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PERCHÉ NON COPIAMO IL MODELLO ARGENTINO? di Maurizio Blondet

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E precisamente perché ha smesso di prendere le medicine prescritte dai santoni della finanza di Londra e dal loro poliziotto mondiale, il Fondo Monetario Internazionale.
Nel 2001, come 400 mila italiani sanno a loro spese, l’Argentina ha dichiarato fallimento sul suo debito sovrano, insomma ha smesso di pagare i creditori. “Nessuno farà più prestiti al Paese”, tuonò allora la City di Londra. Sì, sono stati anni duri per gli argentini. Ma oggi, come ammette lo stesso Financial Times, banchieri e investitori internazionali fanno la fila per accaparrarsi i primi buoni del Tesoro che l’Argentina ha emesso dal 2001 per il mercato estero. Mezzo miliardo di dollari, a cui farà seguire un altro mezzo miliardo. “I banchieri internazionali chiamano e dicono: per favore, per favore, emettete altra carta”, racconta Walter Molano, un analista finanziario di Buenos Aires.
Chissà che interessi salati dovrà pagare l’Argentina su questo nuovo debito, direte voi. Macché: paga lo 0,30-0,50 per cento più del normale.
E ciò, solo perché non può piazzare i suoi titoli direttamente all’estero, perché rischierebbe il sequestro degli attivi su richiesta dei creditori che non hanno accettato la ristrutturazione dell’anno scorso, e che reclamano ancora 20 miliardi di dollari.
Ma chi ha invece accettato la ristrutturazione, ha di che rallegrarsi. Siccome l’Argentina cresce, come s’è detto, del 9% annuo, i “warrant” accettati da questi creditori – che sono legati alla crescita del prodotto interno lordo del Paese – hanno raddoppiato il loro valore da novembre ad oggi.
E per l’Argentina, questi “warrant” sono una manna. Infatti sono, più che Bot, delle azioni: pagano gli interessi solo quando l’economia cresce più del 4,2 per cento l’anno. Ciò significa che proteggono il Paese dalle recessioni, perché in quel caso il peso del debito diminuisce. Com’è giusto.
Ma la recessione non è in programma: l’Argentina vanta oggi un avanzo commerciale (esporta a tutto spiano) e persino un bilancio pubblico in attivo.
Il successo argentino deve insegnare qualcosa a noi italiani, minacciati dai poteri forti di “sbatterci fuori dall’euro”. Come l’Italia con l’euro, l’Argentina deve le sue disgrazie al fatto di essersi agganciata, negli anni ‘90, a una moneta forte e su cui non aveva sovranità, il dollaro. Era il primo consiglio del Fondo Monetario: per garantire gli investitori esteri (speculatori) che la divisa argentina non avrebbe perso valore. Per mantenere l’aggancio al dollaro, l’Argentina ha dovuto accettare tutte le “ricette di risanamento” imposte dal Fmi nell’interesse dei creditori: tagli alla spesa pubblica, anche a quella necessaria (strade, scuole, ospedali), “finanziarie straordinarie” (ossia supertassazioni alla Prodi), austerità, tiro della cinghia.
Rigore e austerità spietati hanno gelato l’economia argentina, come l’euro ha gelato la nostra. Fino al giorno in cui l’Argentina non ce l’ha fatta più, ed è ricorsa all’estrema prerogativa degli Stati sovrani: dichiarare bancarotta. Per gli argentini comuni, sono stati mesi durissimi. Fuga di capitali, disoccupazione, miseria. Ma intanto, liberato il collo dal peso schiacciante di quella macina da mulino che era il debito, il Paese cominciava a tornare a galla. A investire risorse, anziché nel pagare i creditori stranieri, nel proprio sviluppo interno. Nelle infrastrutture soprattutto, che sono i pilastri del futuro benessere. Ed oggi, sono i finanziari ad implorare l’Argentina risanata di indebitarsi un po’, per far lucrare anche loro del suo benessere.
Questa storia è istruttiva per noi. Specie dal momento che Prodi ha scelto, come ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa. Se non avesse altri difetti, questo personaggio ammanicatissimo coi poteri forti ne ha uno capitale: è lui l’inventore dell’euro. Costui farà di tutto per mantenerci questa macina da mulino legata al collo, nell’interesse dei creditori mondiali: austerità, tagli, supertasse, finanziarie astronomiche; e vendite di gioielli nazionali agli speculatori della City. Con la scusa di renderci “competitivi”nel “mercato globale“, come ci ripete da vent’anni. Perché Padoa Schioppa è intellettualmente in ritardo di vent’anni. Ormai tutta l’America Latina è in ripresa, perché ha rifiutato le medicine del Fmi e le ricette del liberismo globale. E sul New York Times, l’economista Thomas Palley si domanda: “La globalizzazione sta per fallire?”. I globalizzatori hanno una paura matta che la loro giostra finanziaria mondiale finisca in un crack imminente. Per questo ci minacciano: non uscite dal sistema, altrimenti “fate la fine dell’Argentina”. Oggi, siamo noi che possiamo minacciarli: se non la piantate, facciamo come l’Argentina. Torniamo sovrani a casa nostra.

(Fonti: www.effedieffe.com; www.lapadania.com)

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