In queste ore, apprendiamo che il Senato brasiliano ha confermato la richiesta di impeachment per Dilma Rousseff, che sarà sostituita alla guida del Brasile dal suo vice Michel Temer (vedi notizia) [Red.]
È torbido il clima in Brasile, teatro in questi mesi di una violenta campagna politico-giudiziaria per spodestare Dilma Rousseff, riconfermata alla presidenza nemmeno due anni fa: il termine “golpe” è entrato ormai nel vocabolario comune della politica. L’operazione è un ibrido tra la nostrana Tangentopoli, dove il gigante petrolifero Petrobas ricopre il ruolo dell’Enimont ed il giudice federale Sergio Moro quello del pm Antonio Di Pietro, e la più recente Euromaidan, dove le Chiese evangeliche hanno assunto la direzione delle proteste di piazza. La posta in gioco per le oligarchie atlantiche è alta: ristabilire, dopo Argentina e Venezuela, la propria egemonia in Brasile, sabotare la Nuova Banca di Sviluppo ideata dai Paese emergenti e “liberare” il Banco Central do Brasil dalla supervisione della politica, per assoggettarlo al controllo alla finanza internazionale.
Un gigante fuori controllo
Gli anni ’10 del XXI secolo presentano analogie sempre maggiori con quegli ’70 del secolo precedente: la profonda crisi economica, sociale e politica dell’impero angloamericano (vedi l’addio unilaterale degli USA al sistema di Bretton Woods nel 1971), accompagnata ora come allora da sconfitte militari strategiche (ieri ilVietnam, oggi l’Afghanistan e la fallita balcanizzazione di Siria ed Iraq) è accompagnata dal fiorire del terrorismo, dal moltiplicarsi dei colpi di Stato e da un solco sempre più profondo tra la “retorica democratica” e la concretezza quotidiana, connotata dell’esplosione della violenza politica in tutte le sue forme (omicidi mirati, ghettizzazione degli avversari, eliminazioni per via giudiziaria degli oppositori, etc. etc.).
Esiste però una differenza di fondo con gli anni ’70: se l’impero angloamericano riuscì allora a ristabilire la propria egemonia (complice la debolezza strutturale dell’URSS) oggi non dispone più né del capitale umano, né di quello finanziario, né di quello industriale per conservare il suo status. Bisogna ancora capire se, spentasi la fiammata di caos alimentata ad hoc dall’establishment euro-atlantico, Washington e Londra acconsentiranno al loro declassamento in maniera pacifica oppure se, schiacciate da un sistema finanziario al collasso, opteranno per un’uscita bellicistica.
Nel frattempo il copione è grossomodo lo stesso degli anni ’70: tipico è, a questo proposito, il Sud America, su cui Washington perfezionò in due riprese (la dottrina Monroe del 1823 ed il corollario Roosevelt del 1904) il diritto di influenza in via esclusiva. Lo status del Sud America come “giardino di casa” degli Stati Uniti rappresenta negli anni ’70 la base politica su cui poggia la tristemente nota operazione Condor, volta formalmente a contenere l’avanzata del comunismo ma, in pratica, a preservare l’assoggettamento economico e militare degli Stati sudamericani agli interessi statunitensi. Seguono golpi militari, l’instaurazione di giunte care a latifondisti e multinazionali, guerriglie e contro-guerriglie, traffici di droga per sovvenzionare la lotta al comunismo e le celebri proscrizioni con relativi desaparicidos.
Il Brasile, l’ex-colonia portoghese strategica per peso demografico ed estensione geografica, è tra i primi a testare la dura legge della dottrina Monroe: le riforme dal sapore socialista del presidente Joao “Jango” Goulart, improntante sulla lotta alla povertà, su un maggiore intervento dello Stato nell’economia, su una più equa redistribuzione della terra e sulla nazionalizzazione delle compagnie petrolifere, si infrangono contro il golpe militare del 1964. Il presidente americano Lyndon Johnson, attuando la consueta politica della cannoniere, ordina nel marzo 1964 alla flotta militare di incrociare davanti alle coste brasiliane, mentre colonne di mezzi blindati dell’esercito carioca si dirigono verso Brasilia e Rio De Janeiro. “Jango” è così deposto, le sue riforme “populiste” archiviate e tutti i partiti banditi, eccezion fatta per il governativo l’Aliança renovadora nacional (ARENA), cui fa da contraltare un’opposizione “ufficiale”, quella delMovimento Democrático Brasileiro (MDB), tuttora esistente. Durante la ventennale dittatura (non tra le più cruente) sono eliminati tra i 300 ed i 400 oppositori1 e migliaia conoscono le delizie delle carceri brasiliane. Negli anni del regime (per sottolinearne il retroterra politico piuttosto “conservatore”) cresce l’impero mediatico del Grupo Globo, pioniere nel 1965 della tv privata con il canale Rede Globo, ed esteso oggi dai quotidiani cartacei alle trasmissioni satellitari.
