La geomicrobiologia è lo studio degli aspetti microbiologici del sistema terrestre; si tratta tuttavia di un campo relativamente trascurato in India. In genere i microbiologi si sforzano di capire qualcosa di geologia, ma è raro che i geologi facciano tentativi analoghi per capire l’importanza della geomicrobiologia e del corpus di ricerche sempre più esteso riguardante quest’ambito.
La notizia della scoperta della presenza di oro nelle rocce del Goa settentrionale, in India – a una profondità di 65 metri all’interno di giacimenti di tilloidi – per tante persone è incredibile quanto l’esistenza di batteri viventi sulla superficie di Marte. I giacimenti di oro primario sono plausibili e noti, ma l’oro secondario, che prevede un’azione batterica, è tutt’altra cosa.
Finora, senza troppo clamore, alcuni progetti di esplorazione mineraria si sono concentrati proprio sulla ricerca di giacimenti formati dall’azione microbica. C’è scetticismo e incredulità a riguardo, e il motivo è che simili ritrovamenti sono qualcosa di inatteso e non convenzionale. Il primo articolo sulla “biochimica dell’oro” fu scritto nel 1983 dai microbiologi russi E. D. Korobushkina, G. I. Karavaiko e I. M. Korobushkin.
Nel 1999 fu pubblicata una ricerca di David Mossman, Thomas Reimer e Hans Durstling, che viene citata spesso, intitolata “Processi microbici nella migrazione e sedimentazione dell’oro: l’analogo moderno degli antichi depositi” [Geoscience Canada, vol. 26, n. 3]. Nel 2007, l’australiano Frank Reith scrisse un compendio intitolato “Geomicrobiologia dell’oro”. Si tratta di letture essenziali per chiunque voglia comprendere la formazione dell’oro batteriforme in qualsiasi parte del mondo.
L’oro è un metallo nobile, che si può trovare in natura in forma quasi pura. Il campo della biomineralizzazione aurea è relativamente nuovo, e le ricerche in merito sono state condotte soprattutto negli ultimi 30 anni. Oggi gli scienziati stanno lavorando alla creazione di nanoparticelle di oro puro attraverso l’uso di microrganismi. Esistono diverse specie di batteri tolleranti ai metalli che possono crescere in ambienti con concentrazioni metalliche tossiche. L’era delle nanobiotecnologie dei metalli nobili è già iniziata.
Quasi sette anni fa, il mio buon amico nanobiotecnologo Absar Ahmad del Laboratorio chimico nazionale di Pune, India, avviò una serie di esperimenti per la sintesi di nanoparticelle d’oro.
Usò colture batteriche e fungine e riuscì a ottenere delle bellissime forme ultramicroscopiche, ad esempio dei prismi.
L’interrogativo era se anche i microrganismi presenti in natura – batteri, funghi e alghe – potessero svolgere questo stesso lavoro, ovvero intervenire sull’oro primario per creare forme diverse nei rispettivi habitat naturali. Queste interessanti forme sono note come oro batteriforme.
Riguardo all’oro batteriforme non si è ancora raggiunto un consenso. Le segnalazioni del ritrovamento di queste forme auree nei giacimenti sono sporadiche. Per questo, il fatto che si siano trovate queste forme – fra cui semplici granelli, cilindri, lastre sottili, foglie, micropepite, stelle, stelle marine, reticoli ripiegati dall’architettura cellulare definita – fra i campioni estratti dai giacimenti del Goa rappresenta un’opportunità oltre che una sfida per i ricercatori dell’oro batterico.
I microrganismi ritenuti i creatori di queste intriganti architetture non sono ordinari. Sono chemolitotrofi e possono utilizzare lo zolfo per la crescita e il metabolismo.
I composti dell’oro possono essere solfuri o solfati, ed è il solfuro a essere attaccato da questi batteri solfurofili. Così, quando il solfuro è esaurito, ciò che resta è l’oro. Si tratta in effetti di un processo escretorio-depositorio.
Che cosa succede quando le cellule batteriche morte restano sepolte nell’oro puro? Queste microcolonie batteriche mummificate o imbalsamate, comunemente note come biofilm, produrranno un’intricata architettura cellulare che presenta una fine granulosità e delle cavità. Uno studio approfondito sulla biomineralizzazione dell’oro è stato svolto da Frank Reith dell’Università di Adelaide, Australia.
Reith utilizzò potenti tecniche di analisi per esaminare i biofilm batterici che rivestivano granelli di oro secondario trovati in Australia. Conosceva tutti gli studi e le teorie precedenti sul coinvolgimento dei batteri nei depositi aurei batteriformi, e aveva simulato in laboratorio alcune condizioni in cui era possibile che i batteri accumulassero e precipitassero oro puro.
