La riforma sanitaria di Obama è dunque passata, anche se non proprio liscia, alla Camera. Il commento più puntuale è forse quello dello stesso presidente: “Non è una riforma radicale, ma è comunque una riforma importante” e, più in generale, “ecco che cosa intendiamo per change”. Il punto allora è: importante per cosa e per chi, e in quale prospettiva? Qui andrebbero evitati due riflessi condizionati. Primo: il farsi abbagliare dai fumogeni della spettacolarizzazione – nel campo Obama ci sa fare – per cui si sprecano titoloni con l’aggettivo “storico” a proposito di qualcosa che visto nel merito manifesta una evidentissima divaricazione, anche linguistica, tra contenuti e loro presentazione mediatica. Secondo: intonare la litania per cui se la destra è contro una politica – ed è chiaro che è così – questa non può che essere buona. (Chi ritiene superflui questi criteri può fermarsi alla lettura dei "commenti del Manifesto" sulla “straordinaria vittoria”). I contenuti del piano sono stati ampiamente riportati dalla stampa e qui non entreremo nei particolari. Vediamo piuttosto cosa hanno da dire al riguardo due testimoni non “estremisti” ma neppure imparziali rispetto alla necessità di trasformare in senso pubblico il sistema sanitario degli States. Michael Moore parla di due passi avanti e un gigantesco passo indietro: la legge vieta alle assicurazioni private di negare le cure a persone che si ammalano gravemente e ai bambini affetti da patologie preesistenti, che è quanto accade oggi nel paese guida del mondo libero, e permette polizze familiari che tutelano anche i figli fino ai 26 anni. Ma al tempo stesso lascia la salute completamente nelle mani delle compagnie private, anzi allarga di 32 milioni la platea dei clienti, di chi cioè avrà non le cure ma l’accesso alle cure alla condizione che esse procurino profitti a queste compagnie (v. il video). Non si poteva dire meglio: la salute come la polizza auto. Ha quindi ragione Robert Reich, ex ministro del lavoro nella prima amministrazione Clinton che pure si è schierato a favore della legge, quando scrive che qui non c’è nessuna oscillazione del pendolo verso il New Deal ma al contrario l’applicazione di una vecchia idea dei repubblicani (risale a Nixon) che permetterà alle assicurazioni sanitarie di continuare a crescere e a guadagnare ancora di più nonché di ricaricare prezzi ancora più alti. Non a caso la cosiddetta public option – non un sistema sanitario universale ma pur sempre un intervento pubblico che avrebbe rotto l’oligopolio delle assicurazioni private – era tramontata fin dall’inizio del percorso legislativo tra gli stessi democratici. “Ma dovevamo aspettare un'amministrazione Democratica, il Presidente "storico", il Presidente del cambiamento e della speranza, per fare una riforma della sanità che non solo continua a parlare di mercato anziché di diritti, ma addirittura alimenta il sistema in maniera perversa perché introduce miliardi di dollari nelle tasche delle assicurazioni”, commenta il sito di Peacereporter. Questo il punto politico della questione: tutto andava fatto per evitare l’idea che la salute, se non proprio un bene comune, va almeno affermata come un diritto e non (o non solo) una merce. Con questa riforma siamo di fronte alla conferma e all’ampliamento della mercificazione privatistica di una sfera della riproduzione sociale. Attenzione: letto sotto questa visuale non è affatto un incidente di percorso lo scambio politico tra Obama e i deputati democratici anti-abortisti sul divieto di usare i fondi federali per rimborsare le spese delle interruzioni di gravidanza, cifra del nesso strettissimo tra mercificazione e controllo dei corpi e della riproduzione. Bisogna allora sputar sopra sui miglioramenti anche minimi che la legge, nelle condizioni date, apporta? E’ di nuovo Reich a dare uno spunto in risposta all’argomento dei “realisti”: bastava ampliare il programma a domanda pubblica (comunque basato sull’offerta privata di servizi) Medicare di assistenza agli anziani invece di imporre, tralatro a partire dal 2014, l’obbligo ad assicurarsi a sedici milioni di utenti e di ampliare il ben più modesto Medicaid (assistenza agli indigenti) per gli altri sedici (al 2019 rimarrebbero comunque del tutto scoperti 23 milioni di individui). Con ciò Obama avrebbe almeno resa più comprensibile la battaglia sulla sanità, con chiari ed omogenei benefici per una platea troppo povera per accedere all’offerta privata ma non abbastanza per accedere a quella pubblica, e avrebbe acquisito più forza anche per l’altro obiettivo della riforma: quello di contenere l’incredibile inflazione, pro compagnie, dei prezzi dei servizi sanitari e dei medicinali che la legge appena varata – anche a dire dell’Economist – non riesce ad affrontare (resta talaltro per le assicurazioni sanitarie l’esenzione dalla norme antitrust). Ma Obama aveva promesso alle lobby sanitarie di non mettere in campo la questione… Insomma, se non vogliamo giocare con le parole, non di una ancorché minima riforma welfaristica si tratta ma, questo sì, di un tentativo di regolazione del mercato della salute le cui sorti – anche procedurali oltreché di implementazione – sono tutte da vedere. Tutto fumo allora? No, il sommovimento e lo scontro politico d’oltreoceano, con una crisi che continua a mordere su tutti i piani, sono stati e continuano ad essere effettivi, ma vanno in tutt’altra direzione da quanto fanno presagire i peana per la “storica vittoria”. Innanzitutto, nel rapporto tra Obama e la sua base elettorale e sociale. La messa in pratica del change non l’ha vivificata e mobilitata. Pesano l’eterogeneità sociale e di interessi, la delusione liberal da sinistra soprattutto tra i più giovani, Wall Street che ha rialzato la testa, la crescita della disoccupazione (quella reale si avvicina al 18%) e dei fallimenti familiari… In questo quadro la battaglia sulla sanità non è stata impostata, e fin dall’inizio, come una battaglia di tutti capace di migliorare, contro lo strapotere delle assicurazioni, la situazione reale anche di chi la polizza per ora ce l’ha. Né, va detto, è stata sentita dalla base come un’occasione per attivizzarsi in questo senso, come uno scontro vero contro i potentati economici. La crisi deve ancora mordere in profondità perché le vecchie soluzioni appaiano non più praticabili.
