Il 40% circa della popolazione mondiale basa la propria sussistenza sulle attività agricole, sulla caccia o sulla pesca (dati FAO). Quasi la metà degli abitanti del pianeta ha dunque un rapporto con la terra e le sue risorse molto diverso dal nostro. Per loro, “apple” significa ancora “mela”. Tuttavia, la globalizzazione economica ha assegnato a tutti le stesse regole. Negli ultimi trent’anni, l’innovazione in campo agricolo ha progressivamente adottato le norme sulla proprietà intellettuale vigenti in ambito tecnologico. Oggi, una nuova qualità di frutta o di verdura vale quanto un nuovo smartphone ed entrambi vengono premiati con un brevetto. La possibilità di brevettare nuove specie di piante o proprietà benefiche di colture già note è uno degli aspetti più controversi dell’internazionalizzazione dei mercati. Introdurre limiti all’utilizzo di tecnologie e risorse agricole significa infatti modificare alcuni meccanismi fondamentali della civiltà contadina. Qualcosa però ora potrebbe cambiare.
Il dibattito sull’impatto dei brevetti sull’agricoltura si è posto a partire dagli anni Ottanta, quando molte società chimico-farmaceutiche hanno iniziato a interessarsi al patrimonio di biodiversità conservato in Asia, Africa e America latina. L’esempio più noto è quello del neem indiano, una pianta nota agli scienziati come azadirachta indica. Il neem possiede moltissime applicazioni: è utilizzato contro lebbra, diabete e ulcera, come contraccettivo o antisettico. Ma è soprattutto un insetticida naturale efficace contro circa duecento specie di insetti. Nel 1985 lo statunitense Robert Larson, un mercante di legname, brevettò proprio il principio attivo estratto dal seme del neem da impiegare come pesticida. Negli anni successivi anche dalle altre proprietà dell’albero sono nati prodotti brevettati, fino a scatenare le proteste delle associazioni contadine indiane. Le multinazionali occidentali, secondo loro, praticavano una sorta di “biopirateria”: si stavano infatti arricchendo abusivamente spacciandosi per inventori di tecniche note da sempre.
Le organizzazioni che difendevano i diritti dei contadini indiani, il cui esponente più noto è certamente la scienziata Vandana Shiva, spalleggiate dagli istituti di ricerca locali, ottennero che diversi brevetti sul neem fossero revocati grazie a una mobilitazione che coinvolse centinaia di migliaia di agricoltori sostenuti da un’opinione pubblica mondiale sempre più consapevole delle possibili ricadute negative dei brevetti.
Casi analoghi a quello del neem si sono moltiplicati negli anni in diversi paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Le aziende brevettatrici hanno sempre sostenuto che gli usi e le tecniche tradizionali legate alle proprietà benefiche delle piante non siano documentati da testi scientifici, e dunque non rappresentano precedenti tali da impedirne la brevettabilità. Le aziende, in effetti, mettono il dito su una piaga aperta nel processo brevettuale: la capacità degli uffici brevetti di rappresentare un filtro efficace contro la concessione di brevetti su invenzioni che non lo meriterebbero. Pressati da un carico di lavoro enorme, gli esaminatori hanno poche ore a disposizione per stabilire se un’invenzione sia effettivamente originale. Perciò, il vero esame sulla legittimità di un brevetto si svolge nei tribunali, quando un concorrente si ritiene danneggiato da un brevetto abusivo.
Nel caso della biopirateria, la questione è ulteriormente complicata dalla difficoltà di consultare fonti esaustive sullo stato dell’arte per valutare l’effettiva originalità di un’invenzione. Per colmare questa falla nel processo di valutazione brevettuale, i contadini e i ricercatori indiani hanno intrapreso un’opera di minuziosa catalogazione via Internet delle pratiche tradizionali. Il risultato è la Libreria digitale delle conoscenze tradizionali (Traditional Knowledge Digital Library, www.tkdl.res.in). Questo archivio, in continua crescita, ha già impedito la concessione di centinaia di brevetti. Ma, riferendosi soprattutto alle risorse culturali indiane, non difende dalla privatizzazione altre colture e ricette tradizionali appartenenti ad altri paesi.
L’impatto dei brevetti sull’agricoltura non riguarda solo i piccoli coltivatori dei paesi poveri. Anche i contadini indipendenti dei paesi più sviluppati subiscono gli effetti della proprietà intellettuale, da quando alcune delle colture più diffuse al mondo (il 93% della soja, l’88% del cotone, l’86% del granturco) sono Ogm brevettati. Tre sole aziende (Monsanto, Dupont e Syngenta) controllano infatti oltre la metà del mercato mondiale delle sementi, grazie alla vendita di tali varietà. In alcuni casi, il Dna delle piante è stato modificato per renderle resistenti agli erbicidi, che così possono essere utilizzati in dosi massicce senza danneggiare le stesse colture. Così, però, si stanno sviluppando rapidamente specie resistenti alle sostanze impiegate, che necessitano di dosi di erbicida ancor più pesanti con danni sull’ambiente e sulla salute di chi lavora i campi o si nutre dei suoi prodotti. In altri casi, le piante sono state messe in grado di produrre una tossina che uccide gli insetti che se ne nutrono, con alterazioni all’ecosistema che stanno provocando la scomparsa di alcune specie di insetti. Ottenere evidenze scientifiche sull’impatto degli Ogm è però molto complicato, in quanto le restrizioni brevettuali impediscono anche agli istituti di ricerca indipendenti di effettuare analisi in totale libertà.