Grazie a questo successo, Reith concluse di avere la prova che i processi mediati da batteri contribuiscono alla formazione di granelli d’oro secondario. Sosteneva di aver identificato il gruppo dominante degli organismi coinvolti con il genere Ralstonia, una specie che potrebbe godere di un vantaggio metabolico vivendo in aree di elevata tossicità aurea. Questa specie, ipotizzava Reith, usa la precipitazione di complessi aurei tossici come meccanismo biologico di detossificazione. Concluse che le strutture descritte da autori precedenti come oro batteriforme potrebbero effettivamente essere di origine batterica.
Ma che cosa dimostrano le ricerche più recenti? Quanti geologi sono al corrente di queste nuove scoperte? Su Discovery News, il 1° settembre 2010, Larry O’Hanlon diceva a proposito della ricerca australiana pubblicata sulla rivista Geology:
“‘Spesso le pepite d’oro sono create da biofilm batterici’ a detta dei ricercatori australiani che hanno dimostrato il processo e hanno persino identificato i batteri all’opera.
“Gli strati batterici possono effettivamente sciogliere l’oro in nanoparticelle, le quali attraversano le rocce e il suolo e si sedimentano in altri luoghi, a volte creando depositi di oro ‘secondario’ più puro nelle fessure e incrinature delle rocce.”
Che cosa implica davvero tutto questo per la nostra concezione della natura dei giacimenti d’oro, quelli già scoperti e non solo? La ricerca australiana dimostra che il processo contraddice la vecchia tesi sostenuta da alcuni scienziati secondo cui i minerali d’oro si creano solo attraverso processi geologici “primari”. È stato un duro colpo per la concezione tradizionale sull’origine dell’oro primario.
Come hanno fatto gli australiani? Hanno osservato il DNA dei biofilm formatisi su granelli d’oro raccolti dalla miniera Prophet, nel sud-est del Queensland. Durante il processo, Frank Reith e i suoi colleghi hanno scoperto che quasi il 90% di tutti i batteri apparteneva a due sole specie: Delftia acidovorans e Cupriavidus metallidurans. È emerso che questi batteri condividono dei geni che li rendono resistenti agli effetti tossici dei metalli pesanti.
Che cosa implica questa scoperta rispetto al presunto ritrovamento di oro batteriforme a Goa, in India? La profonda litosfera di Goa presenta delle metabiosfere che ospitano batteri attivi in grado di formare oro quasi puro.
Un progetto di prospezione sistematico e responsabile finanziato da fondi pubblici potrebbe dimostrare che l’oro creato dai batteri non è un prodotto della fantasia ma una realtà scientifica ed ecologica.
(Fonte: NavHindTimes.in, 8 gennaio 2011)
C’È DELL’ORO IN QUEI BATTERI MODIFICATI!
Una versione geneticamente modificata di un batterio che estrae oro dal suo ambiente può essere un segnale della presenza del prezioso metallo. Questo concetto potrebbe rivelarsi una manna per i cercatori d’oro.
Si sa che alcuni batteri sono associati ai giacimenti aurei, (1) ma finora non si capiva se avessero un ruolo nella produzione del metallo e, se sì, quale.
Ora Frank Reith dell’Università di Adelaide, Australia, ha scoperto che l’oro disciolto è dannoso per il batterio Cupriavidus metallidurans, in quanto forma un composto tossico contenente zolfo quando viene assorbito dall’ambiente.
Questo composto inibisce la funzionalità enzimatica del batterio, che a questo punto attiva un gruppo di geni per “disintossicarsi” dall’oro, producendo enzimi in grado di convertire i composti aurei solubili in innocue particelle di oro metallico.
Un rilevatore portatile
Conoscendo questa caratteristica dei microbi si potranno rivoluzionare le modalità di ricerca dell’oro, come fa notare il coautore Gregor Grass dell’Università del Nebraska. Reith e Grass hanno sviluppato una versione geneticamente modificata del C. metallidurans che produce una risposta visibile quando si attivano i geni della detossificazione.
“Quando i microbi vengono a contatto con l’oro, emettono un lampo di luce che si può rilevare attraverso un fotometro portatile”, spiega Grass, il quale dunque prevede che i cercatori d’oro potranno rilevare la presenza del metallo semplicemente raccogliendo un campione del suolo e aggiungendovi il batterio modificato.
“Già da qualche tempo si era notato che i batteri possono migliorare la produzione dell’oro”, commenta John Stolz, microbiologo ambientale presso la Bayer School of Natural & Environmental Sciences della Duquesne University a Pittsburgh, Pennsylvania. “Ma questa è la prima volta in cui gli scienziati riescono effettivamente a identificare come fanno.”
(Fonte: NewScientist.com, 5 ottobre 2009, http://tinyurl.com/y9vud8k; articolo della pubblicazione scientifica su http://tinyurl.com/lllhwph; articolo (1) su http://tinyurl.com/lzn239e).
Originariamente pubblicato sul n. 114 di NEXUS New Times (febbraio-marzo 2015), nella rubrica Science News. La ripubblicazione è gradita con riferimento all'autore e alla fonte originale cartacea.