“Solo la fede cristiana ci consente di guardare ancora con un filo di speranza al futuro della Siria.” Queste le parole di Georges Abou Khazen, francescano della Custodia di Terra Santa e vicario apostolico di Aleppo, secondo il quale la guerra in Siria non è necessariamente finita con l'accordo siglato a settembre a Sochi fra il presidente turco Recep Tayyp Erdogan e Vladimir Putin. Un accordo, o forse solo una tregua, che ha temporaneamente decretato un cessate il fuoco nella provincia di Idlib, ultima roccaforte dei jihadisti fuggiti dalle zone liberate dall'esercito di Bashar al Assad. Oltre 70.000, secondo le stime ufficiali, 10.000 dei quali definiti senza mezzi termini “terroristi” da Staffan de Mistura, l'inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria che a fine novembre ha rimesso il suo mandato.
“Sono tutti terroristi” precisa monsignor Abou Khazen, “e provengono da ben 85 paesi diversi.” Mercenari stranieri quindi, i forzati di una jihad preposta a “cavallo di Troia” dalle grandi potenze internazionali (USA, Francia e Gran Bretagna) e assoldati direttamente da quelle regionali (Turchia, Arabia Saudita e Qatar) per smembrare la Siria e spartirsene le spoglie. Non una guerra fratricida dunque, ma una guerra per procura!
In novembre monsignor Abou Khazen era a Milano per presentare un coraggioso progetto sostenuto dall'associazione Pro Terra Sancta: un piano di assistenza ai bambini-ombra di Aleppo, frutti reietti degli stupri di guerra ai quali non è stato dato nemmeno un nome. Il progetto, non a caso “Un Nome e Un Futuro”, prevede il recupero psicologico-sociale e l'affidamento a famiglie locali (l'adozione non è contemplata dall'Islam) di circa 2.000 bambini traumatizzati oltre l'immaginabile dagli orrori della guerra.
Vagano per le strade senza meta, facili prede di jihadisti che li iniziano al terrorismo o li rapiscono per destinarli alla macabra tratta degli organi umani: un mercato nero in espansione nella provincia di Idlib, dove oltre 2 milioni e mezzo di abitanti sono ostaggi di decine di migliaia di miliziani di al Nusra, la versione locale di al Qaeda oggi nota come Hayat Tahrir al Sham, di fazioni affini e di cellule dormienti dell'Isis.
E va da sé che un'offensiva finale dell'Esercito arabo siriano e dell'aviazione russa sull'ultimo bastione jihadista del paese darebbe vita a un'emergenza umanitaria, da sempre inevitabile conseguenza dei bombardamenti sui centri urbani.
Era già successo a Raqqa nell'ottobre del 2017, l'ex capitale siriana dello Stato Islamico dove i raid della coalizione a guida statunitense avevano ridotto la città a un cumulo di macerie. Ed era successo a Mosul, roccaforte irachena dell'Isis, dove il solo bombardamento americano del 17 marzo 2016 sul sobborgo di al Jadida aveva lasciato 150 cadaveri sul terreno.
Nel complesso dai 9.000 agli 11.000
i civili uccisi nell'assedio di Mosul, incalcolabile il numero di feriti e mutilati e 900.000 i profughi di una città originariamente di un milione e mezzo di abitanti: una realtà sulla quale era calata la scure del silenzio della stampa mainstream, la stessa che si era invece scatenata a dismisura nel contesto dell'offensiva governativa siriana su Aleppo Est. Ma ormai si sa: “Quod licet Iovi non licet bovi”!
Commentava al riguardo Patrick Cockburn sul quotidiano britannico The Independent:
“Paragonate la copertura mediatica di Mosul a quella di Aleppo Est, e avrete un'idea della propaganda che consumiamo.”
Già… Aleppo, la città di monsignor Georges Abou Khazen, la stessa che nel 2012 era stata presa in ostaggio dai jihadisti arrivati dalla Turchia. Destinata a diventare la capitale del Califfato, era stata divisa in due settori: la parte occidentale sotto il controllo governativo e quella orientale sotto quello di formazioni salafite quali Ahrar al Sham e Jabhat Fateh al Sham, nient'altro che la nuova sigla con la quale all'epoca al Nusra/al Qaeda intendeva rifarsi il look.
