Estratto dal libro: L’Uomo alla Luce delle Cosmogonie Arcaiche
Uno, Assoluto, Ineffabile: con diversi nomi la Tradizione d’Occidente e d’Oriente ha indicato la suprema istanza spirituale, la quale, pur non essendo toccata dal mondo fenomenico, è di esso causa.
L’India ha dato una descrizione di ciò in diversi modi: uno di questi è quello usato dal sistema filosofico del SÄį¹khya, il quale vede in gioco Purusha – lo Spirito, e Prakriti – la Natura ovvero il mondo del divenire con tutte le sue trasformazioni. Con il termine Purusha è da intendersi sia lo Spirito o Fuoco universale, sia le anime individuali che sono parte di questo Fuoco – come fiamme che da esso divampano. Esso è il fermo principio maschile, l’Uomo cosmico, sacrificato, smembrato alla stregua dei giganti delle tradizioni nordeuropee (1), smembrati per dare vita al mondo: le anime individuali sono “incendiate” da esso e lo portano in grembo. Questo Fuoco universale, per quanto sia incarnato da ogni individuo, non è toccato dalle cose terrene, non soffre, non gioisce: l’unica cosa che fa è esperienza di qualcosa di opposto a lui, per quanto tale esperienza non possa in alcun modo cangiarlo. Chi “gode” del mondo, infatti, è Prakriti, la quale è il mondo stesso, la materia mater, la femmina che “fecondata” dal Purusha incomincia ad agitarsi innescando la creazione ed involuzione del mondo in una cascata discendente che dalle dimensioni sottili ed intangibili diventa sempre più grossolana e pesante. Si immagini questa emanazione in senso ontologico, come qualcosa sempre in atto, qui, adesso, come una rappresentazione degli strati di materia che si muovono e compenetrano sempre e all’unisono. La prima emanazione proveniente da Prakriti che va a comporre il composto umano è buddhi, l’intelletto superiore. Questa descrizione necessita un’immediata precisazione: ciò che ordinariamente viene chiamata “mente” può essere divisa in due parti o funzioni ben distinte; tali facoltà, hanno conosciuto in India il nome di buddhi e manas, in Grecia il nome di Nous e Logos, nel mondo romano quello di intellectus e ratio, ovvero intelletto e ragione. Al giorno d’oggi è sovente confondere e mischiare l’intelletto con la ragione ma esse hanno valenze alquanto distinte, che tra poco vedremo (2). La ragione – o manas, o mente logico-discorsiva – funziona in maniera binaria, consecutiva ed associativa: non ha la possibilità di captare nulla di nuovo rispetto a quanto già conosce, può solamente elaborare dati in maniera meccanica, come un computer. Spesso il pensiero razionale ha il suo fondamento nell’istinto: i cosiddetti pensieri sono il riflesso cerebrale di pulsioni e stimoli provenienti dal mondo emotivo-istintivo. Il Nous, l’intelletto, è invece quella parte della mente che potrebbe dirsi “sottile”, sovra-razionale, intuitiva, slegata dall’istinto e a diretto contatto con il mondo dello Spirito. Questa ipostasi che il SÄį¹khya indiano chiama buddhi, per quanto sia parte della Natura (Prakriti), sarebbe, nella composizione umana, la parte più sottile e rarefatta di essa, tanto da riuscire a riflettere – quasi ne fosse impressa – il Principio, ad intuire l’Essere Primo senza volto (3). L’intuizione, prerogativa dell’intelletto, è il punto di passaggio tra la sfera umana e quella divina, è il mezzo per cogliere le verità sempiterne che non possono essere afferrate dalla ragione: quest’ultima potrà elaborare, successivamente, quanto l’intuito ha afferrato.
La dimensione del puro spirito è qualcosa di totalmente altro rispetto al mondo della logica e della ragione: ciò che proviene da quel mondo si palesa a noi primariamente con lampi fugaci, bagliori e folgori intellettive che bisognerà addestrarsi a cogliere – come si volesse ricordare la totalità di un complesso paesaggio che sia stato illuminato soltanto per brevi frazioni di secondo da un fulmine: è il lampo di genio, il suggerimento sussurrato alla coscienza dal proprio Nume, essendo il genius, per la religione romana, il Nume o divinità tutelare posto a custodia di ogni individuo – figura che si trasformerà nell’“angelo custode” del Cristianesimo. Il Nume, ovvero la divinità potenziale in sé – la quale è attività per il proprio livello d’essere e potenzialità da incarnare per il livello umano – suggerisce all’animo umano nei modi più bizzarri e lontani dal pensiero ordinario: sta all’umana intelligenza cogliere quelle impressioni ed elaborarle nel contingente.
