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L’Effetto Babel

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A diciassette anni di distanza dall’invasione USA in Iraq, che ha lasciato una scia di distruzione e caos in tutta la regione dell’antica Mesopotamia, non sono ancora chiare le ragioni per cui l’amministrazione Bush ha speso trilioni di dollari per una guerra che non ha mai avuto alcun senso.
La versione generalmente accettata è quella che Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa in aggiunta ad un programma di armamento nucleare che Washington aveva ritenuto pericoloso per la sua sicurezza nazionale.
Nonostante sia stato poi appurato l’inesistenza di armi di distruzione di massa in Iraq, una buona parte degli studiosi di relazioni internazionali tende ancora oggi a leggere la “svista” di Bush come un “errore in buona fede”, data la complessità nella raccolta delle informazioni e il fatto che lo shock dell’11 settembre, di soli due anni prima, aveva spinto il governo USA a male interpretare l’estensione della minaccia che Saddam Hussein poneva nei confronti degli Stati Uniti.
Ma questa tesi non ha alcuna sostanza se non quella costruita, all’alba della mobilitazione contro l’Iraq, dalla stessa amministrazione Bush che intendeva raccogliere più consensi possibile tra gli americani. La campagna di propaganda ideata allo scopo è costellata da così tanta menzogna e disinformazione che, ad oggi, è molto difficile credere che una tale pianificazione non nascondesse sin dall’inizio ben altre motivazioni, soprattutto di natura finanziaria.
Certamente non era una priorità l’“esportazione della democrazia”, altro cavallo di battaglia che doveva servire a coprire un’aggressione unilaterale armata nei confronti di un paese sovrano con la glassa di eroismo dell’America di prendersi in carico i destini del mondo. Molto più credibile la spinta delle lobby israelite (non solo israeliane) che volevano espandere il proprio controllo sul Golfo Persico a discapito dei vicini arabi.
Ma c’è un’altra ragione, più sottile, meno visibile, dagli effetti duraturi e dirompenti nonché spettacolari, e la chiamerò: l’“Effetto Babel”. Nel 2001 Daniel Hecht dava questo titolo ad uno dei suoi romanzi, in cui un gruppo di scienziati scopre che alla radice della violenza vi è una malattia che interferisce con la comunicazione e con l’empatia umane.

In ebraico il termine Babel significa “confuso” dal verbo Balal, “confondere”. L’Effetto Babel della nostra era non è un lavoro di fiction ma sembra perfetto per analogia e comportamento alla spettacolarizzazione ultra-comunicativa in cui siamo immersi da due decenni, che non solo confonde e paralizza la nostra capacità critica ma è anche lo specchio di un esagerato esibizionismo che non conosce più né etica né morale. Come ai tempi della costruzione della Torre descritta nella Genesi, anche oggi l’uomo sembra fluttuare su un delirio di onnipotenza nato dal monismo materialista, alimentato dalla tecnologia e proiettato verso l’illusione che la libertà significhi caduta di ogni riferimento tradizionale e morale. La trasgressione è più cool e meno faticosa dell’educazione alla convivenza sociale.

L’Effetto Babel è un concetto molto ampio che però ha come comune denominatore la frammentazione, la divisione e la confusione provocate attraverso la pianificazione di eventi shock che sono in grado di paralizzare ogni tentativo di costruzione: morale, economica, sociale.

La storia non ha ancora accertato l’esatta localizzazione dello Shinar, luogo dove, secondo l’Antico Testamento, gli uomini sopravvissuti al Diluvio fondarono una città ed iniziarono a costruire la Torre di Babele. Sembra però che dovesse essere al confine tra il nord dell’Iraq e il nord-est della Siria.
Nel 2003 l’Effetto Babel colpisce l’Iraq con l’invasione dell’esercito USA, lanciando un segnale molto chiaro al mondo arabo (soprattutto a Siria, Iran, Libia): l’influenza americana doveva restare il caposaldo della geopolitica mondiale.
In due occasioni, a febbraio e luglio del 2001, l’allora segretario della difesa Donald Rumsfeld ebbe a dire che togliere di mezzo Saddam avrebbe “perfezionato la credibilità USA e la sua influenza nella regione”. Poi avvenne l’11 settembre, in cui due torri caddero (vedi l’articolo Operazione "Enduring Freedom" o quanto “dura” la nostra libertà)
La guerra in Afghanistan non era sufficiente, anche perché il vero obiettivo era, come lo è ora, l’Iran. Serviva una manovra a ventaglio che poteva innervosire lo stato Islamico e, allo stesso tempo, tagliarlo fuori da possibili alleanze con i paesi vicini. L’Iraq, inoltre, era un paese con un peso specifico maggiore rispetto alla terra dei Talebani e vi erano alcune questioni in sospeso sin dalla guerra del 1991, quando Bush senior si era fermato alle porte di Baghdad senza entrarvi.
 

