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PERCHÉ SÌ ALL’AUTARCHIA di Maurizio Blondet

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Una bella intervista di Massimo Fini su La Padania che non voglio lasciar cadere.
La tesi di Fini (che condivido) è che «Putin può salvarci dall'America».
Che l'Europa ha interesse a integrare la Russia, cristiano-europea (specie ora, dice, che ha perso tante aree asiatiche dell'impero sovietico) piuttosto della Turchia che «essendo la longa manus degli Stati Uniti» ci porterà «alla paralisi politica e militare».
Poi delinea il suo sogno dell'Europa: «un continente unito, neutrale, armato e nucleare».
Io aggiungo anche autarchico, ma è una mio opzione soggettiva.
Intuisco la precauzione; ma aggiungo che è una «opzione soggettiva» a cui aderisco di tutto cuore.
Il regime economico planetario in cui viviamo – la globalizzazione – è l'anti-autarchia.
Infatti i suoi ideologi anglo-americani la chiamano anche «interdipendenza» e ne fanno discendere che la necessità di «dipendere» da altri Paesi per merci e materie prime, favorirebbe «la pace».
È una menzogna, come dimostra l'aggressività militare neo-americana.
Ma non è questo il punto più urgente.

Il punto è che la globalizzazione liberista (libera circolazione di merci, uomini e soprattutto capitali) nasce dalla cultura anglo-imperiale e in qualche modo è consona al particolare individualismo anglosassone.
Per l'Europa continentale, essa determina un clima estraneo, in cui saremo i perdenti perché non aderiamo fino in fondo alle sue spietate durezze.
Per noi, la globalizzazione non significa semplicemente la perdita di posti di lavoro verso l'Asia, di quote di mercato, o il deficit crescente della bilancia commerciale.
Significa qualcosa di peggiore: la perdita di competenze, conoscenze tecniche e professionali plurime e varie, che arricchivano e diversificavano e la rendevano articolata in un modo «europeo» che gli americani non conoscono.
Non solo perdiamo a favore dell'Asia posti di lavoro; perdiamo la capacità di fabbricare, la serietà, l'orgoglio e la disciplina di una classe operaia, la diffusione di conoscenze tecniche pratiche necessarie.
Carlo Emilio Gadda, che era ingegnere, ha raccontato quanto ha imparato dai suoi operai metallurgici lombardi; ed è certo che gli operai imparavano in fabbrica ogni giorno dagli ingegneri. Questa vicinanza di ceti che nasceva nelle fabbriche valeva più di qualunque profitto economico finanziario: ai superiori insegnava la responsabilità verso «i loro uomini», ai proletari il rispetto naturale per chi ha diritto di comandare in quanto sa.

Non a caso il Politecnico di Milano sfornava un tipo speciale, e ammirevole, di personalità civili. All'ingegnere si insegnava il calcolo preciso dei materiali per costruire un ponte col minimo di cemento – la teoria – e poi gli si diceva: moltiplicate il cemento per 2 o per 4, perché sul ponte passano uomini e automezzi.
Insieme alla matematica, alla fisica e alla tecnologia necessaria, all'ingegnere si insegnava ad essere responsabile dei suoi uomini: e in questo consisteva l'attitudine vera al comando.
Certi operai della Breda parlavano del loro ingegnere come «un tipo che si mette la cintura e anche le bretelle», prudente e capace di decisioni: l'obbedienza veniva spontanea e anche allegra.
Gli operai della Breda erano stalinisti e avevano il mitra sotto il letto nel caso che il Partito chiamasse alla rivoluzione; ma l'invidia sociale aveva poco spazio nelle loro anime.
Durante la repubblica di Salò, ingegneri SS presero la guida delle fabbriche milanesi; rimasero stupefatti dall'orgoglioso puntiglio degli operai dell'Alfa Romeo messi a fabbricare motori per caccia Messerschmitt; invano cercavano di convincere gli operai che, siccome un aereo tedesco ormai restava in volo in media un'ora prima di essere abbattuto, era inutile provarli al banco per 100 ore di volo.
Quelli volevano fare motori «seri».
Le SS ingegneri scrivevano a Berlino: questi saranno anche tutti comunisti, ma producono come nella Ruhr.