Ciò che chiamiamo essere umano è composto sostanzialmente di tre parti: corpo, anima, spirito. Queste parti presiedono alle principali facoltà umane ovvero l’istinto, la sensibilità e l’intelligenza (sarà ormai chiaro non si debba confondere quest’ultima con la ragione, la quale, aggiungiamo, può essere governata da ognuna delle tre, capace di procedere logicamente senza errore sia che venga stimolata dall’istinto, dalla sensibilità o dall’Intelligenza). Queste tre facoltà sono tenute insieme da un quarto principio, che Fabre d’Olivet chiama volontà (4), e che muove le azioni umane in queste tre sfere. L’uomo ha la possibilità di muoversi verso la Verità o allontanarsi da essa: ciò viene fatto tramite la ragione, facoltà oggi troppo legata alla sensibilità e all’istinto e non al più alto grado delle possibilità umane (l’intelligenza): infatti se la ragione non viene guidata dall’intelligenza, porta ad errare. L’ispirazione noetica o pneumatica, è quel fattore estraneo al senso ordinario, che possa attivare l’intelligenza a guida della ragione verso il Bene e il Vero. Un ragionamento logico, formalmente corretto, muove secondo una linea retta: se si parte a ragionare da una base di errore che si crede vera, si giunge a dimostrare per vero qualcosa che è falso, senza commettere errori nel ragionamento; ciò implica che solo partendo dalla Verità si può giungere logicamente alla Verità e questo punto di partenza dev’essere dato da un moto dell’intelligenza che colga il Vero per ispirazione divina: mai ciò può provenire dalla ragione o dall’istinto. È per questo che la ragione di per sé, da Kant in poi eletta a vessillo del pensiero moderno, sventolata come bandiera durante il periodo dell’illuminismo (periodo che, a dispetto del nome, è stato portatore di oscuramento dei veri lumi dell’intelligenza e della Sapienza) fino al giorno d’oggi, non può che portare ad errori su errori. Tutti sono capaci di fare ragionamenti più o meno complessi e articolati ma pochissimi sono in grado di essere rischiarati dalla Luce intelligibile. La chiamiamo Luce non a caso, poiché essa è letteralmente luce spirituale che impressiona, nella camera oscura dell’animo umano, le parti di esso preposte a coglierla e ad esserne impresse, e la chiamiamo intelligibile perché può essere colta dall’intelletto ed elaborata da esso. Il carattere non-verbale, intimo ed intuitivo (5) di questa esperienza è essenziale per non confonderla con qualsiasi altra.
Questa Luce è il motore di ogni cosa: essa, per quanto UNA, e per quanto si dia allo stesso modo ai diversi esseri, viene colta in maniera diversa in base alle possibilità di ognuno, come rifratta da un caleidoscopio ovvero dalle singolarità umane: per tale motivo, ognuno ha un maestro interiore che è unico e che lo spingerà in direzioni diverse, magari addirittura opposte a quelle seguite da altri e tale guida interiore è questa Luce che si manifesta al proprio intelletto nelle maniere più intime, personali e segrete. È la “voce” del Dio occulto che mormora in silenzio al cuore degli uomini: non parla con parole e frasi ma addita la Verità e la Via da seguire, momento per momento, tramite intime certezze, bagliori di consapevolezza, orizzonti di comprensione averbale. Nessuna creatura può fare esperienza di ciò che sta oltre il proprio livello d’essere se non tramite ciò che è contiguo e media il proprio mondo con quello superiore, perciò l’uomo può intuire l’Uno quale fonte universale tramite il contatto col proprio Nume, che a propria volta è emanazione dell’Uno.
