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Nessun tempo, a memoria d’uomo, più di quello attuale ha visto dare un’importanza, purtroppo spesso anche eccessiva, al denaro, tanto da renderlo un qualcosa di onnipresente quanto volatile, mercuriale e sfuggente. 

Infatti se per secoli – e forse presto ci torneremo, la moneta è stata strettamente legata e addirittura composta dall’oro e dall’argento, la seconda metà del secolo scorso ha visto invece la nascita della cosiddetta “moneta fiat”, slegata dal metallo prezioso e che tanti mali ha consentito nel mondo. Dunque il denaro è diventato non più la coagulazione – in senso strettamente alchemico – d’un simbolo, la sua rappresentazione reale calata in metallo solare o lunare, ma al contrario la sua soluzione nell’imponderabile, sino a farne il perfetto strumento di schiavitù umana, con l’imposizione del denaro elettronico e la soppressione del contante. 

Ma nell’arte? Qual è e quale è stato il tipo di raffigurazione simbolica della moneta nelle opere d’arte? Per ragioni meramente spaziali ci limiteremo ovviamente all’arte europea che va dal tardo Medio Evo attraverso il Rinascimento sino al principio dell’età barocca per poi giungere ai nostri giorni, cercando di vedere come il denaro fisico sia stato presentato attraverso la pittura lungo i secoli, a cominciare dal dipinto noto come Il cambiavalute – in originale Le Prêteur et sa femme – un olio su tavola del 1514, oggi esposto al Louvre di Parigi, opera del fiammingo Quentin Metsys. Nell’opera sono ritratti infatti il cambiavalute con sua moglie e dinanzi a loro, sparse sul banco, stanno numerose monete con, accanto, gli strumenti per contarle, pesarle e autenticarne il valore. La donna, colta nell’atto di osservare con attenzione l’operato del consorte, sfoglia distrattamente un libro miniato, forse un “Libro d’ore”, quindi di preghiere, tipico del tempo e della cultura fiamminga e francese, che per ricchezza soltanto pochi, oltre ai nobili, possono permettersi, interrompendone la lettura per interessarsi invece del conteggio delle monete. 

Tra i due coniugi, sul tavolo oltre al cumulo di monete d’oro, capeggiano alcuni anelli e un certo numero di perle, poste queste ultime vicino a un prezioso vaso di cristallo scolpito, montato in oro e in argento. In primo piano, al centro della scena, è collocato il classico specchio convesso che riflette l’artista che sta dipingendo mentre, ancora alle sue spalle si può intravvedere l’ampia e luminosa finestra e infine l’esterno cittadino. Sulla parete di fondo,  proprio dietro ai due soci in affari ancorché uniti dal sacro vincolo matrimoniale, su due mensole sono esposti alcuni oggetti non solo professionali qual è la bilancia, ma di uso religioso, a cominciare da una specie di rosario di sfere di vetro e da cose più comuni come un’arancia, un porta candela d’argento e una piccola bottiglia di vetro, mentre sulla destra, da una stretta finestrella si vede ancora l’ambiente esterno dove due uomini parlano tra loro. Ma sono le mani e le dita dell’uomo, del “cambiavalute”, nello svolgere il loro compito a simboleggiare l’affinità con gli artigli di un rapace, di un uccello da preda, nelle loro dinoccolate articolazioni. 

Così come ogni moneta è raffigurata nel minimo dettaglio del proprio conio, in uno spazio angusto e chiuso che non lascia scampo e permette l’esistenza soltanto al cambiavalute, a sua moglie ed al cliente, in questo caso sostituito dal pittore. Il denaro, la moneta, l’oro, occupa tutto lo spazio possibile e così fanno anche, naturalmente, gli strumenti necessari alla loro valutazione. Soltanto lo specchio fa capire a chi guarda che esiste un mondo reale ed esterno a quella vita fatta di continuo calcolo, guadagno e avidità e – forse – non distante dall’usura, uno dei peccati più esecrabili nel mondo occidentale del Medio Evo. 

I colori dell’opera sono tutti in tonalità calde di rossi e di terre, rosso che si può interpretare come simbolo del sangue, così legato all’oro delle monete mentre i colori bruni della terra, stanno ad indicare il legame con la materia più bassa e concreta. Il titolo originale francese Prêteur et sa femme, in realtà ci dice che più che un cambiavalute, l’uomo raffigurato dietro al banco è uno che presta denaro, il che lo pone vicino all’esercizio nefando dell’usuraio. Siamo quindi di fronte alla rappresentazione, non soltanto simbolica, di uno strozzino privato. 