Dal ritorno della democrazie, il primo presidente di sinistra a varcare la soglia del moderno Palácio do Planalto è Luiz Inacio “Lula” da Silva, eletto nel 2003 tra le fila del Partido dos Trabalhadores (PT):riallacciando i fili delle riforme di “Jango” Goulart, interrotti 40 anni prima, Lula crea uno Stato sociale (Bolsa Familia) che garantisce l’assistenza alle fasce più deboli della popolazione. Gli aiuti elargiti ai meno abbienti, uniti al boom dell’export di materie prime (acciaio, soia, bestiame) verso la Cina, assurta a primo partner commerciale del Brasile, contribuiscono all’esplosione della classe media ed alla parallela contrazione della povertà: in dieci anni l’indigenza si dimezza, calando dal 9,7% al 4,3% della popolazione (2).
La fortuna arride a Lula, perché alle ricchezze del sottosuolo brasiliano si aggiunge nel 2008 la scoperta di enormi giacimenti petroliferi, sepolti nel mare a 6.000 metri di profondità sotto uno spesso strato di sale (3): altre risorse per alimentare la sua politica “populistica” a favore di quei brasiliani che fino a quel momento non hanno tratto alcun beneficio delle ricchezze naturali del Paese. Artefice della corsa all’oro nero è il gigante Petrobas, controllato dallo Stato e presieduto tra il 2003 ed il 2005 da Dilma Rousseff, eletta poi da Lula Ministro-Chefe da Casa Civil, la più alta carica dell’esecutivo brasiliano.
Allo scadere del secondo mandato di Lula, è quindi Dilma Rousseff il naturale successore: la campagna elettorale dell’ottobre 2010 è tutta in discesa per la candidata, grazie all’investitura ricevuta dal carismatico presidente uscente ed al benessere diffuso di cui gode il Brasile.
Sono gli anni in cui il Brasile rappresenta la prima lettera dell’acronimo “BRICS”, gli astri nascenti su cui sono riposte le speranze per uscire dalle secche della Grande Recessione: il denaro a basso costo stampato dalla FED lascia gli Stati Uniti per riversarsi nei Paesi emergenti, con il duplice obbiettivo di deprezzare il dollaro americano (favorendo le esportazioni statunitensi e gonfiando i ricavi esteri delle multinazionali) ed alimentare bolle speculative in loco (il ministro delle finanze brasiliano, Guido Mantenga, parla nel settembre 2010 di “guerra valutaria”, di fronte al costante apprezzarsi del real sul dollaro americano) (4).
Sono altresì anni duri per la politica sudamericana degli Stati Uniti, che assistono all’avanzata del chavismo (Hugo Chavez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador) ed al risveglio del peronismo(Nestor Kirchner e la moglie Cristina Fernandez in Argentina): la volontà del Sud America di emanciparsi dagli Stati Uniti e di svolgere un ruolo geopolitico autonomo è sigillata dal sesto summit dei BRICS, svoltosi nel luglio 2014 a Fortaleza. In quella sede sono poste le basi della Nuova Banca di Sviluppo, concepita per liberarsi dal giogo della finanza anglofona, FMI e Banca Mondiale in testa. Padrona di casa è, ovviamente, Dilma Roussef.