L’Effetto Babel utilizzato per l’invasione dell’Iraq si è concretizzato in una serie di pretesti, allusioni, accuse inconsistenti che hanno ottenuto un effetto devastante. Come è scritto nella Genesi, “Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città” (Gen 11:8). Tradotto in termini geopolitici, fu avviata una reazione a catena che, negli anni a venire, avrebbe avuto ripercussioni su tutti i paesi vicini: Egitto, Libia e Siria sarebbero stati colpiti come un virus letale dalla guerra civile, così che gli uomini “cessarono di costruire”.

A riprova di ciò esistono le dichiarazioni di Rumsfeld che il 30 settembre 2001 consigliava a Bush:“Il governo USA dovrebbe porsi un obiettivo di questo genere: nuovi regimi in Afghanistan e in un altro stato chiave [o due] che sostiene il terrorismo…
mentre Douglas J. Feith, allora sottosegretario alla difesa, scriveva a Rumsfeld il mese successivo:“Un’azione contro l’Iraq renderebbe più facile un confronto politico, militare o di altra natura con Libia e Siria

L’amministrazione Bush usò la paura per le armi batteriologiche e il terrorismo come piede di porco per scardinare gli equilibri delle nazioni del Golfo Persico; spese trilioni di dollari, provocò centinaia di migliaia di morti, destabilizzò la regione e favorì la nascita dell’ISIL (Islamic State of Iraq and the Levant) poi diventato ISIS. Un simile metodo tentato dall’amministrazione Trump solo pochi mesi fa nei confronti dell’Iran.

Lo scorso febbraio Donald J. Trump dichiarava che la ragione per cui le sue truppe si trovavano ancora in Iraq era per monitorare l’Iran. Una tale affermazione ha sollevato in parte il velo di menzogne somministrate all’opinione pubblica negli ultimi diciassette anni sulle ragioni della guerra in Iraq, tanto da spingere gli attuali leader iracheni a chiedere l’espulsione immediata dei militari USA dalla nazione. Con un’abile retromarcia ed una parziale correzione dei termini l’amministrazione Trump assicurava agli iracheni che l’accordo USA-Iraq e la costituzione dell’Iraq, che proibisce l’uso di forze straniere per controllare un altro paese, sarebbero state rispettate in pieno. Ma al contempo, lo scorso gennaio il Wall Street Journal pubblica un articolo in cui il governo USA sembra aver minacciato di chiudere l’accesso ai conti federali di New York qualora l’Iraq chieda nuovamente a Washington di smobilitare le sue truppe. A New York sono tenuti i profitti delle vendite petrolifere e un blocco a quelle risorse causerebbe il crollo del sistema finanziario iracheno. Altra ragione, questa, per la quale l’Iraq non potrebbe liberarsi tanto facilmente della presenza USA sul suo territorio, che ammonta a 5200 uomini dislocati in 6 diverse aree: Al-Qaim (confine con la Siria), Al Asad, Taji, Bismayah, Qayyarah occidentale e Irbil (nel cuore del Kurdistan).

Anche in questo caso è la finanza l’ostacolo più arduo da superare per ottenere una vera indipendenza nazionale. Che l’Iraq sia tutt’ora un paese “satellite” della politica imperialista americana lo dimostra il bombardamento da parte di truppe israeliane alle basi del PMF (Popular Mobilization Forces), milizia armata formata dal governo iracheno nel 2014. La crisi in questo caso fu evitata attraverso lo strumento del diniego, in quanto gli USA dissero di non essere assolutamente a conoscenza dei piani di Israele.

Altra versione dubbia, visto che attualmente l’amministrazione Trump ha sotto mira proprio il PMF, accusato di essere uno strumento di controllo da parte dell’Iran (nemico giurato anche di Israele per pura “coincidenza”). La legge che dovrà espellere gli USA dall’Iraq si sarebbe dovuta perfezionare in questi mesi, specialmente dopo l’uccisione di un certo generale Qasem Soleimani il 3 gennaio 2020.

L’Iran avrebbe potuto dichiarare guerra agli USA, che avrebbero avuto buon gioco nel rinforzare le truppe sia in Iraq che in Afghanistan. Israele non sarebbe stato certo a guardare, schierandosi a fianco del suo “protettore” atlantico. A quel punto Russia e Cina sarebbero potute scendere in campo e non certo a fianco degli USA. Siamo stati vicinissimi all’inizio di una nuova guerra mondiale combattuta, secondo l’apocalisse di Giovanni, nell’Armageddon, luogo dell’ultimo scontro prima della fine dei tempi. Armageddon, come Babel, si troverebbe da qualche parte tra Siria, Palestina e Iraq.

Un tale scenario non si è verificato, l’Iran non ha (ancora) reagito. E poi è arrivata una delle “sette piaghe d’Egitto”, non in forma di locuste ma di un agente patogeno invisibile e molto controverso che sta modificando tutti gli assetti politico-economici del mondo chiamato Coronavirus, che estrinseca alla massima potenza il concetto dell’Effetto Babel.

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