Dunque la critica sociale, etica e anche simbolica, illustrata dal dipinto, deriva dal divieto da parte della Chiesa romana di prestare denaro ad interesse tra cristiani, basato sul passo evangelico: «Mutuum date, nihil inde sperantem», ovvero «Prestate liberamente senza sperare nulla» in Luca, 6, 35, ma anche dal veterotestamentario «Se il tuo fratello si trova in difficoltà ed è inadempiente verso di te, tu lo sostenterai come ospite e residente e vivrà presso di te. Non prenderai da lui denaro per interesse o profitto. Temerai il tuo Dio e tuo fratello vivrà presso di te. Non gli darai il tuo denaro per ricavarne interesse, né per ricavarne profitto gli darai il tuo cibo» che invece si trova in Levitico, 25, 35-37, ed ancora in  Deuteronomio, 23, 20-21 «Non esigerai interesse da tuo fratello: interesse per denaro, interesse per viveri, interesse per qualsiasi cosa per cui si può esigere un interesse. Dallo straniero potrai esigere un interesse, ma da tuo fratello non lo esigerai» ed infine dal diritto canonico nel quale il Decreto di Graziano, stabilisce che «Quicquid ultra sortem exigitur usura est» ovvero che «Tutto ciò che viene riscosso al di là del capitale è usura». 

Al tempo gli usurai vengono equiparati a Giuda l’Iscariota, come si evince anche dall’immagine miniata nell’Hortus Deliciarum, del secolo XII, nella quale si vede Giuda che prende per sé il compenso del proprio tradimento del Cristo così commentato: «Giuda è il peggiore dei mercanti, egli incarna gli usurai che Cristo ha cacciato dal Tempio perché ripongono le loro speranze nella ricchezza e desiderano che il denaro trionfi, regni e domini, ma questo è la canzonatura delle lodi che celebrano il regno di Cristo in terra». Ed è, di fatto e nella sua più profonda sostanza, lo stesso significato che ritroviamo nell’Inferno della Commedia di Dante Alighieri, nel XVII Canto, nel quale i dannati per usura, recano appese al loro collo le borse colme del denaro estorto in vita. 

La seconda opera che andiamo ad osservare è coeva della precedente ed appartiene anche allo stesso ambiente nordico nel quale, mentre da noi fiorisce il Rinascimento, prosegue quello che Johan Huizinga ha saggiamente chiamato L’Autunno del Medio Evo in uno dei sui libri più importanti su quel mondo che è “già e non ancora”. Il dipinto in questione è di Marinus van Reymerswale (1490-1546), che nella propria bottega ad  Anversa si distingue tra i suoi colleghi per l’attenzione che egli pone nel ritrarre in maniera sarcastica e caricaturale, personaggi appartenenti alle media e alla piccola borghesia del suo tempo, come appunto erano i cambiavalute ed i banchieri, ma anche gli usurai e gli esattori delle imposte, senza lesinare la sua aperta e sprezzante critica verso costoro. 

Nella loro fisionomia, nei loro volti aguzzi da furetto, si manifesta tutta la mancanza di virtù e di etica di questi professionisti dediti al culto di Mammona, avidi, avari nei loro sguardi in tralice, furtivi e biechi, con le loro lunghe dita simili a rostri. 

Sono loro infatti, considerati i veri finanziatori delle guerre che devastano l’Europa del Cinquecento versando il sangue umano dietro la giustificazione della religione cristiana, pertanto s’ipotizza che possano essere stati gli stessi mercanti di Anversa, i committenti del dipinto di Marinus noto come Gli Esattori, creato nel 1540 ed oggi esposto alla National Gallery di Londra. Sul medesimo tema, all’epoca molto in voga, si trovano analoghe versioni anche al Louvre di Parigi, all’Hermitage di San Pietroburgo, e al Kunsthistorisches Museum di Vienna. 

Curiosamente nella variante custodita al Museo Stibbert, a Firenze, denominata Gli usurai, nella pagina aperta del libro mastro invece dei numeri, si può leggere un aspro monito proprio contro l’avidità e l’avarizia: «L’avaricieux n’est jamais rempli d’argent. N’ayez point s de richesses justes, car elles ne vous proufyterontì au jour de la visitation et de vangeance. Souyes doncq sans avarice» che tradotto in italiano suonerebbe all’incirca così: «L’avaro non è mai sazio di denaro. Non ambite a ricchezze ingiuste, perché esse non vi daranno alcun vantaggio nel giorno della Visita e del Giudizio. Siate dunque senza avarizia». Il “giorno della Visita” è quello del “Ritorno di Cristo su questa Terra”, ovviamente. 

Anche in quest’opera nessun oggetto è stato posto in maniera casuale, ma ognuno di essi ha un ben preciso significato simbolico, come le forbici appese, forse con funzione apotropaica e la candela rigorosamente spenta a simboleggiare la mancanza di luce “spirituale”, che stanno alle spalle dei due malevoli personaggi. 