Nell’estate 2013 le oligarchie finanziarie passano al contrattacco: è sferrato il primo assalto finanziario (il secondo scatterà nell’estate 2015) sfilando bruscamente i capitali generati dalle politiche dei tassi a zero che avevano precedentemente gonfiato valute, corsi azionari e materie prime. Il Brasile, prima allarmato dall’eccessivo apprezzarsi del real, è costretto ora ad alzare il saggio di sconto per frenare la caduta della valuta5; in concomitanza il Paese è teatro delle prime agitazioni di piazza (ufficialmente dovute al caro trasporti), subito incanalate ed ampliate dalle rete. È velleitario però credere che la caduta real, l’inflazione e qualche protesta ribaltino la situazione: le oligarchie finanziarie decidono così di intervenire direttamente nell’agone politico, partecipando con il proprio candidato alle incombenti elezioni presidenziali brasiliane.
Nell’ottobre del 2013 è annunciata a sorpresa l’alleanza tra il Partido Socialista Brasileiro di Eduardo Campose l’ambientalista Marina Silva, già candidata dei Verdi alle presidenziali del 2010 e considerata vicina alle élite economiche del Paese6, tanto da vantare tra i propri maggiori sostenitori Maria Alice Setubal7, erede di un impero che spazia dall’immobiliare all’industria, nonché principale azionista della Itau Unibanco, il più ricco istituto dell’emisfero Sud. Con l’alleanza Marina Silva rinuncia alle ambizioni presidenziali, riservandosi però il posto di numero due del governo in caso di vittoria: il destino beffardo (o qualche provvidenziale sabotaggio?) provoca però il drammatico decesso di Eduardo Campos (il Cessna su cui vola si schianta il 14 agosto 2014), facendo dell’ambientalista sponsorizzata dalla Itau Unibanco la candidata ufficiale del partito socialista per il Palácio do Planalto.
Il lato “oscuro” della verde Marina Silva, quello di alfiere dell’alta finanza, emerge presto. In Brasile, come in Italia fino al 1981, prima del divorzio tra Bankitalia e Tesoro sponsorizzato da Beniamino Andreatta, il Banco Central do Brasil è ancora alla dipendenze del Ministero delle Finanze ed il suo governatore, sebbene eletto senza scadenze temporali, risponde alla volontà del presidente (ossia, in ultima analisi, all’elettorato): l’ambientalista Silva si fa paladina dell’indipendenza della banca centrale, da sempre tra le massime priorità della finanza anglofona (privato della gestione della moneta, lo Stato è svuotato di buona parte della sua sovranità). “Brazil presidential rivals clash over central bank”8 titola il 30 settembre 2014 il Financial Times,evidenziando la volontà di Marina Silva di riportare il Brasile sulla strada dell’ortodossia economica e “liberare” il Banco Central do Brasil dal controllo del governo federale. La reazione di Dilma Rousseff alle proposte della sfidante rosso-verde passa attraverso un video elettorale che enfatizza i rischi che comportano le banche centrali autonome: quattro banchieri chiusi in una stanza a tramare, mentre le famiglie perdono il lavoro e “la pagnotta” (9).
I sondaggi compiacenti (a dimostrazione del loro utilizzo sempre più frequente come strumento per influenzare, più che saggiare, l’opinione pubblica) asseriscono che Marina Silva è in grado di conquistare il secondo turno alle elezioni presidenziali e vincere il duello finale con Dilma Rousseff: “Polls Show Marina Silva Defeating Brazilian President Dilma Rousseff”10 scrive il 3 settembre il Wall Street Journal, riportando un sondaggio di Rede Globo (di cui abbiamo sottolineato le simpatie “conservatrici”) secondo il quale il PT della Rousseff otterrebbe al primo turno il 37% delle preferenze, Marina Silva il 33% ed il terzo sfidante, Aecio Neves a capo del Partido da Social Democracia Brasileira, il 15%. Al secondo turno, secondo i pronostici della popolare rete televisiva, l’ambientalista Silva conquisterebbe il Palácio do Planalto, distaccando di sette punti percentuali il presidente uscente.
Arrivano le elezioni di ottobre, le proteste della primavera si sono ormai acquietate ed i mondiali di calcio, nonostante la campagna mediatica denigratoria che li ha preceduti, sono filati senza intoppi: le urne regalano così un esito completamente differente da quello pronosticato un mese prima da Rede Globo. La Rousseff conquista al primo turno il 41% dei consensi, Aecio Neves il 33% e Marina Silva si piazza solo terza con il 21%: nonostante la beniamina dell’alta finanza converga verso il PSDB di Neves (quando la naturale alleanza sarebbe stata con il PT), la Rousseff conserva la presidenza, pur vincendo il ballottaggio con un margine ridotto (52% vs 48%). Le settima economia mondiale ed il peso massimo dell’emisfero australe sfugge ancora una volta al controllo delle oligarchie atlantiche. Che fare?