Le parole come sempre “additano”, e quando vogliano descrivere realtà superiori rischiano di confondere se le si prende soltanto alla lettera. Il Nume, o maestro interiore, o Sé, è questa Luce o Spirito Puro particolarizzato in un’identità individuale: è contemporaneamente il Purusha universale e lo spirito individuale di ogni individuo, che altro non vuol dire se non che la particolare, unica ed individuale forma (interiore ed esteriore) di ogni individuo, percepirà questo fuoco cosmico secondo le proprie possibilità ovvero secondo il compito assegnato a quella particolare essenza: l’Identità Suprema si riflette nelle singole identità individuali secondo modi e forme sempre diversi e uniche. Tutte queste rappresentazioni servono non a descrivere una realtà superiore a quella tangibile coi cinque sensi, bensì a lasciarla intuire: i miti e le parole della Tradizione Perenne servono per avvicinare la mente dell’uomo a quelle Verità che, non facendo parte del dominio della logica ordinaria, non possono essere descritte con parole ordinarie e sempre valide, non possono essere racchiuse in una forma compiuta e universale. La mente diabolica logico-razionale vuole spiegazioni precise, meccaniche, che abbiano il carattere della certezza logica, mentre il pensiero ermetico volto a raffinare l’intelligenza metterà la mente in stato di confusione, affinché essa possa uscire da rigidi schemi ed accogliere un Pensiero Vivente.
L’umano è abituato a ragionare secondo una logica bidimensionale molto limitante. Questa logica in realtà non è l’unica possibile, essendovi delle architetture del pensiero e della manifestazione dello Spirito sulla materia nel divenire, rispondenti ad una loro logica – “quintessenziata” rispetto a quella ordinaria – , a leggi che l’uomo allo stadio attuale riesce soltanto ad intuire ma non per questo non esistono o non hanno una loro precisione. Un cane che osservi un computer, non vedrà un computer, vedrà altro e non scorgerà il disegno, la progettualità e le leggi che hanno portato alla creazione di quell’oggetto, né ne potrà comprendere la funzione. Allo stesso modo l’uomo difficilmente scorge i disegni che muovono eventi, incontri ed accadimenti del quotidiano: può constatare a posteriori, tramite attenta osservazione, che essi sono un unico Disegno che prende forma nello spazio e nel tempo: il futuro prova il passato, ovvero negli accadimenti a venire si scorge il rivelarsi della trama ordita da sempre e dei cui segnali è stato disseminato il passato. Indizi, coincidenze, accadimenti del passato risulteranno essere, se presi in esame in futuro, i segni di un Destino già tracciato. Come è possibile ciò? Ciò è possibile poiché il mondo del divenire di cui gode l’uomo è l’attualizzazione di un’essenza causale già data, il cui dispiegamento nello spazio e nel tempo è come fosse una percezione dilatata, da parte dei sottomultipli dell’Essere, di ciò che esiste in sé e per sé in un’atemporalità cristallina, anche detta Eternità. Nell’Eternità è rinchiusa qualunque cosa si manifesti nello spazio e nel tempo, avendo le cose del divenire il proprio fondamento in quel punto non locale, che appare eternamente distante e ineffabile ma nel quale ogni essere è sito senza accorgersene. Esso è il luogo metafisico da cui può attingersi, per un atto noetico, la Conoscenza universale che ha pervaso il sapere tradizionale di ogni epoca.
In un luogo indefinito, fuori della percezione dello spazio ordinario, e in un “tempo” che sovrasta ogni linea temporale e abbraccia mondi e vite e fiumi di avvenimenti – "tempo" anche detto Eternità –, la parte più sottile della mente può estraniarsi dal mondo sensibile e materiale e captare lampi fugaci di quelle Verità che sovrastano ogni logica o ragione. La ratio, successivamente, può dar loro corpo, esplicarle dialetticamente, per quanto il loro carattere originario sia quello dell'impressione diretta e intuitiva – sovrarazionale e non-verbale. Ragione e logica – lo sottolineiamo un’ultima volta – non sono l’apice delle possibilità mentali o intellettive umane: oltre esse vi è appunto l’Intelligenza, facoltà noetica o intuitiva, che sovrasta le due precedenti e non è da confondersi con esse. Essa è il ponte sottilissimo tra il mondo grezzo e le sublimi altezze dello Spirito, è il pensiero mercuriale che lega l’Assoluto al