Questi loschi figuri, non diversamente da chi oggi produce denaro dal nulla, creano lucro per loro stessi traendolo dal guadagno altrui, arricchendosi sulla pelle degli artigiani e dei mercanti che, diversamente da loro, creano invece beni e poi li fanno circolare, reinvestendo i loro profitti nella stessa vita sociale cittadina. 

Non abbiamo dunque più l’immagine condannata all’Inferno, presente nel Trittico delle Delizie di Hieronymus Bosch, dove, proprio sotto l’alto trono del Demone principe, sta un avaro dal cui deretano fuoriescono, defecate, monete d’oro, simbolo dell’avarizia e dunque peccato capitale che comporta la dannazione eterna, ma la nascita di una forma ancora acerba sebbene non per questo meno straniante, di un capitalismo che si svilupperà in un prossimo futuro. Che dunque il denaro sia “sterco del diavolo” come riportato da San Basilio Magno di Cesarea, Padre della Chiesa, o di un avaro peccatore, poco o nulla cambia. 

Ancora, compiendo un salto di svariati decenni nel tempo a venire, dalle brumose terre di Fiandra giungiamo alla calda città di Roma, proprio sul finire del secolo XVI, dove, distante anni luce dall’immaginario ancora gotico del Nord Europa, esplode l’astro fuggevole e dirompente di Michelangelo Merisi, meglio noto come Caravaggio. 

Questo suo dipinto, tra i primi a dargli gloria e grande fama improvvisa, è – lungi da ciò che si crede e spesso viene arbitrariamente sostenuto, ovvero il suo ateismo – totalmente influenzato non soltanto dalle fonti neotestamentarie, ma soprattutto da quella visione mistica e spirituale, calata nella realtà quotidiana, tipica di due giganti quali Filippo Neri e Ignazio da Loyola. Oggi, come allora, si può godere della stupefacente visione della Vocazione di San Matteo, composta tra il 1599 ed il 1602, nella chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma, sempre che si riesca a non essere sommersi dalla calca dei turisti che affollano la piccola cappella.

Totalmente differente dall’impostazione dei suoi predecessori nordici, qua l’azione è duplice, infatti il Cristo e la sua luce giungono improvvisi ad interrompere l’attività di esattore delle tasse di Matteo, il pubblicano. Anche qui tutto avviene al chiuso, ma lo spazio è molto meno angusto dei banchi di pegno fiamminghi; una vasta stanza spoglia e immersa nell’ombra dove, allo stesso tavolo, siedono cinque personaggi: un giovane intento a contare avidamente le monete sparse davanti a loro, mentre vicino a lui siede un uomo che lo osserva con attenzione ciò che egli fa, scrutandolo attraverso gli occhiali tenuti con la mano sinistra. Un terzo, con spada al fianco, intanto si accorge dell’ingresso delle due figure, del Cristo e dell’apostolo Pietro al suo fianco, mentre, al centro, Matteo guarda attonito proprio i due appena entrati, e osservando stupefatto il gesto del Nazareno che lo chiama, indica se stesso in una muta ma risuonante domanda. 

Secondo alcune più recenti interpretazioni invece, Matteo sarebbe il giovane intento a contare il denaro delle tasse, anche se personalmente, propendiamo per la prima tesi. La grande tela sarebbe ispirata proprio al passo del Vangelo di Matteo 9,9-13: «Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: Seguimi. Ed egli si alzò e lo seguì.», ma è anche evidente, almeno nella composizione dell’immagine e della caratterizzazione dei personaggi, un richiamo al Cenacolo vinciano che senz’altro il Merisi deve aver visto nella sua prima vita mediolanense. 

La luce aurea del Cristo penetra dunque la tenebra della materia, andando così a sostituirsi alle ricchezze materiali rappresentate dalle monete sul tavolo. Un’immagine alchemica dove l’Oro dei Filosofi, la più alta realizzazione spirituale trasmuta e trascende l’oro volgare divenuto denaro, quindi solidificato, precipitato nella materia di questo mondo. Pertanto, in questo caso, la critica all’usura, alla bramosia e alla cupidigia del denaro, avviene in maniera più sfumata e misticheggiante dei dipinti di cui abbiamo già detto. Non si può però non pensare all’influenza profonda che abbia avuto anche in questo caso, il vero mentore artistico e non solo, di Caravaggio, che fu il cardinal Del Monte, dedito notoriamente a pratiche alchemiche operative. 

È infatti sempre nello stesso Vangelo di Matteo, 6, 24 che leggiamo: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e Mammona»  e ancora in Matteo, 19, 23-24: «Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico, difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”». 

De resto si possono anche vedere poveri che sono molto più avari dei ricchi, perché avida è la loro natura anche se non posseggono beni materiali, in quanto l’unica cosa che desiderano nella loro vita è invece avere soltanto questi, mentre a coloro che ambiscono ad altro, Dio darà anche la ricchezza in sovrappiù. 