Metà Tangentopoli, metà Euromaidan: la rivoluzione colorata a ritmo di samba
Il 2015 è un anno amaro per i partiti chavisti e peronisti: il rallentamento dell’economia cinese, accompagnato dalla caduta dei prezzi delle materie prime, e gli assalti speculativi contro i titoli di Stato e borse regionali, scanditi dai ricorrenti annunci di possibili default, hanno inevitabili ripercussioni sulle condizioni di vita e sull’elettorato. Il 23 novembre le oligarchie atlantiche riconquistano l’Argentina, con la vittoria di Mauricio Macrì che si impone sul candidato peronista; a distanza di due settimane, il 7 dicembre, è invece la volta del Venezuela, dove il partito chavista, guidato da Nicolas Maduro, perde le elezioni dopo 17 anni interrotti di potere. Il mosaico non è però completo senza il decisivo tassello brasiliano: la recessione morde (il PIL chiude il 2015 con un -3,8%), ma non è ovviamente sufficiente per spodestare un governo appena riconfermato dagli elettori.
L’impero angloamericano opta così per una soluzione ibrida: si sceglie di rovesciare Dilma Rousseff ricorrendo per metà all’armamentario giustizialista, di cui l’Italia ha ormai una conoscenza impareggiabile, e per metà al putsch di piazza in stile Euromaidan. La mobilitazione delle piazze è indispensabile perché lo scandalo mediatico-giudiziario, che ruota attorno al colosso energetico Petrobas ed a presunti irregolarità nei conti pubblici, non ha di per sé una forza tale da provocare la caduta della Rousseff (neppure lambita dall’inchiesta su Petrobas).
L’orchestrazione per cacciare la presidentessa fresca di elezioni parte ai primi di dicembre, con una serie di accuse che non hanno ancora nulla a che fare con il gigante petrolifero: contro Dilma Rousseff è aperto un procedimento di “impeachment”, che verte attorno alla bocciatura da parte della Corte di Conti brasiliana (TCU) del bilancio federale del 2014 e sull’accusa, in particolare, di non aver contabilizzato alcuni debiti verso le banche controllate dello Stato.
Si noti che non c’è alcuna accusa di malversazione o sottrazione di denaro pubblico, ma solo questioni di contabilità relative a risorse spese dal governo in maniera anti-ciclica11, per attenuare il rallentamento dell’economia. La Rousseff può, non a caso, affermare che “non esiste nessun atto illecito da me perpetrato, né alcun sospetto di aver stornato denaro pubblico”12. Un ruolo determinante nell’autorizzare la procedura di impeachment contro la Rousseff è giocato da Eduardo Cunha, leader del Partido do Movimento Democrático Brasileiro nato sotto la dittatura ed alleato, fino a ieri, della Rousseff: ironia della sorte, Eduardo Cunha è invece da mesi nei guai giudiziari e per motivi ben più seri, essendo accusato di aver intascato e depositato in Svizzera almeno 5 $mln generosamente offerti da Petrobas13. Cerca forse Cunha di salvarsi offrendo agli americani la testa della Rousseff?
Veniamo così allo scandalo Petrobas, il cui nocciolo è l’accusa che il colosso energetico abbia gonfiato i propri contratti per un valore di 2 $mld negli ultimi dieci anni, distribuendo il sovrapprezzo a politici e dirigenti. Questa pratica, piuttosto comune nei Paesi in sviluppo e non solo, è condannabile e perseguibile a norma di legge; non si capisce però perché non sia anche corruzione la pratica, molto diffusa invece nel modo angloamericano, di riciclare il personale politico con lauti stipendi nelle imprese private; né si capisce quale sia la differenza tra l‘attività miliardaria di lobby esercitata (lecitamente) sul Congresso degli Stati Uniti dalle industrie più disparate ed i 2 $mld elargiti da Petrobas alla politica brasiliana. Si ha ormai quasi la certezza che le accuse di “corruzione” siano un arma puntata dalle oligarchie atlantiche contro i Paesi al centro di strategie di destabilizzazione e contro quelle classi dirigenti che, diventate scomode, si vogliono eliminare.