I semi high tech non possono essere conservati e riutilizzati per la semina nella stagione successiva, ma devono essere ogni anno ricomprati dalle aziende che, in regime di monopolio, hanno il diritto esclusivo di commercializzarli. Inutile dire che, come ogni monopolista, le multinazionali stanno imponendo aumenti esorbitanti dei prezzi delle sementi: tra il 1995 e il 2011, il prezzo della soia è triplicato e quello del cotone
è addirittura quintuplicato, secondo il rapporto Seed giant vs U.S. Farmer («I giganti dei semi contro i contadini americani») pubblicato nel febbraio del 2013 dalle associazioni statunitensi Center for Food Safety (CFS) e Save Our Seeds (SOS). Le sementi Ogm limitano l’autonomia economica degli agricoltori, che in gran parte del mondo ricorrono tuttora ai prodotti della terra per la propria sussistenza. Ma anche nei paesi sviluppati, dove in ogni caso i contadini si rivolgono ad aziende esterne per acquistare e conservare i semi, questa fortissima concentrazione ha strozzato il settore. I geni dei semi, infatti, per loro natura viaggiano in lungo e in largo grazie ai venti e ai pollini. Il pericolo di utilizzare, vendere o solo trasportare a propria insaputa pezzetti di Dna appartenenti ai colossi dell’agrochimica è troppo alto: conviene comprare semi brevettati o cambiare mestiere. Dalle vertenze legali contro i contadini americani la sola Monsanto ha già ricavato oltre 23 milioni di dollari, secondo lo stesso rapporto CFS/SOS. In diversi paesi, Italia in testa, l’agricoltura è l’unico settore economico in espansione, che a differenza di industria e servizi vede crescere i posti di lavoro anche tra i coltivatori indipendenti (+2,9% nel 2012): la legislazione sulla proprietà intellettuale può incidere sullo sviluppo di un’intera filiera economica che meriterebbe qualche attenzione in più.
Per zappare la terra, dunque, una laurea in diritto può far comodo per orientarsi nelle normative. Le leggi di riferimento sono più d’una: sin dal 1961, le nuove varietà vegetali sono state rese brevettabili dall’Unione internazionale per la protezione delle nuove varietà, con clausole speciali che, per esempio, permettevano ai contadini di ripiantare i semi prodotti da tali varietà. Nel 1980, però, in una storica sentenza la Corte Suprema americana ha affermato che anche gli Ogm rappresentano “invenzioni” e possono quindi essere soggette alla più generale legge americana sui brevetti. Questo ha tolto il diritto di utilizzare il raccolto per la semina successiva ai contadini che hanno coltivato tali sementi. Da allora, le aziende dell’agrobiotecnologia hanno richiesto circa 1.800 brevetti nei soli Usa sul materiale genetico di semi e piante.
Nonostante leggi e sentenze, però, la guerra delle major contro i contadini indipendenti non è ancora finita. L’idea che i semi non possano essere ripiantati infatti è ancora oggetto di dibattito, perché contrasta con un’altra dottrina, il “principio di esaurimento”. Esso afferma che, dopo la vendita di un prodotto brevettato i diritti del detentore del brevetto sono estinti, e l’acquirente può utilizzare il prodotto come vuole. Questo impedirebbe a Monsanto & Co. di limitare l’uso dei semi brevettati da parte dei contadini. Come spesso avviene, dirimere la controversia è toccato alla Corte Suprema statunitense in una classica tenzone tra Davide e Golia. Il principio di esaurimento è stato invocato dal contadino Vernon Bowman che, avendo ripiantato semi brevettati, è stato denunciato dalla Monsanto con una richiesta di indennizzo pari a 80mila dollari. La Corte ha dato ragione alla multinazionale, ma il fatto stesso che essa abbia deciso di riesaminare il caso, accettando l’appello di Bowman, segna qualche crepa nel fronte pro-brevetto (la Corte ha comunque dato ragione a Monsanto anche in appello con la sentenza del 13 maggio 2013, N.d.R.). Non a caso, un’azienda che in teoria si occupa di tutt’altro, come Apple, ha offerto assistenza legale alla Monsanto. Perché i primi a sapere che tra le mele e i telefoni il passo è breve, sono proprio loro.
Articolo di Andrea Capocci
[Fonte immagine: ambientebio.it]
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di Aprile 2013 di Sapere.