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NEUROSCIENZA. LE MANI SULLA MENTE di Margherita Fronte

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I muscoli
sulla testa si contraggono forte, senza provocare dolore. Un istante
dopo l’uomo cerca nella memoria recente una traccia delle immagini che
fino a un attimo prima erano chiare davanti ai suoi occhi. Ma non le
ricorda. Non può più descriverle. Un campo magnetico intenso ha
distrutto, per qualche minuto, la sua capacità di formare ricordi. E
lui, per qualche minuto, cerca di afferrare nel buio le immagini
sbiadite. Uno scienziato, seduto di fronte, osserva e prende nota.


L’ultima frontiera delle neuroscienze si chiama stimolazione magnetica
transcranica. Ed è una tecnica potente.


A differenza degli strumenti di imaging usati finora, che permettevano
soltanto di osservare il cervello in funzione, la stimolazione magnetica
può interferire con l’attività nervosa. E se l’ultimo numero del
settimanale "The Economist" dedica la copertina alle tecniche
della vecchia guardia,
proponendo di usarle al posto della macchina della verità, i
neuroscienziati si sono già spinti molto oltre. Modificando l’attività
del tessuto nervoso, la stimolazione magnetica transcranica promette di
curare malattie e di svelare gli ultimi segreti sul funzionamento del
cervello. Ma può anche plasmare le coscienze, i comportamenti e le
capacità intellettive, rendendo incapace di parlare il migliore degli
oratori, o abilissimo a risolvere quiz matematici il più asino degli
scolari. Almeno sulla carta, il suo potenziale è illimitato. E proprio
per questo va maneggiata con molta cura.


La tecnica nasce nel 1985, quando Anthony Barker, fisico medico al Royal
Hospital di Sheffeld nel Regno Unito, stupì i colleghi con un
esperimento singolare. Barker applicò dei campi magnetici sulla testa
di un volontario e riuscì a far in modo che le sue dita tamburellassero
senza che egli avesse la minima intenzione di muoversi. L’esperimento
ebbe una vasta risonanza per le evidenti conseguenze che portava con sé.
E da allora parecchi laboratori in tutto il mondo hanno acquistato i
macchinari necessari per portare avanti queste ricerche. Un resoconto di
questi studi è stato appena pubblicato sulla rivista scientifica
"Nature". Soltanto nel numero precedente la stessa rivista
aveva ospitato uno studio in cui alcuni scienziati erano riusciti a
dirigere a distanza i movimenti di alcuni ratti, stimolando regioni
precise del loro cervello. Un esperimento da circo. Ma la tecnica è un
affare serio.


La stimolazione magnetica transcranica si basa sull’applicazione di
campi magnetici potenti e di brevissima durata a livello dello scalpo.
Il campo magnetico penetra nella testa senza quasi subire modificazioni,
e induce correnti elettriche in zone localizzate del cervello. «In
pratica, i volontari stanno sdraiati oppure seduti, e l’operatore tiene
sulla zona da eccitare una bobina di rame, collegata a un condensatore»,
spiega Massimiliano Oliveri, che dopo essersi specializzato sulla
tecnica negli Stati Uniti è tornato in Italia, e conduce i suoi esperimenti fra
l’Ospedale Santa Lucia di Roma e l’Università di Palermo: «Quando
parte la scarica si avverte un rumore molto intenso. L’impulso dura un
millesimo di secondo, e può essere ripetuto anche 50 volte nello stesso
secondo. In questo modo si interferisce con l’attività normale del
cervello… e poi si vede che cosa succede».


In origine la stimolazione magnetica era nata con scopi di ricerca. «I
primi neurologi la usavano per studiare i meccanismi cerebrali che
governano il movimento», spiega Oliveri. Fra gli anni Ottanta e gli
anni Novanta le tecniche di imaging, che permettono di visualizzare in
diretta l’attivazione
delle aree del cervello in relazione alla percezione di stimoli e allo
svolgimento di compiti, hanno permesso di chiarire molti aspetti del
funzionamento del sistema nervoso. Ma la stimolazione magnetica
transuranica permette di compiere un passo in più. L’attività delle
cellule nervose,
infatti, può essere temporaneamente modificata, aumentata oppure
annullata. Così, gli scienziati non sono più semplici osservatori di
ciò che accade: possono fare esperimenti.


Lo scorso anno, stimolando con treni di impulsi magnetici ripetuti la
corteccia prefrontale (una zona del cervello implicata nei processi
verbali), il neuroscienziato Alfonso Caramazza e i suoi colleghi della
Harvard University hanno osservato che i soggetti in esame non
riuscivano più a coniugare i tempi e i modi dei verbi, mentre erano
perfettamente in grado di volgere i nomi al singolare e al plurale.
Questo significa che il cervello usa regioni diverse per coniugare i
verbi e per declinare i nomi.


Esperimenti analoghi hanno mostrato che è possibile rendere un soggetto
incapace di identificare le espressioni di ira dei suoi simili, o di
riconoscere volti familiari; di percepire il movimento degli oggetti, o
di articolare le parole. La stessa tecnica può poi essere usata per
migliorare le performance individuali. Jordan Grafman, dell’Istituto
nazionale delle malattie neurologiche di Bethesda (Usa) è riuscito a
incrementare per un breve periodo la capacità di alcuni volontari nel
risolvere problemi di geometria, semplicemente stimolando la zona della
corteccia che, secondo
studi precedenti, risulta attiva quando il cervello è alle prese con
puzzle e giochi di figure geometriche. E, a conferma dell’interesse non
solo scientifico per le possibilità praticamente illimitate della
tecnica, Mark George, psichiatra della Medical University della Carolina
del Sud, ha
ricevuto fondi dal Dipartimento della difesa statunitense per verificare
se la stimolazione magnetica può essere usata per migliorare le capacità
mnemoniche.

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