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Libia: golpe e geopolitica

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Tratto da: http://www.eurasia-rivista.org/8529/libia-golpe-e-geopolitica
 

DI Alessandro Lattanzio 

Libia: Golpe e Geopolitica

«A mio parere, qualsiasi futuro ministro della Difesa che di nuovo pensi di consigliare a un presidente di mandare l’esercito in Asia, in Medio Oriente o in Africa dovrebbe farsi esaminare la testa, come disse diplomaticamente il generale MacArthur»

Robert Gates, segretario alla difesa dell’amministrazione Obama, in un discorso a West Point, l’accademia militare dell’USArmy.

Nel mondo globalizzato di oggi si fa sentire, in modo abbastanza inquietante, la tendenza al regionalismo, che si esprime nella formazione di ampi raggruppamenti economici e politici di Stati, a volte anche di dimensioni transcontinentali.”

Mikhail Gorbaciov fondatore del think tank globalista World Political Forum

 

Le dinamiche che sottendono all’esplosione della crisi in Libia, sono molteplici, senza dubbio non mancano le cause interne, dovute alle frizioni tra fazioni interne agli organi politico-amministrativi della Jamahiriya. Ma senza dubbio, il nucleo del golpe fallito trasformatosi in rivolta, è costituito da frange del vecchio regime coloniale, qualche disertore del governo e da varie organizzazioni mercenarie, che si tratti dei mitizzati ‘bloggher democratici’ residenti a Londra o a Washington, oppure degli squadroni di mercenari costituiti da elementi provenienti dalla Fratellanza mussulmana egiziana e dagli afgansy, ovvero i reduci delle guerre in Afghanistan (peraltro già utilizzati dagli inglesi per tentare di assassinare lo stesso Gheddafi, alla metà degli anni ’90). Il tutto coordinato dagli agenti dei servizi segreti e dagli ufficiali dei corpi speciali inglesi, francesi ed egiziani. Tale descrizione della situazione viene oramai accettata e salutata anche dai media governativi e aziendali, ovviamente ad esclusione dei residui avanzati di ciò che era stata una volta un potente movimento di emancipazione, ma che oggi, soprattutto in occidente, sono solo cascami di alienazione, che adattano la realtà a un romanticismo vano e vacuo.

Quello a cui si assiste in Nord Africa e in Medio oriente, non è il capovolgimento rivoluzionario dei rapporti di forza all’interno delle società arabe. Ma il contrario, è l’onda di assestamento dei rapporti di forza esistenti all’interno della leadership statunitense, dell’offensiva di quelle fazioni politico-strategiche che a Washington hanno subito l’attacco networkcentrico rappresentato dalle ‘rivelazioni’ di Wikileaks. Da ciò nasce la messa in guardia di Robert Gates, il segretario alla difesa statunitense, che alla fine del mandato dell’amministrazione Bush jr. venne chiamato a dirigere il Pentagono, per porre rimedio alle malefatte di Rumsfeld e dei neocon. Le frange internazionaliste dell’amministrazione attuale, Brzezinski e Clinton, hanno tutto l’interesse ad assistere e teleguidare le rivolte arabe più o meno spontanee; non avendo più gli USA la forza militare per imporre la loro strategia, ricorrono all’arma della propaganda, studiata, applicata e sperimentata nei più disparati ambienti politico-sociali. Hanno visto dove tale ‘quinta arma’ ha avuto successo, dove ne ha avuto poco, e dove ha fallito. Hanno potuto constatare che queste ‘rivoluzioni’, una volta vittoriose, non hanno una lunga speranza di vita, poiché sono studiate e ideate per applicare ricette economiche liberiste, un obiettivo che le condanna a un’estinzione alquanto rapida. Da ciò, è naturale avere il sospetto che il vero scopo di queste ‘rivoluzioni’, non sia quello di imporre nuovi regimi filo-occidentali o filo-israeliani. La leadership israeliana è rimasta scioccata per gli eventi in Egitto, ed i timori che possano aversi simili sconvolgimenti anche nel loro retrobottega giordani, inquietano il governo Netanyahu. Governo che, essendo di destra, perciò filo-repubblicano, e con una forte presenza di componenti poco gradite alla cricca Brzezinski/Clinton, ovvero il partito russofono di Avigdor Liberman che mantiene costanti contatti con Mosca e Minsk. Da ciò, Netanyahu non raccoglie molta simpatia dall’attuale amministrazione statunitense; una ragione che spiegherebbe l’offensiva colorata del Dipartimento di Stato USA contro amici e alleati d’Israele, anche se vecchi e logori. E spiegherebbe l’entusiasmo di una parte del mondo islamico per gli eventi nel Nord Africa e il Medio Oriente: Iran, Hezbollah e Hamas. Tra l’altro Iran ed Hezbollah, sostengono il golpe revanscista in Libia, per via degli aspri attriti che hanno avuto con Tripoli, a partire dalla vicenda dell’Imam Mussa Sadr, fondatore del partito libanese sciita Amal, e scomparso nel 1978 durante un viaggio tra Tripoli e Roma.

Anche i partiti comunisti regionali, più o meno dal peso insignificante, e con la notevole eccezione del Partito Comunista Siriano, l’unico che abbia una posizione di responsabilità nel mondo arabo, hanno espresso sostegno alla rivolta-golpe di Bengasi. Qui sicuramente, rientra la vicenda della soppressione del tentativo del Partito Comunista del Sudan di prendere il potere, nel 1970, ma che fallì anche perché Gheddafi consegnò l’intero vertice comunista del paese al presidente sudanese Nimeyri, che si riprese il potere e condannò a morte i leader comunisti sudanesi catturati da Gheddafi.