Gli operai avevano orgoglio e dignità perché sapevano, ed erano sicuri di quel che sapevano.
Di tutto questo ci ha privato la globalizzazione.
L'Italia fabbricava aerei, televisori, elettronica, alta tecnologia; ora li compra.
Perde competenze tecniche; ogni giorno ne perde qualcuna in qualche settore.
Bastano due o tre anni, e queste competenze tecniche sono perdute per sempre.
In breve, non si trova nessuno che sappia più come fare quella merce, quel prodotto industriale, quella macchina utensile, quella mescola di gomme o quel prodotto chimico.
In questo modo, è la qualità umana dell'intera società che s'impoverisce.
È il tessuto civile e sociale che si sfilaccia.
È il senso di responsabilità che si perde, insieme con la serietà e l'applicazione.
La società si «semplifica» allo stesso modo in cui un frutteto fertile «si semplifica» diventando deserto, e l'humus mineralizzandosi.
La società americana è già questo deserto semplificato.
Pochi miliardari di successo, e l'immensa maggioranza di «poveri pur lavorando» (working poors), praticamente tutti servitori impiegati nel «terziario», che sono appunto i «servizi», portinai, camerieri, sorveglianti.
Due mondi separati, che non lavorano più gomito a gomito in nessuna fabbrica.
Privi di solidarietà reciproca.

In USA si vedono ancora i lustrascarpe anche in alberghi di lusso, fatto che in Europa susciterebbe repulsione sociale (almeno spero).
Sempre più spesso, i super-ricchi vanno a vivere in «comunità chiuse», closet communities di lusso, che sono città condominiali circondate da muri e con vigilanza privata armata.
Il ceto medio è microscopico, e decresce ogni giorno.
Non si corra a un giudizio univocamente negativo: questa separatezza che nasce dallo specifico individualismo anglosassone, la perseguono volontariamente.
A loro piace essere isolati.
Da noi, chiunque possa permetterselo vuole vivere nel centro delle città vicino a tutti gli incontri sociali possibili; loro, se possono, vanno a vivere fuori, nei suburbia verdeggianti che per noi sono cimiteri di lusso.
Per questo hanno persino un termine che noi ignoriamo, «gentrification», da «gentry» allusione velleitaria alla piccola nobiltà campagnola inglese.
La globalizzazione ha acuito tutto questo, e in qualche modo (fino a un certo segno) loro ci stanno bene, o non sanno di starci male.
Ma per noi è la morte della civiltà diversificata e articolata che ci ha nutrito.

Sere fa, in un ristorante milanese, avevamo vicina una tavolata di giovani.
I giovani italiani d'oggi: la vacuità delle loro facce, risate e discorsi rifletteva vite a cui nessuno aveva posto esigenze, studi, sforzo di riflessione, seria preparazione professionale.
Tanto, a che serve ormai prepararsi?
Quella tavolata di giovani, tutta la sera, ha parlato essenzialmente della stessa cosa: dei loro telefonini ultimo modello.
Telefonini che non sono loro a fabbricare, che non sanno come funzionino «dentro» e di cui nemmeno sospettano la «serietà» tecnica.
A loro basta comprarli e metterseli al collo, come il boscimano si metteva al collo la sveglia.
Sono anche ben forniti di denaro, per ora.
Si sarà notato come ormai tutte le merci che piacciono ai giovani italiani, i prodotti che desiderano, tutti i simboli di status di cui si abbigliano e si forniscono, non sono fatti in Italia.
Non solo i telefonini, gli schermi piatti, gli Ipod, ma anche le scarpe e il vestiario: non le belle scarpe di pelle italiane ma le orrende pedule con marchio americano Made in China, non le eleganti lane e lini di buon taglio, ma le felpacce che subito puzzano, con i soliti marchi da grande magazzino.
Urta, carattere comune di queste cose, la loro dozzinalità; rattrista in quei giovani la perdita del gusto e delle sue finezze e complessità.
Con questa generazione, anche il made in Italy non ha futuro.

