce che filtra attraverso l’atmosfera ci appare, appunto gialla. Al contrario, aumentando la luminosità di un corpo trasparente sovrapposto all’oscurità, questa si schiarisce passando dal viola, all’indaco, al blu fino all’azzurro. Il cielo diurno appare azzurro perché il mezzo (atmosfera) è rischiarato dalla luce solare; con l’attenuarsi della luce il cielo assume una tinta sempre più scura, fino al blu notte, dovuto alla minima e soffusa luce stellare.
Dunque il Giallo rappresenta il polo positivo, il principio del chiaro, capostipite dei colori caldi, il calore, l’espansione, la repulsione, l’affinità con gli acidi. Il Blu, polo negativo, principio dello scuro, rappresenta il capostipite dei colori freddi, l’attrazione, la debolezza, l’affinità con gli alcali. Dalla dialettica di questi due poli sorgono per interazione gli altri colori. Ad esempio nell’esperimento suddetto, allontanando il prisma, i due bordi (polo giallo e blu) si avvicinano fino a sovrapporsi: ha così luogo il Verde. Se invece -come nel caso della striscia nera su fondo bianco – sono la banda blu-violetto e quella rossa a sovrapporsi, si ottiene allora il Porpora. Il Porpora (o Magenta) sarà quindi il complementare del Verde; si può dire che esso sia la più alta manifestazione del fenomeno cromatico, vi sono compresi infatti tutti gli altri colori ed in esso giungono all’equilibrio i due poli (la conjunctio oppositorum junghiana). Mentre il Verde è il semplice risultato della sovrapposizione del Blu e del Giallo, il Porpora è la risultante della loro convergenza “evolutiva”, dell’oscuramento del Giallo e del Blu.
Il cerchio cromatico di Goethe, a differenza di quello newtoniano, è simmetrico e si compone di sei colori, raggruppati per coppie di opposti complementari. Ognuno dei colori fondamentali (Giallo, Blu, Porpora) ha il proprio complementare nella somma degli altri due. Si ottengono due tipi di raggruppamenti: le “coppie armoniche” (due complementari cioè Giallo-Violetto, Verde-Porpora, Blu-Arancione) e le “coppie caratteristiche” (es. Porpora-Blu, Verde-Arancione, Violetto-Verde etc.) le coppie confinanti sono invece dette “prive di carattere, perché statiche e non evolutive.
Ogni colore e soprattutto ogni coppia è portatrice di significati culturali, artistici e psicologici (ma anche terapeutici essendo alla base della cromoterapia, scienza antica e tradizionale). Ad esempio la coppia Giallo-Blu esprime il contrasto tra luce e ombra, quella Giallo-Arancio esprime serenità e splendore. L’azione del Porpora offre “un’impressione tanto di gravità e dignità che di clemenza e grazia”. Anche il Verde esprime un equilibrio fra i due poli, anche se non ha la magnificenza del Porpora; dal Verde si ha soprattutto un senso di “appagamento”.
Goethe attaccò Newton proprio in quello che si riteneva la prova sperimentale decisiva per l’ottica newtoniana: la pretesa ricomposizione del “bianco” facendo ruotare velocemente un disco con i sette colori. In realtà quello che si vede è un grigio (non un bianco) derivato dalla confusione dei colori. Lo stesso grigio si ottiene con un disco contenente altri colori, non necessariamente i 7 colori newtoniani. Anche la conclusione che facendo convergere i colori uscenti dal prisma attraverso una lente si riotterrebbe il fascio originario viene respinta. Non si tratta di ricomporre la luce bianca: semplicemente la lente concentrando i fasci luminosi li rafforza, rafforza cioè i raggi “colorati” cioè depotenziati ed offuscati dal passaggio attraverso il prisma. Si va dunque a restituire forza al raggio, che viene a perdere il “colore”, poiché il colore è un adombramento della luce.
Oltre a questa sezione sulla “fisica” Goethe si occupò anche dei “colori fisiologici” derivati cioè dall’attività fisiologica dell’osservatore. Sono i casi in cui ad esempio due strisce dello stesso colore appariranno con tonalità differenti se poste su sfondi di colori diversi. In questi casi sarà lo sfondo a determinare la qualità dei colori, la semplice lunghezza d’onda (o velocità delle particelle) non essendo sufficiente a spiegare questo fenomeno, legato soprattutto al senso e alle qualità delle “informazioni” qualitative veicolate dai colori. Oppure, fissando un colore su fondo bianco, dopo un po’ si vedrà apparire sul bianco il suo complementare come prodotto dalla retina. Lo stesso fenomeno si verifica quando una luce di un colore particolare, proiettata su un oggetto, produce un’ombra illuminata a sua volta da una controluce: l’ombra assumerà il colore complementare a quello della luce da cui è investita. Scrive Goethe:
Se l’occhio percepisce un colore, viene subito messo in attività ed è costretto per sua natura, in modo tanto inconscio che necessario, a produrne subito un altro che insieme al dato includa la totalità della gamma cromatica. Ogni singolo colore stimola nell’occhio, mediante una sensazione specifica, l’aspirazione alla totalità. Per conseguire questa totalità, per appagarsi, l’occhio cerca accanto a ogni zona di colore una zona incolore, sulla quale produrre il colore richiamato dalla prima. Questa è la legge fondamentale di ogni armonia cromatica.