A mobilitarsi è stata invece la destra sociale – che ha smosso un partito repubblicano mezzo moribondo – sul terreno ideologico e delle tasse cui si è aggiunto il tema del deficit statale. Vedremo se il Tea Party Movement si consoliderà, ma certo è un proprio un bel risultato per Obama e i fautori del change essere riusciti a polarizzare solo questa parte di società e a solo un anno o poco più dai disastri di Bush jr! E attenzione: questa parte potrà agitare contro presidente e democratici, già dalle prossime elezioni di medio termine a novembre, la paura di un aumento delle tasse e di un taglio alle prestazioni di Medicare per una middle class colpita dalla crisi economica. Tanto più che, in assenza di una opzione pubblica, le compagnie private aumenteranno i premi sanitari assicurativi scaricandone la colpa sulla riforma. Ciò potrebbe combinarsi con la reazione degli stati guidati dai conservatori che hanno già annunciato ricorsi alla Corte Suprema sull’incostituzionalità dell’obbligo all’assicurazione previsto dalla legge di riforma. La battaglia non è affatto finita ed è pronta a dislocarsi sul terreno del debito pubblico. Infine, c’è la battaglia interna al partito democratico. La “vittoria”di Obama suona assai amara per molti deputati moderati che a novembre rischiano il seggio. L’ultimatum del presidente è passato solo perché Obama ha messo la sua presidenza in gioco, come ha rimarcato il New York Times del ventun marzo, e al tempo stesso una sua sconfitta avrebbe significato lo smottamento del partito. Il voto finale non ribalta perciò l’indebolimento complessivo della presidenza – rispetto a lobbies, centristi, Wall Street – ma evita per ora la débacle dei democratici. Che è poi il significato dell’attivismo di Nancy Pelosi. Il Congresso, pur a maggioranza democratica, si sta rivelando una palude con sabbie mobili: se col centrismo non si vincono le elezioni, esso è però in grado di bloccare dall’interno delle istituzioni federali ogni change. Ma senza di questo Obama non sarà in grado di rilanciare anche dal basso la leadership americana – che era poi l’obiettivo strategico che stava dietro il suo progetto di riforma sanitaria. Ora tutti i nodi dello scontro si dislocano intorno alla questione della regolazione finanziaria e della lotta alla disoccupazione. Nei confronti di Wall Street per Obama sarà però difficile ottenere una seconda vittoria… storica. Anche se un minimo di regolazione è indispensabile per il primato globale del capitalismo statunitense – come ha cercato di spiegare il ministro del tesoro Geithner davanti alla platea non proprio consonante del neocons American Enterprise Institute – i rapporti di forza interni e internazionali non vanno in questa direzione. Sul piano della lotta alla disoccupazione, la crescita economica se pure ci sarà è prevista essere jobless, senza crescita occupazionale significativa, e difficilmente risulteranno sufficienti le misure di cui si sta discutendo a Washington. Ne potrebbe venire fuori un incartamento definitivo della presidenza Obama – sulla falsariga dei disastri a noi ben noti dell’Ulivo: scontentare tutti e rivitalizzare la sola destra – e/o una diversione che tenti di scaricare all’esterno le difficoltà sempre meno padroneggiabili, come si inizia a vedere dalle frizioni con la Cina (moneta, misure protezioniste, ecc.) e dagli attacchi speculativi all’Europa e all’euro. In ogni caso – a meno di una immediata ripresa di lotte, e un segnale l’ha forse lanciato la mobilitazione dei migrants a Washington negli stessi giorni in cui si concludeva l’iter della riformicchia – l’Obamamania si avvia verso una rapida fine.