Al nostro tavolo, un giovane matematico che sta seguendo un corso di dottorato a Yale, tornato per Natale.
Ci diceva quanto «soffra» la vita americana, l'assenza di conversazione amicale che non sia la discussione scientifica coi professori, la ripugnanza dei party studenteschi che si riducono a ubriachezza, a monosillabi e a rissa.
Ma naturalmente non c'è posto in Italia per questo giovane.
Il solo posto che aveva trovato era quello di attuario in una compagnia d'assicurazione; poi ha vinto una borsa di studio americana, dove i professori lo trattano da pari a pari.
E i suoi vecchi professori italiani oggi, servili, gli scrivono che metta una buona parola perché vogliono invitare a tenere conferenze e lezioni i suoi professori americani di oggi, tutti Nobel o vicini ad esso, tutti primissimi, avanguardia assoluta, di assoluta fama mondiale nella loro specialità.

Ma in Italia non ci sono posti ai «piani alti» della cultura e della scienza: in parte sono occupati da baroni che hanno smesso di studiare da mezzo secolo, in gran parte semplicemente «non sono previsti».

L'Italia non ne ha bisogno, non li desidera, non vuole sopra di sé una classe seriamente competente e perciò eticamente giudicatrice dello svacco generale, della soddisfatta e presuntuosa mediocrità delle mezze calzette trionfanti.

A vedere questi due tipi di giovani – la tavolata coi telefonini e il giovane matematico – si sentiva dolorosamente, con urgenza, ciò di cui entrambi disperatamente mancano: di qualcuno che li «aiuti».
L'aiuto di cui hanno bisogno non può essere individualistico, privato.
L'Italia ha bisogno di una cosa che va necessariamente insieme all'autarchia e le dà senso: il dirigismo pubblico.
Uno Stato che, per paterna pietà dei giovani, dia una visione collettiva, una prospettiva comune, e vi impegni la società intera.
Che si assuma il compito – pubblico e oggettivo – di dare ai giovani un «incarico» e un impegno.
Di incardinarli al livello più esigente del loro destino: verso l'eccellenza scientifica e culturale massima cui la minoranza capace può salire, chiedendole il massimo sforzo; e agli altri, una medietà non mediocre e di bassa lega.

Non si tratta qui di dittatura o di soppressione del pluralismo, anzi: si tratta di far fiorire libertà e possibilità, ma dentro una visione storica unitaria, dinamicamente in atto.
Si tratta di dare il senso di appartenenza ad una comunità nazionale: e non nella visione bolsa e falsa, retorica e viscida (e vacua di risultati) delle predicozze di un Ciampi; molto di più, un impegno civile di cui tutti devono essere ritenuti responsabili, e dunque colpevoli se vi mancano.

Si può vietare ai padroni di «delocalizzare» aziende e posti in Cina o in Romania, ma solo se si impartisce ai giovani la voglia di prepararsi all'eccellenza, e si vieta loro di riempirsi di oggetti dozzinali e stranieri; e questo si «deve» fare, nonostante le proteste degli uni e degli altri.
Perché è la nostra civiltà che è in gioco.
Ciò vale non solo per l'Italia, ma per l'Europa continentale intera.
La pullulante anarchia francese, la depressione pessimistica tedesca (e la riduzione generale della natalità) vengono dal dubbio sull'autorità che per decenni ci ha guidato; dubbio che chi comanda oggi «non debba comandare», non ne abbia il diritto; angoscia di fronte a un mondo «privatizzato» in cui siamo abbandonati a noi stessi; smarrimento di essere ridotti a modellarci su un individualismo che forse ha un senso nella cultura anglosassone, ma non da noi. Là forse, la nozione vissuta di essere «privati» e ridotti alle proprie risorse suscita negli individui le forze migliori.
Da noi, l'individualismo che non viviamo bene ci incita all'irresponsabilità, all'accaparramento amorale dei Fiorani (e dei D'Alema con il suo yacht, di Berlusconi con le sue TV irresponsabilmente idiote).