Come si vede la legge della complementarità dei “poli” torna anche qui ad essere il principio esplicativo, mostrando così la portata generale dell’approccio goethiano, una legge unitaria sia nell’ambito fisico che in quello psicologico.
Ovviamente a parte il mondo filosofico tedesco (Schopenhauer ed Hegel), soprattutto nella sua polemica romantica anti-newtoniana, questa dottrina di Goethe non ebbe successo nel mondo “scientifico”, invece ebbe un grande e forse misconosciuto influsso sulle arti figurative e soprattutto sulla pittura del XVIII secolo. Malgrado la particolarità di questo approccio persino dei fisici come Helmoltz e Heisenberg mostrarono rispetto ed interesse per l’opera. Il filosofo della scienza P. Feyrabend (1924-1994) ben comprese il nucleo del problema di fronte a questa problematica opera:
Si è più volte sottolineato come il problema non debba essere posto nei termini della domanda su chi tra Goethe e i fisici abbia ragione, ma piuttosto nei termini di quest’altra: si deve ammettere soltanto il metodo epistemologico della fisica oppure anche quello della via battuta da Goethe? È merito indiscusso di Goethe, anche se molto raramente riconosciuto, avere percorso con successo la via, rigettata dai fisici, di una teoria generale della natura, estendibile a tutti gli altri ambiti (da Arte e Scienza. 1984, P. Feyerabend e C. Thomas).
Sarebbe erroneo infatti pensare che lo studio goethiano sia ascrivibile all’ambito della “psicologia della percezione” unicamente, sebbene le sue conclusioni siano state anticipatorie in questo ambito di ricerca (es. la psicologia della Gestalt). Si tratta infatti di un nuovo modo di intendere le scienze naturali (con la pretesa di investire anche la fisica). Né si tratta di un discorso sull’estetica, sulla filosofia dell’arte. Non si può infatti negare che la teoria goethiana non sia supportata da una forte base sperimentale (sono perfino state avanzate correzioni sugli esperimenti di Newton) ed osservazionale. Si tratta però di un’ osservazione “integrale”, poiché si impone di ricostruire il dato integrale della percezione sensoriale; si tratta cioè di un modo alternativo di pensare la scienza naturale, in cui, in questo caso, la base osservazionale prende a fondamento sia il processo oggettivo-fisico sia il suo apparire fenomenologico-soggettivo. Si tratta di un approccio profondamente “olistico” perché restituisce l’unità dell’oggetto di indagine (in questo caso il fenomeno luminoso-cromatico) nella inseparabilità delle sue componenti “esteriori” e “interne”, rifiutando quindi uno degli assiomi del metodo scientifico del XVII secolo, cioè la distinzione fra qualità primarie e secondarie. Questo era il fondamento peraltro della “matematizzazione” del mondo intrapresa nel secolo del meccanicismo, poiché solo le qualità primarie erano misurabili e perciò matematizzabili. Ma la scienza “integrale” di Goethe rifiutava questa distinzione in nome dell’Unità del reale e dell’ esperienza: ciò ha portato a dei risultati meno in disaccordo con la percezione comune che non l’ottica della fisica classica, il tutto ovviamente ponendo una grande attenzione però su dati e osservazioni sperimentali. Questo ci darà modo di trattare successivamente del “metodo” goethiano di indagine del mondo naturale e delle sue relazioni con l’Antroposofia di Steiner.
Ci teniamo a far comprendere come i risultati di Goethe non hanno a che fare unicamente con la fisica della materia grossolana. Si tratta di un conoscenza cosmologica, sostanzialmente diversa dall’orizzonte ontologico degli oggetti della fisica. Scrive a proposito Steiner dell’ottica di Newton (op.cit. pag. 136):
La fisica moderna non ha veramente nessun concetto della “luce”; non conosce che luci specificate, colori che, in determinate combinazioni, suscitano l’impressione del “bianco”. Ma anche questo “bianco” non deve venire identificato con la “luce” in sé. Anche il bianco non è in fondo altro che un colore combinato. La “luce” nel senso goethiano non è nota alla fisica moderna e nemmeno la “tenebra”.[…] Goethe comincia là dove la fisica finisce.
Matteo Martini
Bibliografia
J.W. Goethe, La teoria dei colori, 2008, Il Saggiatore.
R. Steiner, Le opere scientifiche di Goethe. Le pagine citate sono riferite all’edizione del 1944 dei Fretelli Bocca.
P.Feyerabend, T. Christian, Arte e scienza , 1989, Armando Editore.
Articolo originale da Il Caduceo