Tipico è il caso biblico di Salomone al quale, durante la notte prima della sua incoronazione, Dio apparve in sogno chiedendogli di scegliere tra la gloria, la ricchezza ed il potere. Salomone rispose di desiderare soltanto la Sapienza per poter giudicare con equanimità gli uomini che avrebbe governato. Il Signore allora, compiaciuto di una simile risposta donò a Salomone non soltanto la Sapienza ma anche ogni gloria ed ogni ricchezza.

Dal primo Seicento infine, compiamo un ulteriore salto lungo i secoli sino ai nostri giorni, per vedere come sia cambiato, e in quale immane misura, l’immagine che alcuni tra i più grandi artisti contemporanei danno del denaro fisico. Tra loro abbiamo scelto uno dei più noti al vasto pubblico, per le sue performance, ma anche uno tra i più sfuggenti e invisibili, celato sotto un anonimato che non è certo più quello sacro dell’artista del Medio Evo: Bansky è il suo nome, o forse meglio sarebbe dire il suo “marchio di fabbrica” anche se va riconosciuta la precedenza su di lui da parte di Andy Warhol che aveva riprodotto il dollaro statunitense in maniera seriale non diversamente da come fece con l’immagine della Campbell Soup.  

Il più famoso street artist del mondo, ha infatti realizzato, nel 2004, un’opera d’arte basandosi su una semplice banconota britannica da dieci sterline. Una moneta che in realtà non esiste e che reca stampato il volto della Principessa del Galles, Diana Spenser, insieme alla scritta Banksy of England che va a sostituire la tradizionale Bank of England e reca il titolo di Di-faced Tenner ovvero “Dieci sterline Di-faccia”, laddove Di è il diminutivo di Diana.

Scomparsi dunque ogni forma di critica morale ed etica all’abuso del denaro e all’usura, in Bansky, scompare anche qualsiasi riferimento metafisico, simbolico o comunque d’ordine superiore legato al denaro e alla moneta. È quindi evidente come il mondo attuale – e con esso l’arte – abbia radicalmente mutato il proprio rapporto con il “dio quattrino”, in attesa di vederlo ancor più rarefarsi, ridotto ad un flusso di bit da un lato mentre se ne aspetta la restaurazione dall’altro, come nuovamente legato agli asset in oro o in altri metalli preziosi, a cominciare dal palladio. 

I cicli quindi vanno ad esaurirsi e a riprendersi nel loro eterno fluire, nell’arte come in ogni altro campo dell’esistenza umana e forse stiamo proprio per assistere alla chiusura di uno di essi, quello delle “valute fiat”, diventate ciò che René Guénon, in tempi precoci e non sospetti ma quasi con preveggenza, ha sottolineato essere l’aspetto più esplicito del “regno della quantità”. 

Infatti le monete più antiche, erano costellate di simboli tradizionali divenuti in tempi successivi, di carattere più religioso, sinché non si andò a dimenticare il valore metafisico dello stesso oggetto aureo coniato da sovrani e pontefici. Avvenne così per le moneta, come accade anche per tutte quelle cose che svolgono una funzione reale nell’esistenza dell’essere umano: vengono lentamente private di ogni aspetto tradizionale, di ogni simbolo sacro, finendo per diventare totalmente profane e ridursi alla mediocrità della vita dei nostri giorni riducendosi pertanto alla mera quantità numerica. Insomma, come già scriveva Oscar Wilde quando chiosava la grettezza del mondo vittoriano con uno dei suoi sapienti aforismi: “Oggi conosciamo soltanto il prezzo delle cose, non più il loro valore”, la moneta contemporanea segna proprio questo decadimento spinto sino alla sua più estrema dissoluzione e questo avviene trascinando con sé, in un gorgo oscuro, non soltanto l’economia umana ma anche ciò che dovrebbe dare libertà e sublime gioia all’uomo, ovvero l’arte e la Bellezza. 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

AA.VV., Enciclopedia dei Simboli, Garzanti, Milano, 1991 

AA.VV., Oltre l’immagine, transiti contemporanei tra arti e filosofie, Milella Edizioni, Lecce 2004

Jurgis Baltrusaitis, Il Medioevo fantastico, Adelphi, Milano 1988. 

Maurizio Calvesi, Arte e Alchimia, collana Art Dossier, Giunti Editori, Firenze 1986 

Dalmazio Frau, L’Arte Ermetica. Bosch. Brueghel, Dürer, Van Eyck Arkeios, Roma 2014 

Dalmazio Frau, Caravaggio. La luce e l’ombra. Tra Alchimia e altri misteri, BastogiLibri, Roma 2021 

Renè Guenòn, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1984

Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo, Rizzoli, Milano 1998

Eliphas Levi, I misteri della Cabala, Athanor, Roma 1947

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