E non vi è dubbio che l'offensiva russo-siriana per liberare Aleppo Est avesse mietuto vittime a migliaia. Lo aveva denunciato lo stesso Cremlino, sceso direttamente in campo nel settembre 2015 in appoggio all'alleato siriano. A più riprese aveva concesso tregue e aperto corridoi umanitari per consentire l'evacuazione da Aleppo Est dei civili che i 'ribelli' tenevano in ostaggio. Ma i loro cecchini sparavano su chiunque tentasse di fuggire e ogni tregua consentiva ai taglia-gole di rifornirsi di uomini, armi e munizioni. Per questo è difficile accertare chi ha ucciso chi ad Aleppo.
Ciò nonostante la stampa mainstream gridava a una catastrofe umanitaria imputabile a Mosca e Damasco, ma curiosamente si concentrava solo sul settore orientale della città. Quasi nessuno raccontava la tragedia di Aleppo Ovest: un milione e mezzo di abitanti sotto il tiro incessante dell'artiglieria jiadista che martellava da Aleppo Est. Ecco allora al riguardo la denuncia di Joseph Tobji, arcivescovo della Chiesa cattolico-maronita di Aleppo, alla Commissione Esteri del Senato italiano nel settembre 2016:
“Sulla Siria i media internazionali calpestano la verità… Io posso testimoniare che per la popolazione che vive ad Aleppo Ovest, dov'è concentrata la stragrande maggioranza dei civili, l'intervento russo è stato accolto con sollievo, perché ha rarefatto i lanci dell'artiglieria… Ogni giorno piangiamo i nostri morti, che evidentemente non fanno notizia come i morti altrui…”
L'arcivescovo Tobji cercava invano di presentare al mondo l'altra faccia della medaglia, quella che mostrava le centinaia di bambini feriti, mutilati e uccisi di Aleppo Ovest, gli stessi che contavano meno di niente per la stampa occidentale, un'arma psicologica strumentale alla fabbrica del consenso e funzionale a un progetto geopolitico pianificato almeno 10 anni prima a tavolino.
Già nel 2006, infatti, l'ambasciatore a Damasco William Roebuck aveva relazionato Washington sui punti di debolezza di Bashar al Assad, da lui presentati come elementi di instabilità da sfruttare per destabilizzare il paese col sostegno dell'Arabia Saudita.
E fra il 2005 e il 2010, ben prima quindi dell'inizio della così detta 'spontanea' rivolta, il Dipartimento di Stato aveva finanziato l'opposizione siriana con 12 milioni di dollari tramite un programma noto come “Middle East Partnership Initiative” (Mepi).
Erano passati oltre 10 anni, ma la Siria contro ogni pronostico resisteva a dispetto della guerra mediatica e del sostegno internazionale alla jihad. L'intervento russo, avvenuto entro i limiti del diritto internazionale in quanto espressamente richiesto dal governo di un paese alleato, aveva infatti fornito una formidabile aviazione all'Esercito arabo siriano, che a fine 2016 riusciva a liberare anche Aleppo Est: una vittoria naturalmente non celebrata dalla stampa mainstream. Oscurate le immagini che immortalavano gli abitanti festanti che inneggiavano alla liberazione con canti e balli nelle piazze. E quelle dei cristiani, che dopo cinque anni per la prima volta festeggiavano il Natale, affiancati dagli amici musulmani. Spenti i riflettori sulle fosse comuni rinvenute dopo il ritiro dei ribelli “moderati” sostenuti dall'Occidente: al loro interno cadaveri smembrati, mutilati e torturati sui quali calava impietoso il velo del silenzio…
Forte del sostegno russo, in pochi mesi l'Esercito siriano era riuscito a decimare i jihadisti più di quanto non avessero fatto in oltre un anno le forze della coalizione a guida americana, più interessate a liquidare Bashar al Assad che non il Califfo Abu Bakr al Baghdadi. Illuminante in merito il commento di Robert Fisk sul The Independent nel contesto della prima riconquista di Palmira da parte di Damasco:
“Non ho potuto non sorridere leggendo che il comando americano rivendicava di aver lanciato due attacchi contro l'Isis nei dintorni di Palmira nei giorni precedenti la sua riconquista da parte del regime siriano. E questo è tutto quello che devi sapere circa la ‘guerra al terrorismo’ americana. Loro vogliono distruggere l'Isis, ma non troppo.”