Senza essere collettivisti o fascisti, abbiamo bisogno di una saggezza della comunità che ci indichi la strada, o di un'autorità cui affidarci non alla cieca, ma per convinzione.
Faccio fatica a definirla, e forse Fini (Massimo) ha idee più precise.

Ma come segnale e indizio dell'ordine politico-sociale che vorrei, posso citare Bernard Stiegler, filosofo di sinistra.
Un tipo incredibile: rivoltoso gauchiste nel '68, tenutario di un bar comunista con musica jazz, rapinatore di banche, anni di galera per rapina (durante i quali ha studiato).
Oggi, messo a dirigere le politiche culturali del Centro Pompidou a Parigi, l'ex galeotto anarco-trotzkista che non rinnega il suo passato ideologico, confessa apertamente a Le Monde una cosa inaudita: «mi ha allevato la televisione del generale De Gaulle. È quella che mi ha fatto scoprire, a 12 anni, Eschilo e la tragedia greca».
E aggiunge: allora, «si poteva essere poveri e istruiti».1
È la mia stessa esperienza, di me che sono quasi coetaneo di Stiegler.
Anch'io ho imparato il mio primo francese alla TV di Stato italiana, che teneva questi corsi educativi.
Anch'io ho scoperto Eschilo e Chekov e Tolstoi da antiche trasmissioni popolari (e quanto popolari!) di Vittorio Gassman, o di «appuntamenti con la novella» letti da attori italiani di prosa.
So precisamente cosa intende Stiegler quando dice: «allora si poteva essere poveri e istruiti», perché anch'io sono stato così: povero che bevevo istruzione dalla TV di allora, povero che voleva istruirsi.
E non «per fare soldi», o salire sulla «scala sociale», ma per essere degno di una società degnamente esigente, preparato a un avvenire comune migliore.
Per me allora quest'idea un po' vaga faceva tutt'uno con «fascismo», la sola autarchia di cui avevo nozione, per Stiegler con ciò che lui chiama «culture ouvrière».
Penso oggi che stiamo parlando della stessa cosa, della stessa nostalgia.

Io ho il sospetto che ci abbiano demonizzato il fascismo per impedirci di indagare come riuscì a dare una direzione comune e condivisa all'Italia, a nazionalizzare le masse; Stiegler parla di De Gaulle come di un nemico di classe da cui però prendere esempio, un'autorità che non si poteva disprezzare (come Berlusconi, come Prodi, come Ciampi).
È l'autarchia di cui abbiamo bisogno.
L'autarchia nazionale non è più possibile, naturalmente.
Ma l'autarchia d'Europa non solo è possibile, è necessaria.
Una comunità di 400 milioni di persone, che dispone ancora di varietà straordinarie di competenze, ha diritto a chiudere i confini e produrre in proprio tutto.
Anzi ne ha il dovere.
Anche perché – e qui chiudo, prometto – l'economia interdipendente globalizzata può incontrare una fine traumatica e rapida.
La compravendita di merci prodotte in lontani continenti si fonda profondamente sui bassissimi costi dei trasporti intercontinentali.
Ma da 15 anni non si trovano più nuovi importanti giacimenti petroliferi; tra una ventina, il costo dell'energia sarà molto più caro, e converrà tornare a produrre cose e alimenti vicino, anziché comprarli lontano.

Ciò può avvenire d'improvviso, come di colpo può scoppiare una qualunque guerra per l'energia che infatua le vie di comunicazione, e blocca i traffici.
Allora sarà vincente di nuovo chi ha conservato competenze diverse (oggi «non competitive» per la miopia di un affarismo ossessionato dalla finanza), società articolate e complesse e non già semplificate-desertificate: chi ha ancora contadini sulla terra nazionale capaci di coltivare, operai orgogliosi nelle fabbriche, ingegneri tecnici e matematici, chimici capaci di sintetizzare «surrogati» di materie prime introvabili; e non solo «bocconiani» e servitori e lustrascarpe.
Perdente sarà chi avrà società «semplici».
Autarchia, autarchia.

di Maurizio Blondet
tratto da www.effedieffe.com

Note
1) Michel Alberganti, «Bernard Stiegler, un philosophe interactif», Le Monde, 4 gennaio 2006.

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