contingente. La mente, nello stato naturale di ascolto e di quiete, è atta ad accogliere quella Luce Divina la cui percezione è preclusa dai tormenti della carne e dal tumulto mentale (6). Tale Luce, può "scendere" ad irradiare le umane facoltà, può essere "calamitata", così come può l'umano agguantarla innalzandosi con l'animo fino ad essa. L’immersione con la mente in questo infinito mare in cui ogni cosa è legata insieme con Amore e tutto il cosiddetto “passato”, “presente” e “futuro” coesiste simultaneamente (7), dalla Tradizione è detta illuminazione, ed essa è il primo – e non l’ultimo – gradino della Scala dei Sofi. Dante descrive tale esperienza nell’ultimo canto del Paradiso, laddove dice che l’esperienza è talmente intensa e lontana da quanto la mente e la memoria può trattenere, che nel rinsavirsi non ha parole per descriverla pienamente, né la sua memoria può portarla seco in tutta la sua grandezza, concetto che sottolineerà anche nell’ Epistola a Cangrande Della Scala. E ancora, descrivendo quel “punto” non locale e quindi potenzialmente sempre accessibile che è Dio, egli dice:
Nel suo profondo vidi che s’interna,
(8)
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume
Proclo, che fu un grande sapiente, sosteneva (9) che nella cascata discendente che dall’Uno promana fino ai regni più bassi della materia, ogni regno ha fondamento in quello a sé superiore e ciò che per chi viva in un regno (esempio: umani) è considerato infinito e illimitato – ovvero il reame a sé superiore (esempio: regno divino) – è invece esperito come finito e limitato per chi viva in quel regno medesimo. Il concetto è il seguente: chi dimora in un regno, ovvero fruisce della Vita ad un certo “grado d’essere”, percepisce infinito il regno superiore in cui è insita la propria causa. Un esempio faciliterà la comprensione di questo concetto. Si pensi ad una cellula del corpo umano: la sua coscienza esperirà l’ambiente in cui è immersa e da cui riceve innumerevoli impulsi e che è il proprio fondamento o mondo causale (corpo umano) come qualcosa di infinito, imperscrutabile ed illimitato, mentre per la percezione di un essere umano, quell’ambiente ha chiari limiti. Se la cellula dovesse per qualche momento amplificare la propria coscienza identificandosi con quella umana, vivrebbe l’esperienza di Dio per quello che è il suo grado d’essere: sarebbe per lei, per il suo livello nella scala degli esseri ovvero nelle particolarizzazioni percettive in cui si rifrange l’Uno, un’esperienza di illuminazione.
La vita di ognuno è un ritmo, una nota suonata nella melodia dell’esistenza che risponde a leggi e matematiche precise: la complessità di questo ritmo o Disegno può essere constata a posteriori e mentre esso si dispiega, essendo un reticolo di combinazioni troppo intricato per la mente dell’uomo medio che solca le strade del mondo moderno. Ogni vita è la messa in atto secondo tempo e spazio di una monade che esiste nella propria unità nell’Eternità: ciò che percepiamo secondo divenire è come la proiezione di un film già girato, il quale esiste atemporale nella “pellicola” come unità. A questo punto potrebbe sorgere la domanda: dov’è la libertà umana? È tutto scritto o esiste il libero arbitrio? La risposta, come sempre per quanto concerne le verità superiori, non può che essere paradossale: tutto è già scritto e contemporaneamente il libero arbitrio esiste. Tenteremo di mostrare una possibile risposta partendo da questa massima astrologica riportata da S. Tommaso d’Aquino: “astra inclinant sed non necessitant”, ovvero “gli astri inclinano ma non determinano”. Questa massima è un buon punto di partenza per intuire che, per quanto vi siano eventi che DEVONO accadere, all'essere umano è dato un certo grado di libertà. È una libertà d'azione molto relativa (relativa alla sua condizione, alle scelte fatte in passato ed alle proprie possibilità interiori) ma è comunque un grado di libertà che si inserisce in un meccanismo in parte prestabilito. Immaginate un ventaglio di scelte sulle quali l'essere umano è libero: in base alle scelte compiute, si chiudono strade e se ne aprono altre, si "muove" l'ingranaggio cosmico in un senso o nell'altro ma sempre nel rispetto di leggi deterministiche superiori e prestabilite. Una libertà assoluta per come potrebbe essere intesa oggi, non esiste. Esistono