Lo scandalo Petrobas presenta, infatti, forti analogie con l’affare Enimont, la “madre di tutte le tangenti” con cui Washington spazza via nei primi anni ’90 la Democrazia Cristiana ed il Partito Socialista. Il ruolo svolto in Italia da Mani Pulite ed Antonio Di Pietro, l’uomo simbolo del pool di Milano, il “nuovo” che scaccia il marciume della Prima Repubblica e, per un certo periodo, anche il volto più promettente della politica italiana, è svolto in Brasile dal giudice federale Sergio Moro e dalla sua Operação Lava Jato (Operazione Autolavaggio): come Di Pietro riceveva istruzioni dal console americano Peter Semler14 e durante i suoi frequenti (e misteriosi) viaggi negli Stati Uniti15, così Sergio Moro, l’artefice dell’inchiesta che sta sconquassando il Brasile, è stato formato alla Harvard Law School e dai programmi di studio finanziati dalDipartimento di Stato americano16. Ieri Antonio Di Pietro, e oggi Sergio Moro, attuano quindi con le loro inchieste una precisa agenda politica, quella statunitense.
Il culmine della campagna condotta dal giudice Sergio Moro contro il Partido dos Trabalhadores e la presidenza di Dilma Rousseff coincide con la fulminea detenzione dell’ex-presidente Lula: il 4 marzo la polizia federale perquisisce il suo appartamento e lo sottopone a tre ore di interrogatorio nell’ambito del nuovo filone dell’operazione Lava Jato, secondo cui l’ex-leader del PT avrebbe ricevuto fondi dalla Petrobas per finanziare la propria campagna elettorale17. Si noti che gli inquirenti non formulano ufficialmente nessuna accusa a carico di Lula, sottoposto soltanto all’umiliante (ed evitabile) accompagnamento coatto davanti ai magistrati. La tensione nel Paese comincia così a crescere, si registrano disordini davanti all’abitazione di Lula e Dilma Rousseff è costretta a convocare una riunione d’emergenza dei ministri per valutare i risvolti politici: in cambio, i mercati finanziari brindano al fermo di Lula, con il real che tocca il massimo da sei mesi contro il dollaro (18).
Come avrà intuito il lettore giunto a questo punto dell’analisi e come hanno intuito, a maggior ragione, i protagonisti del racconto, siamo nel mezzo di un’operazione che non va per il sottile pur di eliminare politicamente i vertici del PT. Dilma Rousseff corre quindi ai ripari, nominando l’ex-presidente Lula Ministro-Chefe da Casa Civil, ricreando l’assetto, a parti invertite, con cui i due esordirono alla guida del Paese: in questo modo Lula è sottratto alla giustizia ordinaria e sottoponibile ad indagine soltanto da parte delTribunale supremo federale (il Parlamento italiano, sull’onda di Mani pulite, commette invece il proprio suicidio modificando nel 1993 l’art.68 della costituzione ed eliminando l’autorizzazione a procedere per i procedimenti penali). La reazione alla mossa della Rousseff non si fa attendere: un giudice federale, aggravando ulteriormente la crisi istituzionale, sospende la nomina di Lula a ministro, mentre il “Di Pietro carioca”, il giudice Sergio Moro, si premura di diffondere l’intercettazione telefonica19 in cui la Roussef e Lula concordano l’investitura dell’ex-presidente a ministro.