E riprove al riguardo purtroppo non avrebbero tardato.
Nel bel mezzo dell'offensiva governativa del settembre 2016 per la riconquista di Deir Ezzor, città martire per anni sotto assedio, città simbolo della resistenza siriana a Daesh all'epoca parzialmente sotto il controllo dello Stato Islamico, l'aviazione americana bombardava il campo base dell'esercito siriano, e non quello dell'Isis: un intervento che uccideva un centinaio di militari, ne feriva altrettanti e consentiva ai jihadisti di contrattaccare, riconquistando la postazione e avvicinandosi pericolosamente all'aeroporto.
“Un errore”, secondo il Comando centrale degli Stati Uniti. Non ci ha creduto nessuno! Denunciava ancora monsignor Georges Abou Khazen:
“Quel raid aereo che ha ammazzato i soldati sembra confermare le ambiguità americane sullo scenario siriano, e anche i sospetti di chi sostiene che gli Stati Uniti abbiano creato lo Stato Islamico e lo stiano usando. Con tutti gli strumenti e le armi intelligenti di cui dispongono, quel raid aereo non può essere stato un incidente, visto che quella caserma non era lì da ieri.”
L'esercito siriano avrebbe proseguito comunque la sua avanzata, riconquistando postazione su postazione: dalla Ghouta orientale alla provincia di Daraa, da Aleppo a Deir Ezzor, la “Stalingrado siriana” lungo le sponde dell'Eufrate. E avanzando aveva forzato i ribelli alla ritirata verso il governatorato di Idlib, ultima vasta roccaforte jihadista sulla quale veniva data per imminente l'offensiva militare finale di Damasco.
Ed ecco che il tam-tam mediatico 'preventivo' (sic), lo stesso che aveva taciuto su Raqqa e Mosul, già presagiva una “apocalisse umanitaria” che dava per scontata, conseguenza dell'altrettanto data per scontata imminente offensiva governativa: “apocalisse” da addossare a Bashar al Assad per giustificare un intervento militare dell'Occidente, l'unico in grado di scongiurare la definitiva disfatta dei jihadisti sul campo di battaglia. In sintesi, la solita strumentale strategia di demonizzazione del presidente siriano…
Ci avevano già provato accusandolo di aver gasato la sua stessa gente: accusa che non aveva retto alla verifica dei fatti, che indicavano piuttosto nei ribelli i responsabili degli attacchi. Operazioni dunque “false-flag”, preposte a spingere all'azione l'Occidente.
Poi, il 24 novembre, una pioggia di ordigni al cloro si abbatteva su Aleppo: un attacco lanciato dal Idlib, che non poteva pertanto essere addebitato ad Assad. Ma queste immagini di uomini, donne e bambini in preda a crisi di asfissia non facevano il giro del mondo, e non si levava il rombo dei tamburi. Su tutto calava invece un silenzio assordante!
Aveva peraltro già commentato il giornalista e autore americano Stephen Kinzer:
“La copertura della guerra in Siria sarà ricordata come uno degli episodi più vergognosi della storia della stampa americana…”
Ed ora, in assenza di attacchi chimici inscenati dai jihadisti stessi “sotto falsa bandiera”, anche una “apocalisse umanitaria” avrebbe potuto e dovuto bastare a giustificare una pioggia di missili Tomahawk sulla Siria. Se solo fosse arrivata l'offensiva… che però sembrava tardare.
Arrivava invece a sorpresa il già citato accordo di Sochi fra Vladimir Putin e Recep Tayyp Erdogan: un compromesso, forse solo una tregua, che smilitarizzava una fascia di 15/20 chilometri nel governatorato e creava una zona cuscinetto interposta fra i due fronti e pattugliata da militari russi e turchi. Un accordo che ha temporaneamente scongiurato una crisi umanitaria, ma non ha risolto il problema della provincia di Idlib, che confina direttamente con quella turca di Hatay, terminale di quella “autostrada della jihad” che per otto anni ha alimentato il conflitto siriano.
È l'ultima vasta zona che ancora sfugge al controllo di Damasco, fatta eccezione per le aree a Est dell'Eufrate controllate dalle milizie curde del Sdf (Syrian Democratic Forces), coalizione sostenuta (per ora) da Washington e attiva in una zona ricca di giacimenti petroliferi: un'area dove, non a caso, si sono attestati gli americani con le loro basi, in aperta violazione dei trattati internazionali. La posta in gioco è dunque ancora una volta il petrolio.
Difficile ipotizzare in un simile contesto se e quanto possa tenere l'accordo di Sochi su Idlib, che in realtà ha solo congelato il conflitto. Troppe le incognite!
Rinuncerà Erdogan al suo progetto neo-ottomano? Rinuncerà l'Occidente all'ennesimo intervento geopolitico di “regime-change” per liquidre Bashar al Assad, smembrare l'ultimo bastione di secolarismo della regione e imporre su di essa il suo controllo? Deporranno davvero le armi i terroristi e lasceranno il paese? Ma davvero la loro sconfitta e dipartita coincide con gli interessi delle cancellerie occidentali, delle potenze regionali (Turchia, Arabia Saudita, Israele e Qatar) e con gli appetiti neo-coloniali di Parigi e Londra?
Va infatti da sé che, finché i tagliagole resteranno in Siria, anche turchi e alleati rivendicheranno pretestuosamente il diritto di restare. Ma fino a quando sarà possibile lasciare l'intero governatorato di Idlib nelle mani dei terroristi? Quale Stato accetterebbe una simile situazione? Quanto a lungo reggerà una popolazione già sottoposta a vessazioni di ogni tipo, fra cui esecuzioni sommarie e rapimenti finalizzati alla tratta di organi umani? Parliamo di adulti e di minori, le cui sparizioni sono stimate da Asianews
nell'ordine di un bambino al giorno. Secondo Hussein Noufel, direttore dell'ufficio di medicina legale siriano, dall'inizio del conflitto gli organi di oltre 15.000 siriani sono stati contrabbandati al mercato nero.
È questa peraltro solo una delle tante piaghe della martoriata Siria al suo ottavo anno di guerra: centinaia di migliaia i morti, milioni fra feriti e mutilati, incalcolabile il numero di civili e militari svaniti nel nulla, metà della popolazione profuga in terra altrui…
È l'eredita di uno sporco gioco geopolitico iniziato nel 2011, quando anche in Siria approdava la così detta “primavera araba”, solo un slogan inventato probabilmente a Washington o Bruxelles per mistificare un ennesimo intervento di 'regime-change', un'aggressione militare funzionale al nuovo “Grande Gioco” per il controllo delle risorse energetiche. Un programma di ingegneria geopolitica preposto a smembrare i vari paesi e a cancellare dalle mappe geografiche il Medio Oriente così come nel 1916 lo aveva disegnato l'accordo Sykes-Picot. Una tragedia annunciata già nel 2007 da Wesley Clark, generale a quattro stelle americano e comandante supremo della Nato:
“Dopo l'11 settembre il controllo di questo paese è stato assunto da un gruppo di ben noti individui… vogliono destabilizzare il Medio Oriente, stravolgerlo e assumerne il controllo… Non vedono l'ora di farla finita con l'Iraq per iniziare con la Siria.”
Avrebbero iniziato nel 2011, quando la protesta siriana veniva dirottata da forze che avevano un'agenda che andava ben oltre le legittime aspirazioni di chi chiedeva riforme, e non rivoluzione e jihad. Illuminante al riguardo un rapporto del maggio 2011, fase assolutamente iniziale della rivolta, dell'International Crisis Group, organizzazione decisamente atlantista… Eppure:
“Vi sono rapporti plausibili di forze di sicurezza (siriane) rimaste vittime di imboscate… e di dimostranti che sparavano se attaccati…”
Dimostranti che sparavano se attaccati…??? Avete mai visto manifestanti 'pacifici' con AK-47 a tracolla?
E la Siria diventava teatro di micro e macro conflitti fra islamici secolari e islamisti/jihadisti di ispirazione wahabita (espressione più radicale dell'Islam). Diventava terreno di scontro fra l'Arabia Saudita sunnita (wahabita) e l'Iran sciita nel contesto dell'annoso contenzioso per la leadership regionale: un'arena sul cui sfondo si stagliava minacciosa l'ombra delle superpotenze. Diventava insomma il palcoscenico della più pericolosa proxy-war del nuovo millennio: un paese dilaniato non da proteste o insurrezioni, ma invaso da orde jihadiste.
Scriveva Yossef Bodansky, direttore della task-force del congresso americano su terrorismo e guerra non convenzionale:
“Ciò che il regime di Assad fronteggia, è una ben organizzata e finanziata sommossa islamista e jihadista… Dozzine di civili alawiti vengono sequestrati, barbaramente uccisi e mutilati… a metà luglio (2011) 1.200 membri delle forze armate governative erano già stati uccisi…”
Non una “primavera araba” dunque, ma un gelido inverno islamista sul quale soffiava impetuoso il tifone della jihad, l'ariete di sfondamento del conflitto: il “Cavallo di Troia”, come definito da monsignor Abou Khazen. Ed era un tifone alimentato fin dall'inizio dall'esterno!
Nel 2011 era entrato in azione il consolato americano di Bengasi (Libia). Era in realtà un finto consolato preposto a copertura delle attività di una palazzina adiacente, un edificio che ospitava un distaccamento della CIA assegnato a una missione top-secret: il trasferimento dell'arsenale libico sottratto a Muammar Gheddafi ai ribelli siriani attraverso un corridoio che transitava per la Turchia. Il tutto con la supervisione del Dipartimento di Stato, all'epoca diretto da Hillary Clinton, e sotto la diretta gestione di agenti della CIA, alcuni dei quali assegnati a operazioni di smistamento armi nel Sud della Turchia. Ma anche la Nato era coinvolta direttamente.
Rivelava l'ex agente della CIA Philip Giraldi già nel 2011:
“Aerei Nato privi di identificazione atterravano alla base militare turca nei pressi di Iskenderum, sul confine siriano… Trasportavano armi provenienti dall'arsenale libico e volontari.”
E poi c'erano i C-130 della Royal Saudi Air Force. Atterravano all'aeroporto di Esenboga, nei pressi di Ankara, dove incrociavano i cargo giordani. E c'erano i C-17 che provenivano da Al Udeid, base militare aerea del Qatar e quartier generale del Comando centrale (Centcom) degli Stati Uniti. E così via…
Questo è insomma ciò che la stampa mainstream presentava come “spontanea” rivolta di “pacifici” dimostranti. Era invece un massiccio sforzo internazionale contro un piccolo paese che non disturbava nessuno, ma nascondeva un tesoro nel sottosuolo e lungo le sue coste.
Nell'agosto del 2011 il governo siriano aveva ufficializzato la scoperta di un vasto giacimento di gas a Qarah, cittadina sulla strada per Homs e teatro di uno dei più brutali massacri dell'Isis. Già! Guarda caso… perché da un rapido sguardo alle mappe emerge quanto sorprendentemente le rotte di gasdotti e oleodotti coincidano con quelle della jihad!
La Siria si affaccia inoltre su un tratto del Mediterraneo orientale, il così detto Bacino del Levante, i cui fondali nascondono enormi giacimenti di gas e petrolio. È inoltre sulla rotta dei corridoi energetici che la collegano al golfo persico, a sua volta immensa riserva gasifera collocata esattamente fra Iran e Qatar.
