"Morte di un presidente" aveva già creato un certo scalpore qualche settimana fa, quando esordì al Festival di Toronto, e ora che si avvicina il momento della prima nazionale, molte distribuzioni locali rifiutano la programmazione, mentre alcune importanti catene radiotelevisive, come la CNN o la NPR (la radio pubblica nazionale) negano apertamente i loro spazi pubblicitari ai distributori del film.
La motivazione ufficiale è che "rappresentare la morte di un presidente ancora in carica può mandare il messaggio sbagliato al pubblico". I produttori e il regista, l'inglese Gabriel Range, naturalmente sostengono l'esatto contrario: il film rappresenta – secondo loro – un sentito allarme contro la devastazione civile e morale a cui necessariamente porta la logica della violenza.
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Un pò troppo basic, forse, questo moralismo di facciata, visto che il film descrive un ipotetico momento storico, nell'anno 2007, che segue l'assassinio del presidente Bush, appena avvenuto a Chicago durante una sua pubblica apparizione. Cheney diventa presidente a tutti gli effetti, erompono scontri un pò divunque, e l'America si trasforma in una specie di stato di polizia, non molto lontano da certe angosciate previsioni che alcuni fanno già oggi, nel mondo reale, senza nessun supporto degli sceneggiatori di Hollywood.
A sua volta appare molto debole la motivazione della Casa Bianca, che condanna apertamente il film per il semplice il fatto di voler immaginare un omicidio che teoricamente potrebbe ancora succedere. Anzi, visto che Bush sembra uscirne comunque in maniera eroica, permettere al film di circolare liberamente potrebbe essere quasi una tentazione, che potrebbe migliorare l'immagine sbiadita e sempre meno convincente dell'attuale presidente in carica. È molto più probabile che invece la visione di un futuro stato di polizia, tanto cara a certi personaggi vicini al vicepresidente, abbia toccato un nervo scoperto e abbia fatto scattare la reazione negativa che ha imposto la censura mediatica ad un normalissimo film di Hollywood, nel paese più libero, aperto e democratico del mondo.
Se è questa l' "America democratica" che i vari personaggi della stampa e della politica italiana vorrebbero difendere a tutti costi, dando degli anti-americani a chi contesta l'amministrazione Bush, vuole dire che il capovolgimento dei termini è arrivato al punto di massima espansione, e che davvro il vocabolario ormai non conta più nulla.
Peccato che insieme a quel vocabolario se ne stia andando anche una scala di valori assolutamente indispensabile, che sarà sempre più difficile recuperare man mano che passano gli anni, e ci si allontana da quel fastidico giorno di settembre di cinque anni fa.