L’amministrazione Obama si trova al centro di questo scontro di vertice, cui assistono Mosca e Beijing, non potendo interpretare chiaramente le dinamiche interne al vertice strategico degli USA. Quindi si trovano in una situazione di attendismo, soprattutto per quanto riguarda il caso libico. Sicuramente l’assenso dato alle sanzioni ONU e all’embargo alla vendita delle armi, deve essere costato qualcosa a Washington; non si saprà immediatamente cosa, ma è sicuro che in tale decisione siano rientrati interessi più spiccioli: con la Libia fuori gioco, l’Europa punterà ancor di più ad acquisire gas e petrolio dalla Russia, con il sovrammercato del lievitare dei prezzi degli idrocarburi. E senza dubbio la posizione dell’Iran è dettata da ragionamenti non dissimili. Per Tehran il caos nel Medio oriente è una polizza di assicurazione, se i paesi produttori di petrolio e gas sono sconvolti da moti e rivolte, se non perfino da guerre civili, la produzione e la disponibilità mondiale del petrolio ne verranno danneggiate, costringendo così eventuali potenze malintenzionate, a sospendere qualsiasi idea di aggressione armata; onde non devastare ulteriormente l’economia internazionale con un brusco calo delle disponibilità di risorse energetiche. La Cina senza dubbio ha dovuto scegliere, appoggiare la Libia, con cui non ha importanti rapporti economici, oppure stringere sempre di più i legami con Riyad e l’Arabia Saudita, con cui ha solidi rapporti economici e strategici, essendo un fatto certo che la monarchia dei Saud sia anch’essa nella partita del golpe anti-Gheddafi, grazie alla potente influenza che esercita sulla Fratellanza mussulmana egiziana.

Chiaramente, oltre al coinvolgimento delle due maggiori fazioni dominanti statunitensi, che se non hanno lanciato questa ondata di ‘rivoluzioni colorate’, le sostengono ampiamente, vi è il pesante coinvolgimento di Londra e forse Parigi. E’ una ‘Ironia della Storia’ amara e tragica. Gli inglesi e i francesi inviando ‘consiglieri’ militari a Bengasi per aiutare il ‘popolo’ a organizzare la lotta contro Tripoli, oppure sostenendo, come sta compiendo Londra, oscuri dissidenti anti-Jamahirya e relitti senussiti, clan da cui traeva origine la monarchia coloniale, oppure ancora, supportando una campagna mediatica incontrollata e demonizzante, tramite i network arabi di facciata, al-Jazeera e al-Arabiya, ma che hanno le loro sedi operative a Londra e a New York. Una campagna mediatica volta, come sempre, a sostenere l’intervento armato e l’invasione della Libia. Una operazione di straordinario successo, pur tenendo conto dello scarso livello di analisi critica in possesso dei due più importanti obiettivi della campagna: la sinistra europea e la militanza islamista araba. Già in Pakistan presso l’opinione pubblica e le elité politiche, parecchi dubbi sorgono sulle vicende libiche. Non foss’altro che Islamabad è oggetto continuo di operazioni occulte e terroristiche alimentate dalle reti dell’intelligence occidentale.

L’ironia aspra e amara è che con l’intervento sempre più aperto dell’imperialismo, intervento scoperto che si rende necessario per l’evidente fallimento della rivolta spontanea, che da venti giorni non fa che marciare e stringere d’assedio Tripoli restando ferma nei sobborghi di Bengasi, Londra, Parigi e Washington potranno regolare i conti con ciò che resta dell’eredità antimperialista e popolare di Gamal Abdel Nasser, di cui Gheddafi è l’ultimo seguace ed esponente. Dalla sconfitta del colonialismo anglo-francese, nel 1956, a Suez, gli imperialismi parigino e londinese non attendevano che il momento di vendicarsi, e di reimporre o tentare nuovamente di imporre il loro dominio nell’area, anche a danno degli USA in difficoltà, e soprattutto a danno delle popolazioni mediorientali, che aldilà dei mutamenti di facciata di Tunisi e Cairo, vedranno sia le notevoli risorse della Libia sequestrate nuovamente dall’Occidente, che le coste libiche ospitare, ancora una volta, le basi della NATO, vitali per ampliare il dominio regionale degli USA e dei suoi alleati.

Anche l’Italia, a 150 anni dalla pretesa ‘Unità’, si vede ricordare, da parte degli ambienti dominanti di Londra, quali limiti geopolitici sono invalicabili. Le conseguenze geostrategiche e geopolitiche saranno micidiali, se le forze popolari della Jamahiryia di Libia dovessero cedere all’aggressione armata combinata tra imperialismo occidentale e islamismo colonizzato. Come già sopra indicato, le potenze occidentali, comunque assai indebolite da questi anni di guerre e crisi da esse stesse indotte e provocate, non hanno la forza di imporre un nuovo ordine regionale, ma semmai di creare il caos regionale e di frammentare la realtà comunque omogenea del Maghreb/Mashreq. L’effetto dirompente di tali mosse semi-suicide, dettate dalla disperazione, proprio come nel caso dei kamikaze giapponesi, arma della disperazione di un Giappone imperiale consapevole di aver perso brutalmente la Guerra del Pacifico, potrebbe colpire l’Europa e danneggiarne gli stati più esposti, come Italia, Spagna, Grecia. Un tentativo estremo di fare terra bruciata attorno Mosca, Berlino e Beijing, prima che si formi quella massa geopolitica regionale e inter-regionale che tanto preoccupa gli apologeti e gli strateghi della ‘Globalizzazione’, del ‘Mondo unipolare’: quella realtà che ha visto dominanti le elites economico-politiche rhodesiano-rockefelleriane dell’asse Wall Street-City.

 

Alessandro Lattanzio, 1/3/2011

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