Mentre scriviamo l’ex-presidente George W. Bush sta viaggiando in elicottero verso la Base di Andrews, dove un aereo presidenziale – ma non Air Force One – lo riporterà a casa sua, nel Texas.
L’era del cosiddetto governo neocons ha così ufficialmente fine, e Obama non ha certo trascurato di rimarcare questo concetto nel suo discorso inaugurale.
Lo ha fatto quando ha detto che "dovremo combattere una rete internazionale di odio e di violenza", e non “una rete di terrorismo internazionale”, indicando chiaramente che il nemico non sta nelle persone fisiche, ma nell'odio che alcune persone fisiche – da un fronte come dall’altro – hanno saputo instillare nella popolazione mondiale.
Lo ho fatto quando ha detto che "non saremo più disposti a barattare la nostra sicurezza con la rinuncia ai diritti civili", indicando chiaramente la fine della strategia della paura che ha permesso ai neocons di imporre agli americani la propria agenda politica.
Lo ha fatto quando ha detto che “non possiamo più anteporre la legge del profitto alla responsabilità di inquinare il mondo”, capovolgendo così uno dei principi fondamentali che hanno caratterizzato la politica del governo uscente.
Lo ha fatto quando ha detto che "da oggi i pubblici ufficiali dovranno rispondere delle proprie azioni nella gestione della cosa pubblica”, indicando chiaramente la fine del ladrocinio sistematico che ha caratterizzato la presidenza Bush-Cheney.
Lo ha fatto quando ha detto che “investiremo pesantemente nelle nuove tecnologie energetiche”, annunciando l'inizio della fine dell'era del petrolio.
Lo ha fatto quando ha detto che “il rispetto nel mondo si ottiene non con l'esibizione della forza militare, ma dimostrando di sapersi trattenere dall’usarla, a favore di una attenta strategia diplomatica”, indicando la fine del militarismo come chiave primaria della politica estera.
Lo ha fatto quando ha detto che “i popoli del terzo mondo non saranno più abbandonati al loro destino, ma aiutati in ogni modo possibile a raggiungere un livello di vita accettabile”.
Lo ha fatto quando detto che “tutte le nazioni sono amiche degli Stati Uniti, e che il mondo non è più diviso in “buoni” e “cattivi””, chiudendo di fatto l’era dell’unilateralismo che ha causato una mole di problemi a livello internazionale.
È stato un discorso breve e conciso, nella quale Obama ha scelto il linguaggio chiaro e diretto, invece di ricorrere alla sottile arte del "politichese". In altre parole, ha mostrato di voler parlare direttamente alla gente del mondo, lasciando che sia questa a dire ai propri governanti cosa si aspettano da loro, invece di mandare un messaggio ai governanti, dicendo loro cosa debbano aspettarsi le loro genti.
È il classico spirito “bottom up”, dal basso verso l’alto, che ha caratterizzato tutta la carriera di Obama, contrapposto allo spirito “top-down”, dall’altro verso il basso, di chiaro stampo conservatore.
Nella più cinica delle letture, sono solo due modi diversi per mandare la gente alla catena di montaggio: il primo convincendola della necessità di farlo, la seconda obbligandola e basta.
Nella più nobile delle letture, questo dimostra di aver compreso che la vera crescita sociale debba per forza passare da un processo di responsabilizzazione del cittadino. A lavorare dobbiamo andarci tutti comunque: la vera differenza sta nella distribuzione della ricchezza prodotta, e non nel modo in cui venga prodotta.
Con lo stesso parametro, potremmo giudicare il discorso di Obama come un puro atto di facciata, complementare alla pacchiana teatralità dell’inaguration, o come genuina dichiarazione di intenti, che approfitti della medesima.
Solo il futuro ci darà la risposta completa. Di certo sappiamo che difficilmente le cose potrebbero andare peggio di oggi, per cui al massimo dovremo considerare la presidenza di Obama come un evento casuale rispetto ad una rinascita mondiale che è comunque diventata indispensabile.
Tanto, l’ha detto lui per primo: il vero lavoro deve farlo ciascuno di noi.