Il tempismo di Sergio Moro è perfetto: scegliendo di divulgare la comunicazione telefonica il 16 marzo, la sera prima del giuramento di Lula, (adducendo come pretesto il dovere di informare l’opinione pubblica), il giudice federale esacerba ulteriormente il clima in Parlamento e nelle piazze delle maggiori città, gremite di detrattori e sostenitori di Lula. Già la domenica precedente il Brasile era stato teatro di imponenti manifestazioni (un milione di cittadini scesi in piazza su una popolazione di 200 mln20) che inneggiando a Sergio Moro ed all’Operação Lava Jato, avevano invocato le dimissioni di Dilma Rousseff: a farsi carico dell’aspetto meno giudiziario e più “Euromaidan” del colpo di Stato sono le chiese evangeliche, da sempre cavallo di Troia angloamericano (e già sostenitrici della candidata ambientalista Marina Silva, tanto caro alla finanza anglofona). In particolare si distinguono nelle manifestazioni contro l’esecutivo (21) il telepredicatore Silas Malafaia, carismatico leader dalla chiesa pentecostale Assembleia de Deus Vitória em Cristo e proprietario di un impero stimato attorno ai 150 $mln ed Edir Macedo, fondatore dell’Igreja Universal do Reino de Deus, nonché padrone di una fortuna da 950$ tra Brasile e Stati Uniti (22).
La tensione politica in Brasile raggiunge il livello di guardia: sia Dilma Rousseff (“In Brasile abbiamo già avuto golpe militari. In un sistema democratico, i golpe cambiano metodo. E un impeachment senza basi legali è un golpe. Rompe l’ordine democratico, per questo è pericoloso”23) che l’ex-presidente Lula (“Quello a cui stiamo assistendo è il tentativo di bloccare il mandato della presidente Dilma Rousseff grazie a un colpo di Stato, il cui solo obiettivo è di natura politica”24) parlano ormai apertamente di colpo di Stato.
Certo, rispetto al 1964 nessuna portaerei statunitense incrocia davanti alla coste brasiliane; ma in tempi di rivoluzioni colorate sono le copertine dei giornali da monitorare più della posizione della IV flotta. Il 26 marzo il settimanale The Economist, controllato dalle famiglie Rothschild, Schroder ed Agnelli-Elkann, esce con il titolo “Time to go” sovrastante la foto di Dilma Rouseff. L’articolo, ignorando i risultati conseguiti nell’ultimo decennio dal Partido dos Trabalhadores nella lotta alla povertà, è un attacco frontale contro l’esperienza di governo di Lula e della Rouseff, di cui le oligarchie finanziarie anglofone chiedono l’immediata cacciata, con toni quasi mafiosi:
“Dilma Rousseff’s difficulties have been deepening for months. The massive scandal surrounding Petrobras, the state-controlled oil giant of which she was once chairman, has implicated some of the people closest to her. She presides over an economy suffering its worst recession since the 1930s, largely because of mistakes she made during her first term. (…) This newspaper has long argued that either the judicial system or voters—not self-serving politicians trying to impeach her—should decide the president’s fate. (…) The quickest and best way for Ms Rousseff to leave the Planalto would be for her to resign before being pushed out. (…) Both the Petrobras scandal and the economic crash have their origins in misconceived laws and practices that are decades old. (…) Those chanting “Fora Dilma!” on the streets would claim victory if she was ousted. But for Brazil itself to win it would be just the first step.
Si arriva così agli sviluppi degli ultimi giorni: il 28 marzo il Partido do Movimento Democrático Brasileiro esce definitivamente dal governo, obbligando la Rousseff ad un rimpasto. Lo stesso giorno, mentre le piazze sono gremite di sostenitori del PT, il Tribunale supremo federale cancella la sospensione dalla nomina di Lula a Ministro-chefe da Casa Civil, sottraendolo così all’inchiesta del giudice Sergio Moro ed ai suoi metodi molto spicci, simili alla carcerazione preventiva usata nell’inchiesta Mani pulite.25.
Raggiungerà il suo obbiettivo la procedura di impeachment contro Dilma Rousseff, basata, ricordiamolo, soltanto sui rilievi della Corte dei Conti? Oppure il giudice Sergio Moro tenterà di infangare anche lei con lo scandalo Petrobas? O, possibilità da non escludere, si assisterà come a Kiev nel febbraio del 2014all’esplosione della violenza per rovesciare l’esecutivo?
Quel che è certo è che dal Brasile all’Ucraina, passando per la Siria e lo Yemen, si combatte la stessa guerra: come negli anni ’70 le oligarchie atlantiche appiccano incendi a scala globale, con l’aggravante che il loro affanno sempre maggiore le rende ancora più pericolose.
Fonte: http://federicodezzani.altervista.org/rivoluzione-colorata-a-ritmo-di-samba/
Vedi l'articolo del 2013: