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L’ALTRO 11 SETTEMBRE di Maurizio Blondet

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Sono quarant’anni che i «grandi media» trattano da
visionari complottisti tutti coloro che non credevano alla versione
ufficiale di quel lontano attentato: che un «assassino solitario» di
nome Oswald avesse ucciso il presidente.
Ora, quarant’anni dopo, nell’anniversario dell’assassinio, viene fuori la verità.

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John F. Kennedy (sinistra) e Lyndon B. Johnson (destra)

La dice la stessa amante di Johnson, Madeleine Duncan Brown. (1)
La donna è morta nel 2002, il 22 giugno; ma la sua immagine e il suo racconto emergono nitidi da una video-intervista di 80 minuti, che le fece un ricercatore indipendente di nome Robert Gaylon Ross.
La Brown aveva raccontato la sua relazione con Jonshon già dagli anni ‘80; ma – stranamente – nessun grande mezzo di comunicazione l’aveva mai intervistata a fondo su quella notte a Dallas.
Lucida, senza alcun odio per il suo antico amante, oggettiva, la Brown racconta nel video che il piano per uccidere Kennedy cominciò a prendere forma nel 1960, già durante la convenzione democratica dove il partito decise di candidare Kennedy alla presidenza, con Johnson come vicepresidente.
Fu H. L. Hunt, un miliardario texano del petrolio ad imporre Johnson, come contrappeso al candidato di quella che i maggiorenti texani chiamavano con dispregio «la mafia cattolico-irlandese», ossia la famiglia dei Kennedy.
La Brown ricorda nel video che camminava a fianco di H.L. Hunt a Dallas mentre costui ricordava il braccio di ferro con Joe Kennedy (il padre del clan) che era riuscito a imporre il figlio: «Abbiamo perso una battaglia, ma vinceremo la guerra», disse allora Hunt.
Il giorno dell’attentato, tre anni dopo, Hunt disse: «Ecco, abbiamo vinto la guerra».
Per la Brown, il regista dell’esecuzione era appunto Hunt.
«Avevano quel lodge fuori Dallas, si incontravano lì», dice: «Lui sceglieva gente diversa che poteva fare certe cose per lui, e sono sicura che questo cominciò due anni prima dell’assassinio. E’ stato un delitto del tutto politico, e Hunt lo controllava».

Una delle persone che facevano «le cose per Hunt» era Jack Ruby, tenutario di casinò, di bische clandestine, fornitore di ragazze allegre e di altri servizi occulti ai maggiorenti, non esclusi omicidi a contratto; l’uomo che il 24 novembre sparò ad Oswald sotto alle telecamere del mondo. Rievoca la Brown: «Giocavamo al poker al Carousel Club [il night di Ruby] e Jack Ruby arrivò e disse: Sapete che cosa è questo? Guardai, ed era [la mappa del percorso] della sfilata di auto… mi colpì che sapesse dove sarebbe passato il presidente… allora pensavo che fossero intoccabili».
La donna si riferisce spesso a un «8F group» per indicare il gruppo di individui che gravitava attorno a Johnson e ad Hunt.
Ne facevano parte petrolieri texani, giudici e Edgar Hoover, il direttore dell’FBI.
La sera del 21 novembre ci fu un party a Dallas, nella magione di Clint Murchison, un altro miliardario con buoni agganci con la famiglia mafiosa dei Genovese; Hoover era alla festa, e c’era anche Jack Ruby.
La Duncan Brown era presente, e ricorda parecchi nomi dei partecipanti.
C’era John McCloy, presidente del Council on Foreign Relatiuons, della Chase Manhattan Bank, intimo dei Rockefeller, al tempo consigliere politico di Kennedy.
C’era George Brown, della Brown & Root, grande impresa multinazionale di costruzioni, poi divenuta la Kellogg, Brown & Root, agenzia di infrastrutture che fornisce anche mercenari ed è stata assorbita dalla Halliburton.
C’era Clyde Tolson vicedirettore dell’FBI.
C’era Richard Nixon.
C’erano numerosi pezzi grossi della mafia, e una quantità di importanti giornalisti di giornali e TV.
La festa cominciò verso le 22, e gli ospiti manifestarono una certa sorpresa quando arrivò Lyndon Johnson, il vicepresidente, direttamente da Houston.
Subito McCloy convocò una riunione a porte chiuse con i più importanti dei presenti.
«Lyndon non restò a lungo nella sala della riunione», racconta la sua amante, «e quando uscì mi afferrò per il braccio e mi disse, con quella sua voce profonda: ‘Dopodomani quei figli di puttana (SOB, sons of a bitch) non mi daranno più guai».


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H.L. Hunt

«Se non fosse avvenuto l’assassinio, probabilmente Lyndon Johnson sarebbe finito in galera», rievoca Madeleine Duncan Brown.
Perché, racconta, stavano venendo fuori particolari scottanti sulle tangenti che il vicepresidente prendeva per certi programmi agricoli.
C’erano molti che erano disposti a testimoniare contro di lui; stranamente poi questi testimoni finirono male.
Alcuni furono implicati in scandali omosessuali.
Altri si suicidarono, uno di questi sparandosi alla testa cinque colpi.
Anche la Brown sostiene di essere stata «avvertita».
Suo figlio, il bambino illegittimo che aveva avuto da Johnson, dice, scomparve insieme alla baby sitter.
A quel punto la donna ritenne che sarebbe stata più sicura se avesse reso pubblico quel che sapeva della storia.
Scoprì che i media non erano interessati.
Eppure la versione della Brown è apparsa in un libro di 480 pagine («Blood, power and money – How LBJ killed JFK»), scritto da una personalità alquanto difficile da screditare come complottista visionario: Barry McClellan, padre di Scott McClellan, il portavoce della Casa Bianca all’epoca dei Kennedy.
Anche Robert Gaylon Ross, l’uomo che ha intervistato la Brown e ne ha ricavato il video-confessione, non ha l’aria di un visionario assetato di pubblicità.
Ingegnere texano, è stato ufficiale della Army Security Agency, il ramo militare della NSA (National Security Agency) con compiti di decrittaggio dei codici nemici.
Come tale, nel 1956-57, ha coperto l’incarico di comandante di compagnia in un gruppo di controspionaggio stanziato nella zona demilitarizzata fra le due Coree, proprio a ridosso del cessato il fuoco della guerra di Corea.
Può essere contattato alla Ross International Enterprise, la fondazione da lui diretta. (2)
Il video dell’intervista alla Brown è visibile al sito http://www.prisonplanet.tv/articles/august2006/290806jfk.htm.
Se non sparirà prima.

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Madeleine Duncan Brown

Quarant’anni dopo: la verità sul complotto che uccise Kennedy emerge quando ormai non ha alcun valore politico, non può più cambiare le cose, è buona al più per i libri di storia.
Accadrà anche per la verità sull’11 settembre 2001: forse fra quarant’anni saranno vendicati tutti i ricercatori che i media bollano come complottisti, visionari, malati psichici da ridurre al silenzio. Quando non servirà più.
Perché attenzione: c’è un filo che collega l’attentato del 1963 a Dallas e quello del 2001 a New York e a Washington.
I mandanti sono gli stessi gruppi d’interesse e i loro eredi d’oggi: complesso militare-industriale, petrolieri texani, pezzi di istituzioni responsabili del più alto livello di sicurezza (FBI), pezzi grossi le cui aziende sono state assorbite dalla Halliburton.
La Kellogg Brown & Root è molto attiva nell’Iraq occupato, e sta facendo profitti immensi fornendo tutto – mercenari, mense per i soldati, costruzioni – alla forza occupante.
C’è un filo nero che da Lyndon Johnson e Jack Ruby conduce a Bush e a Dick Cheney.
Tanto più grande la colpa, la complicità della stampa.
Avesse denunciato subito la versione ufficiale – che invece ha promosso e diffuso – sull’assassinio di Kennedy, avrebbe evitato all’America anche il colpo di Stato mascherato da «attentato di Al Qaeda», e le guerre di oggi e i suoi risultati disastrosi per lo stesso prestigio americano.
La rivelazione tempestiva dei fatti poteva «fare la differenza» non solo per allora, ma per il futuro più lontano.
Teniamoli a mente, questi volonterosi carnefici dell’inaudito Reich americano, questi nemici della patria e dell’umanità, che – anche sui media italiani – ci accusano di anti-americanismo.
Teniamo a mente la lezione.
Nel 1963 non esisteva internet: è la sola cosa che oggi può fare la differenza, far sapere la verità orrenda quando ancora può servire.

Note
1) Paul J. Watson, «LBJ night before JFK assassination: Those SOB’s will never embarrass me again», PrisonPlanet, 30 agosto 2006.
2) «What is RIE?», al sito http://www.4rie.com/

(Tratto da www.effedieffe.com)


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