Ed è in questo contesto che nel 2009 il Qatar proponeva a Bashar al Assad un accordo per la costruzione di un gasdotto preposto a convogliare sull'Europa il gas del North Dome, com'è conosciuta la parte del giacimento di spettanza del Qatar: un 'corridoio sunnita' che, previsto transitare attraverso Arabia Saudita, Giordania e Turchia, aveva l'appoggio di Washington. Ma doveva necessariamente transitare anche per la Siria!
Fedele alleato di Mosca e Teheran, Assad rifiutava e nel luglio del 2011 annunciava invece il suo sostegno a un gasdotto alternativo, un 'corridoio sciita' programmato per convogliare verso il Mediterraneo il gas del South Pars, la parte di spettanza iraniana del giacimento che si stima contenga riserve per 14 trilioni di metri cubici di gas. Si tratterebbe di un corridoio che da Porth Assaluyeh raggiungerebbe Damasco attraverso Iran e Iraq, per poi estendersi fino al Libano. Per l'appunto… un corridoio sciita!
E va da sé che con Bashar al Assad al potere il corridoio sunnita non avrebbe avuto un futuro. Da qui la necessità di eliminarlo e sostituirlo con un fantoccio simpatetico agli interessi di Riad e dei suoi alleati a Washington e Bruxelles. Altro che “primavera araba”!
Ed ecco perché la posta in palio è così alta. Chi controlla la Siria, controlla le risorse energetiche del Mediterraneo e del Golfo e, come già intuito da Caterina la Grande, possiede anche “le chiavi per la Casa Russia.”
Note:
1. Mia intervista a monsignor Georges Abou Khazen, Milano, 5 novembre 2018
2. La stima è di Associated Press (AP), 20 dicembre 2017
3. Patrick Cockburn, Compare the coverage of Mosul and Aleppo Est and it tells you a lot about the propaganda we consume, The Independent, 21 ottobre 2016.
4. Da un cable del 13 dicembre 2006 rilasciato da Wikileaks: Public Library of US diplomacy. Si veda anche Seymour Hersh: Military to Military, London Review of Books, gennaio 2016
5. Da un cable del 28 aprile 2009 per il Dipartimento di Stato. Esposto da Craig Whitelock sul Washington Post il 17 aprile 2011.
6. Robert Fisk, Why is David Cameron so silent on the recapture of Palmyra from the clutches of Isis, The Independent, 27 marzo 2016.
7. In Siria nessuno crede alla strage compiuta per errore dagli americani, Tempi, 19 settembre 2016.
8. Così definita dal Huffington Post, che il 5 settembre 2018 titolava: “Idlib, l’apocalisse umanitaria alle porte”.
9. Stephen Kinzer, The media are misleading the public on Syria, 18 febbraio 2016
10. Asianews, Idlib: bambini rapiti per traffici di organi. Il nuovo busness dei jihadisti, 16 novembre 2016.
11. Global Research, Body organs of over 15.000 Syrians sold in six years: Coroner’s Office
12. Intervento del 3 ottobre al Commonwealth Club di California.
13. International Crisis Group, Syria: quickly going beyond the point of no return, 3 maggio 2011.
14. Yossef Bodansky, A Heretic’s Musing on Syria in lieu of Libya, Institute fuer Strategic, Politik, Sicherheit und Wirtschaftsberatung (Ispsw), agosto 2011.
15. Philip Giraldi, Nato clandestinely engaded in Syrian conflict, The american Conservative, 19 dicembre 2011.
Germana Leoni von Dohnanyi, reporter dal Sud-est asiatico per Il Giornale di Indro Montanelli e, dopo l’abbandono del direttore, per L’Indipendente. Ha collaborato con settimanali quali Panorama e Il Borghese, con la radio tedesca “Westdeutscher Rundfunk”, col periodico tedesco Greenpeace Magazine (Amburgo) e con La Voce del Ribelle di Massimo Fini. È co-autrice di Schmutzige Geschaefte
und Heiliger Krieg (Pendo Verlag); Somalia (Editori Riuniti). È autrice di Bush and Bush (Editori Riuniti); Rapporto Medusa (Mursia Editore); Lo Stato Profondo (Imprimatur Editore).
(Questo articolo è stato originariamente pubblicato su NEXUS New Times nr. 136, dicembre 2018-gennaio 2019)