però possibilità di un numero finito e limitato che si danno all’essere umano: all’interno di queste possibilità egli può costruire il proprio destino. Tali possibilità, per quanto frutto della propria azione individuale, sono tutte già previste dal punto di vista del mondo spirituale che antecede quello umano, perciò vi è e non vi è, simultaneamente, libertà per l’agire umano. Se dal punto di vista umano il futuro può essere costruito, dal punto di vista universale il futuro è già scritto: le scelte umane sono come le vie che un fiume può percorrere per giungere al mare – per quanti percorsi diversi possa crearsi, giungerà laddove deve giungere. La più grande – e forse l’unica – libertà su cui ha potere l’uomo è la libertà su come vivere interiormente quanto il fato ha già predisposto: la libertà conosciuta in India come mokį¹£a, ovvero “liberazione” o “emancipazione”, è quello stato di totale accettazione del proprio Disegno, tale da non creare legami karmici con il mondo, per quanto si continui a vivere in esso e godere di esso. Il Jivanmukta, il “liberato in vita”, lungi dal rinunciare al mondo, vive e compie il proprio Destino consapevolmente, distaccandosi dai frutti della propria azione: (10) egli ha compreso che tutto è scritto ma nonostante ciò si impegna, come un fedele guerriero, a compiere quella volontà superiore per cui è stata concepita la propria incarnazione. Tale senso di distacco e insieme devozione nei confronti di un volere cosmico più grande delle volontà umane, è conosciuto in India con il termine bakthi. L’uomo “offre” la propria azione a Dio, a quel Sé superiore che alberga in lui così come in ogni altro essere e che ha già deciso ogni cosa di cui l’umano è un semplice esecutore. Il proverbio latino Omnes viae Romam ducunt (ovvero “tutte le strade portano a Roma”), non vuol forse dire, nel suo senso occulto, che qualunque via si prenda, essa conduce alla realizzazione del proprio Disegno? Non è un caso, credo, che ogni strada conduca proprio a Roma, il cui anagramma è Amor, e l’Amore è la forza motrice del cosmo (come rammenta Dante alla fine del suo Paradiso), causa e fine in cui ogni essenza va a perdersi, e da cui ogni essenza proviene.
Note:
1 Cfr. ad es. Gianna Chiesa Isnardi, Miti nordici, Longanesi 2012.
2 Questa precisazione linguistica è importante perché impoverendosi una lingua, mescolando e sovrapponendo parole che un tempo avevano significati precisi e differenti, si impoverisce anche il pensiero. Un vocabolario ricco, capace di distinguere le sfumature dell’esperienza sensibile, aiuta a mantenete chiarezza interiore.
3 Similmente nella Kabala il termine Neschamah, lo spirito, non si riferisce allo Spirito Puro, Il Principio Primo sovraindividuale, ma all’intelligenza finissima in grado di rifletterlo e renderlo in qualche modo intuibile: potrebbe essere assimilato alla buddhi indiana, al nous greco ecc…
4 Cfr. F. d’Olivet, I Versi Aurei di Pitagora, Luni.
5 Dobbiamo precisare che è bene non confondere l’intuito con l’istinto, provenendo quest’ultimo “dal basso”, il primo “dall’alto”: l’uno è una reazione animale a qualche stimolo esterno od interno, l’altro è un contatto col mondo spirituale. La differenza è molto sottile ma c’è, ed è bene imparare a distinguere l’operato di entrambi dentro di sé.
6 Si comprenderà quindi che le vie ascetiche che prescrivevano diversi gradi di dominio su se stessi, lo fecero per un fine altamente pratico, scevro da ogni aspetto morale, essendo la preparazione all’elevazione dell’Essere, impossibilitata se si è preda di brame e se non si è padroni del proprio triplice mondo (fisico-emotivo-mentale) : come scriveva Edward Bulwer-Lytton nel romanzo iniziatico Zanoni, per bocca dell’ultimo Rosacroce Mejnour, “l’anima è uno specchio che può riflettere o le passioni del corpo o la luce dello Spirito, mai entrambe contemporaneamente.”
7 Per approfondire ciò si confronti Platone, Timeo, nonché quanto esposto nel primo capitolo del nostro saggio L’uomo alla Luce delle Cosmogonie Arcaiche.
8 Paradiso, XXXIII, 85-90.
9 Vedi Proclo, Tria opuscula – Provvidenza Libertà Male, Bompiani.
10 Su questi concetti cfr. ad es. Bhagavadgita; MÄį¹įøÅ«kya Upaniį¹£ad; J. Evola, Lo Yoga della Potenza, Mediterranee; M. Eliade, Lo Yoga: Immortalità e Liberta, Bur e S. Moggio, L’Uomo alla Luce delle Cosmogonie Arcaiche.